LA GRADUAZIONE DEI MOTIVI DI RICORSO ALLA LUCE DEL PRINCIPIO DI EFFETTIVITÀ DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO. IN PARTICOLARE IL VIZIO DI INCOMPETENZA

 

 

LA GRADUAZIONE DEI MOTIVI DI RICORSO ALLA LUCE DEL PRINCIPIO DI EFFETTIVITÀ DEL PROCESSO AMMINISTRATIVO. IN PARTICOLARE IL VIZIO DI INCOMPETENZA

Pubblicato il 17/11/2015 autore Valentina Zuccherino

I principi generali dell’ordinamento che informano il diritto sostanziale spiegano i loro effetti, condizionandone la disciplina, anche sul diritto processuale. Diritto sostanziale e processuale, anzi, devono procedere in accordo: un diritto sostanziale rispettoso dei principi generali che tuttavia non si traduca in meccanismi processuali idonei a garantirne lo scopo rischia di essere un diritto declamatorio ed inefficace.

Per questa ragione occorre guardare agli istituti di diritto processuale rammentando che le questioni interpretative da essi sollevate non trovano soluzione nel sistema chiuso dei codici di rito, ma nel dialogo incessante e necessario tra principi generali, norme di diritto sostanziale e norme di diritto processuale.

Il tema della graduazione dei motivi nel ricorso amministrativo va dunque affrontato facendo applicazione di questo metodo di indagine che tiene conto delle ragioni sostanziali su cui poggiano le diverse teorie emerse in proposito in seno alla giurisprudenza e alla dottrina.

Occorre innanzitutto premettere che nell’ambito del processo amministrativo con  l’espressione “graduazione dei motivi”ci si riferisce alla facoltà del ricorrente di prospettare i motivi di ricorso secondo l’ordine che più ritiene rispondente al proprio interesse concreto, graduandoli in una successione che antepone i motivi di illegittimità da sottoporre a trattazione prioritaria ai motivi da trattare in via subordinata e sussidiaria, nel solo caso di mancato accoglimento dei primi.

La graduazione dei motivi attiene cioè alla topografia del ricorso amministrativo che, salvo quanto più avanti si dirà, può essere liberamente impostata dal ricorrente in applicazione del  principio dispositivo- o meglio di un suo corollario- che assegna al ricorrente l’onere di indicare il thema decidendum del processo.

Anche il processo amministrativo, infatti, è governato dal principio della domanda in virtù del quale spetta ( esclusivamente) alla parte interessata sollecitare il potere giudiziario per ottenere la tutela della propria posizione giuridica. A bene vedere, il codice del processo amministrativo non ha positivizzato espressamente il principio dispositivo che, tuttavia, in quanto principio generale, deve ritenersi operante nell’ambito dell’intero ordinamento anche in assenza di previsione esplicita; inoltre l’art. 39 c.p.a. contiene una clausola di rinvio esterno alla disciplina del processo civile la cui operatività è subordinata ad una verifica di compatibilità che è certamente soddisfatta con riferimento alla applicabilità dei principi affermati negli artt. 99 e 112 c.p.c..

In accordo con le premesse di questa analisi emerge come la questione della graduazione dei motivi da parte del ricorrente, lungi dall’essere rilegata nell’ambito delle convenzioni processuali, attenga alla esatta perimetrazione del principio dispositivo nell’ambito del processo amministrativo.

A sua volta il principio dispositivo e  quello della corrispondenza  tra chiesto e pronunciato sono corollari del diritto sostanziale ed in particolare del diritto di difesa che gode di copertura costituzionale. L’art. 24 Cost., infatti, prevede che ciascuno può agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi e qualifica il diritto di difesa come inviolabile.

Il dettato costituzionale, oltre ad implicare il generale- ma non assoluto- principio della domanda ( “ciascuno può agire in giudizio”), pare assumere come centrale la tutela delle posizione giuridiche soggettive: sebbene attraverso il cosiddetto “private enforcement” si ristabilisca la legalità violata nell’interesse generale,  l’obiettivo immediato del ricorso alla giustizia sembra essere la tutela delle posizioni giuridiche soggettive.

Come ha di recente ri-affermato il Consiglio di Stato, infatti, la giustizia amministrativa resta una giurisdizione di diritto soggettivo nonostante il ruolo ineliminabile della tutela dell’interesse pubblico. Ciò significa, da un lato, che lo scopo immediato e principale del processo amministrativo è quello di assicurare tutela agli interessi legittimi o diritti soggettivi della parte nelle controversie che la oppongono alla p.a. e, dall’altro, che il ricorso non costituisce soltanto un atto di impulso (come avviene- salvo che si possa procedere d’ufficio- nel processo penale che è invece l’esempio di giurisdizione di tipo oggettivo per eccellenza), ma è l’atto ( necessario e sufficiente) con la quale la parte chiede tutela giurisdizionale e delimita il thema decidendum del processo.

La centralità accordata alla tutela dell’interesse concreto della parte trova dunque la sua fonte nel diritto di difesa così come declinato nella fonte suprema dell’ordinamento. Al fine di assicurare che tale diritto sia tutelato nella sua  pienezza, inoltre, sia l’ordinamento nazionale che quello europeo (che oggi assumono la fisionomia di un unico ordinamento integrato) richiedono che gli strumenti di tutela a disposizione delle parti rispettino un altro principio che è quello di effettività.

In particolare il  principio di effettività  ha da sempre avuto grande rilevanza nell’ambito dell’ordinamento europeo che impone agli Stati membri di adottare tutti gli strumenti possibili per assicurare al loro interno l’effettività del diritto sovranazionale: nell’ambito del diritto processuale amministrativo tale principio, nell’elaborazione della Corte di Giustizia,  è stato declinato nel dovere imposto agli Stati di assicurare la tutela delle posizioni giuridiche soggettive derivanti dal diritto UE la stessa tutela delle posizioni giuridiche che derivano dall’ordinamento nazionale, in termini di azioni a disposizione, termini per l’impugnazione ecc…

Le fonti positive interne del principio di effettività della tutela vanno invece ricercate nell’art. 24 Cost. che, qualificando il diritto alla difesa come diritto fondamentale, impone di assicurare allo stesso una tutela piena ed effettiva, nell’art. 113 Cost. che garantisce la tutela piena contro gli atti della pubblica amministrazione e nell’art. 117 Cost. nella parte in cui sottopone l’ esercizio dell’attività legislativa al rispetto dei vincoli derivanti dell’ordinamento europeo.

 A livello di fonte primaria, il principio di effettività è stato positivizzato inoltre nell’art. 1 del c.p.a.  il quale apre il codice di rito affermando che la giustizia amministrativa assicura una tutela piena ed effettiva secondo i principi della Costituzione e del diritto europeo.

Ora, sulla base delle premesse sin qui svolte, e avvicinandoci alla questione centrale dell’analisi, bisogna intendersi sul significato di tutela effettiva. La tutela è effettiva quando risponde all’interesse concreto ( e legittimo) del ricorrente? Il parametro di riferimento nella valutazione della  effettività della tutela è, in modo univoco, il soddisfacimento dell’interesse della parte anche a scapito dell’interesse pubblico? Ci sono delle ipotesi in cui la tutela effettiva delle posizioni giuridiche soggettive nel diritto amministrativo deve eccezionalmente cedere il passo alla tutela dell’interesse pubblico?

E’ infatti sul terreno segnato dalla tensione tra tutela dell’interesse generale e tutela delle posizioni giuridiche soggettive/principio dispositivo che si deve collocare l’analisi relativa all’estensione della libertà della parte di graduare i motivi di ricorso e alla vincolatività di tale ordine per il giudice.

Per meglio comprendere i termini del problema si pensi alle controversie relative alle procedure pubbliche di selezione, ed in particolare alle gare per l’individuazione dell’aggiudicatario nei contratti pubblici: l’interesse primario del ricorrente ( generalmente il primo escluso dall’aggiudicazione ) è quello di ottenere l’annullamento dell’aggiudicazione per subentrare nella posizione dell’aggiudicatario e ottenere il bene della vita cui aspirava partecipando alla procedura di evidenza pubblica. Ove tuttavia, oltre ai vizi dell’aggiudicazione, il ricorrente faccia valere-in via subordinata- anche vizi della procedura ( ad esempio la violazione delle regole di trasparenza e pubblicità nella apertura delle buste contenenti le offerte o delle regole sulla composizione della commissione di gara) tali da comportare l’annullamento dell’intera gara, ci si chiede se il giudice sia tenuto a seguire l’ordine dei motivi così come prospettato dal ricorrente o meno.

Nel primo caso, infatti, il giudice dovrebbe accogliere il ricorso e annullare l’aggiudicazione sulla base del primo motivo (ove fondato), assorbendo le censure relative all’intera procedura dal momento che le due domande di annullamento sono logicamente incompatibili. Così optando ci sarebbe, senza dubbio, assoluta corrispondenza tra chiesto e pronunciato e la sentenza risponderebbe al miglior interesse del ricorrente che mira in via principale a subentrare nel contratto e solo in via residuale e sussidiaria alla ripetizione della gara, posto che, annullata la gara, il giudice non può obbligare la p.a. a rinnovarla, né il ricorrente è certo di aggiudicarsi il contratto nell’eventuale riedizione della selezione pubblica.

Adottando questa soluzione cioè il principio dispositivo risulta affermato ed applicato in modo pieno così come il principio di effettività della tutela, laddove l’effettività si misuri con esclusivo riferimento all’interesse concreto della parte. Guardando oltre la posizione del ricorrente, tuttavia, è facile comprendere come tale soluzione non soddisfi necessariamente l’interesse generale: se nell’esempio citato anche i motivi relativi ai vizi dell’intera procedura erano fondati, ma sono stati assorbiti, è evidente che l’appalto è stato ri-assegnato all’esito di una procedura viziata.

Tale contrasto tra interesse generale e interesse particolare ha costituito la premessa del contrasto giurisprudenziale relativo alla vincolatività dell’ordine di prospettazione dei motivi di ricorso per il giudice.

L’orientamento più tradizionale, preoccupato di assicurare prevalenza all’interesse generale, ha  sostenuto che spetta sempre al giudice decidere l’ordine di trattazione dei motivi di ricorso sulla (sola) base della loro consistenza oggettiva e del rapporto di successione logica fra gli stessi, a prescindere dalla prospettazione di parte nel ricorso.

L’orientamento oggi prevalente, al contrario, distingue tra giudizi in cui l’interesse pubblico deve essere assolutamente prevalente -e  quindi non alterabile dalla parte attraverso l’ordine di prospettazione delle censure- e giudizi nei quali, invece, fermo il generale obbligo del giudice di pronunciarsi su tutti i vizi, la pronuncia deve rispondere all’interesse della parte così come prospettato attraverso la graduazione dei motivi nel ricorso. Fra i primi rientrano ad esempio i giudizi di costituzionalità delle leggi in cui i giudici della Corte Costituzionale non sono vincolati all’ordine di prospettazione delle censure di costituzionalità né ai parametri costituzionali utilizzati dal giudice a quo nel sollevare la questione; al secondo gruppo appartengono invece proprio il processo civile e quello amministrativo connotati dal principio di parità delle parti e da quello dispositivo.

Guardando al diritto vivente, quindi, possiamo affermare che nel processo amministrativo l’ordine di prospettazione dei motivi di ricorso è tendenzialmente vincolante per il giudice il quale, investito del sindacato sulla legittimità di uno o più atti, deve trattare per primo il motivo che la parte ha indicato espressamente come prioritario e, solo in caso di mancato accoglimento di questo, proseguire nella trattazione dei motivi indicati come subordinati.

E’ tuttavia onere della parte graduare in modo espresso i motivi di ricorso non potendo il giudice sostituirsi alla parte nella valutazione del proprio interesse sulla base di arbitrarie intuizioni o affidandosi alla mera successione numerica dei motivi di ricorso.

Sulla validità di questa regola si è tuttavia dubitato quando nei motivi di ricorso venga denunciato il vizio di incompetenza. In particolare, viene in rilievo il tradizionale vizio di incompetenza relativa che colpisce l’atto amministrativo emanato da un’autorità pur appartenente al plesso della pubblica amministrazione cui la legge attribuisce il potere di provvedere, ma non competente in concreto ad emanare il provvedimento impugnato sulla base di criteri quali il grado, il territorio o la materia. Sulla base dell’art. 21- octies della legge sul procedimento amministrativo (l. 241/90) il vizio di incompetenza relativa comporta la annullabilità del provvedimento amministrativo  a differenza del più grave vizio di incompetenza assoluta che rientra invece tra le cause tassative di nullità dell’atto introdotte ad opera della l. 15/2005 e positivizzate nell’art. 21- septies l. 241/90.

Ebbene, il dubbio deriva dal fatto che prima dell’entrata in vigore del c.p.a., l’art. 26, co.2  l. T.a.r. imponeva al giudice di rimettere l’affare all’autorità competente in caso di accoglimento del vizio di incompetenza.

Tale disposizione era stata interpretata dall’orientamento assolutamente consolidato della giurisprudenza come implicante la necessaria trattazione prioritaria del motivo relativo all’incompetenza, a prescindere dall’ordine dei motivi prospettati nel ricorso. Ciò in quanto una pronuncia sul merito di altri vizi di legittimità si sarebbe tradotta in una non ammissibile anticipazione della decisione provvedimentale della p.a. competente cui spettava la valutazione degli interessi coinvolti e che avrebbe potuto provvedere con un atto non viziato o addirittura non provvedere affatto.

Si era quindi affermato che la parte non potesse subordinare la trattazione del vizio di incompetenza a quella di altri vizi di legittimità ( o pretendere che il giudice si attenesse a tale ordine di prospettazione) anche in ragione del fatto che, così opinando, si sarebbe violato il principio del contraddittorio. Il giudice con la sua pronuncia, infatti,  avrebbe sostanzialmente dettato degli obblighi conformativi -in concreto il contenuto dell’atto- ad una p.a. (quella competente) senza che questa avesse ancora esercitato il potere di provvedere ad essa attribuito dalla legge.

Per l’orientamento consolidatosi in seno alla giustizia amministrativa prima del c.p.a., dunque, l’accoglimento del motivo afferente il vizio di incompetenza doveva comportare l’assorbimento degli atri motivi di ricorso e la rimessione della questione all’autorità competente.

Il c.p.a., tuttavia, non ha riprodotto la disciplina dell’art. 26, co.2 l. T.a.r. e dunque, all’indomani della sua entrata in vigore, ci si è chiesti se la regola della trattazione prioritaria e assorbente del vizio di incompetenza fosse ancora valida o meno.

Ebbene, sulla questione si sono contrapposti due fronti interpretativi:

Il primo, fedele all’impostazione giurisprudenziale più tradizionale, ha affermato che dopo l’approvazione del c.p.a. nulla è cambiato con  riferimento all’obbligo del giudice di trattare prioritariamente il motivo afferente al vizio di incompetenza. Nonostante il codice di rito non abbia riprodotto il dettato del vecchio art. 26, co.2 l. T.a.r., il divieto per il giudice di sindacare gli atti emessi da una p.a. incompetente resta fermo in virtù dell’art. 34 co. 2 c.p.a. laddove prevede che “ in nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati”.

I motivi a sostegno di tale impostazione sono quelli tradizionalmente già enucleati dalla giustizia amministrativa prima del c.p.a e afferenti alla separazione dei poteri dello Stato e al principio del contraddittorio: il potere giudiziario non può invadere la riserva di amministrazione che la legge attribuisce alla p.a. né tanto meno dettare obblighi conformativi ad un soggetto che, oltre a non aver ancora provveduto, non ha mai preso parte al processo.

Laddove il ricorso denunci un vizio di incompetenza, a prescindere dalla posizione che il relativo motivo occupi nella successione delle censure prospettate col ricorso,  il giudice deve quindi trattarlo prioritariamente e, se fondato, trasmettere l’affare all’autorità competente a provvedere.

A bene vedere, laddove la parte abbia subordinato il motivo afferente l’incompetenza alla trattazione di motivi relativi ad altri vizi di legittimità, ci si chiede se il giudice debba dichiarare inammissibile il ricorso per carenza di interesse ( ricavabile dalla graduazione dei motivi) o  accogliere il ricorso e annullare comunque il provvedimento emanato dall’autorità incompetente.

Su altro fronte, invece, parte della giurisprudenza ha affermato che la mancata riproduzione dell’art. 26, co.2 l. T.a.r. corrisponde alla volontà del legislatore  di allargare il perimetro operativo del principio dispositivo e del principio di effettività della tutela nel processo amministrativo.

In questo senso, occorre accordare prevalenza all’interesse concreto della parte così come emerge dal ricorso, anche a scapito dell’interesse pubblico alla legalità dell’azione amministrativa ed in un’ottica di rapida soluzione dei conflitti che giovi anche all’ordine pubblico economico.

La questione della graduabilità dei motivi di ricorso ( ed in particolare quello relativo al vizio di incompetenza) e del relativo obbligo di osservanza del giudice  è stata di recente sottoposta all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

Il supremo consesso amministrativo si è espresso con una pronuncia che conferma l’orientamento tradizionale pur potendosi considerare innovativa nel suo complesso.

Sul quesito circa l’estensione della facoltà della parte di graduare i motivi di ricorso l’Adunanza Plenaria ha infatti affermato l’esistenza di una regola e di un’ eccezione: la regola è quella per cui il giudice è vincolato all’ordine di trattazione dei motivi così come prospettato dal ricorrente mentre l’eccezione a tale obbligo si concretizza quando il vizio fatto valere si traduca, ex art. 34, co.2 c.p.a., nel mancato esercizio di potere attribuito dalla legge all’autorità competente.

L’eccezione all’obbligo di trattare i motivi nell’ordine di prospettazione del ricorso si riferisce dunque espressamente al caso in cui il ricorrente faccia valere un fondato vizio di incompetenza dell’atto impugnato.

La pronuncia nell’ambito della quale tale principio viene affermato è tuttavia particolarmente significativa perché evidentemente volta a ridimensionare l’uso (abuso) del metodo di assorbimento dei motivi:  l’Adunanza Plenaria afferma in modo espresso che il metodo dell’assorbimento dei  motivi è di regola vietato e che incombe sul giudice il generale obbligo di pronunciarsi su tutti i  motivi. Enunciata la regola, tuttavia, l’Adunanza individua una serie di eccezioni al divieto di assorbimento, ascrivendole a tre categorie: l’assorbimento legale, per pregiudizialità necessaria e per ragioni di economia.

Senza approfondire in questa sede l’estesa pronuncia da ultimo menzionata, è sufficiente osservare come l’Adunanza collochi l’eccezione costituita dall’obbligo di trattazione prioritaria del vizio di incompetenza nell’ipotesi della pregiudizialità necessaria, che si verifica quando i vizi denunciati siano riferiti a cause di invalidità (sostanziali e non meramente formali) così gravi e radicali che l’interesse concreto del privato debba essere eccezionalmente sacrificato- disattendendo l’ordine di prospettazione dei motivi del suo ricorso- a tutela dell’interesse collettivo alla legalità dell’azione amministrativa.

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