IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA E LE SITUAZIONI GIURIDICHE DEL CONCEPITO: LA RISPOSTA DELLE SEZIONI UNITE

 

IL DANNO DA NASCITA INDESIDERATA E LE SITUAZIONI GIURIDICHE DEL CONCEPITO: LA RISPOSTA DELLE SEZIONI UNITE

Pubblicato il 25/01/2016 autore Giorgia Mantegazza

Il codice civile del 1942 rappresenta la sintesi delle disposizioni del codice civile del 1865, da un lato, e del codice del commercio del 1885, dall’altro, conseguentemente è caratterizzato da una concezione patrimonialistica del diritto civile. Concezione che può dirsi essere stata trasposta appieno nell’art. 1 c.c., il quale prevede al comma I : “la capacità giuridica si acquista al momento della nascita”. Tale disposizione ha il pregio di porre la nascita – intesa come attimo di vita, ancorchè alla stessa segua la morte del bambino, ovvero anche se il bambino nasca con patologie, handicap e malformazioni – come momento a partire dal quale ogni persona fisica è idoneo centro di imputazione di diritti e di doveri, superando quelle concezioni arcaiche per le quali lo status di persona umana non era talvolta condizione sufficiente per poter essere titolari di diritti (e doveri) (pensiamo al diritto romano che distingueva tra uomini liberi e schiavi al fine di riconoscere un diverso grado di capacità giuridica a seconda del soggetto considerato). Tuttavia, tale disposizione sembra escludere la dignità giuridica e ogni interesse dell’ordinamento per il concepito e per le situazioni giuridiche ad esso riferibili. Una visione maggiormente aperturista sembra espressa dal comma II di questa stessa disposizione, che recita: “I diritti che la legge riconosce in favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita”.

Il sillogismo di base è semplice se il concepito diviene soggetto di diritto e dunque idoneo centro di imputazione di diritti e di doveri solo con la nascita, fino a quel momento egli non esisterà per l’ordinamento giuridico e non potrà conseguentemente reclamare alcun diritto, al momento della cui genesi egli non esisteva ancora, se non quando si tratti di un diritto riconosciutagli espressamente dal legislatore.

Alla luce di un’interpretazione strettamente letterale della norma in esame, si potrebbe pensare che le ipotesi richiamate dal comma II siano di fatto eccezioni al principio generale di cui al comma I, come tali: tipiche, suscettibili di un’interpretazione restrittiva ed alla luce della concezione patrimonialistica, che abbiamo visto caratterizzate l’attuale normativa codicistica, idonee a riconoscere rilevanza giuridica al concepito solo nell’ambito di ipotesi in cui rilevino interessi e rapporti giuridici di natura patrimoniale. Pensiamo, tra gli altri, in particolare alla norma che attribuisce il diritto (condizionato alla nascita) di succedere per testamento a colui che alla morte del de cuius sia concepito ma non ancora nato. Con ciò evidenziandosi la considerazione delle successioni da parte del legislatore quali strumenti di trasferimento della ricchezza a ribadire la rilevanza giuridica del concepito essenzialmente in un’ ottica patrimonialistica. Possiamo poi ricordare come l’ordinamento riconosca il diritto di istituire donatario addirittura un soggetto all’epoca non ancora concepito, ma figlio di una persona vivente. In quanto finora esposto potremmo ravvisare una similitudine tra il nostro ordinamento attuale ed il diritto romano. Non solo perché anche nell’ambito di quest’ultimo, come è oggi nell’ordinamento italiano, la capacità giuridica si acquistava al momento della nascita e si perdeva con la morte, ma anche in quanto la rilevanza giuridica riconosciuta al concepito dal diritto romano era riflessa (veniva punito il procurato aborto, non però nell’ottica della salvaguardia della vita del concepito, ma quale tutela del diritto del marito alla c.d. spes prolis) e pur sempre legata ad interessi essenzialmente di natura patrimoniale. La tematica relativa alla natura e alla dignità giuridica da riconoscersi al concepito è infatti una questione che interessa il dibattito giuridico dai tempi del diritto romano classico: escluso che il concepito potesse dirsi “uomo” sono state elaborate sul punto due principali tesi, la prima sintetizzata dal brocardo latino, conceputs pro iam natur (habetur) quotiens qui eius commodis agatur, elaborata dal giurista romano Paolo, che implicava l’opportunità di considerare il concepito al pari del nato in tutte quelle ipotesi in cui venissero in rilevo interessi di natura economico-patrimoniale meritevoli di tutela; e la seconda che non considerava il concepito ancora in rerum natura ma come mulieris portio vel vicerum, dunque riconosciuta la facoltà di succedere dei postumi, consentiva al pretore di immettere la gestante nel possesso dei beni, con nomina di un c.d. curator ventris, che si occupasse della conservazione del patrimonio nell’interesse del concepito, in attesa della nascita dello stesso.

Pur tuttavia, riconoscere al concepito una rilevanza giuridica limitata ad aspetti e questioni patrimoniali contraddice l’importante movimento internazionale e comunitario che, dalla metà del secolo scorso, afferma l’assoluta preminenza del diritto alla vita nella scala assiologica dei valori della Comunità internazionale e dell’UE pensiamo, alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (New York, 1948 art. 3: “Ogni individuo ha diritto alla vita”), nonché alla Carta dei Diritti Fondamentali dell’Ue (Nizza, 2000 “Ogni individuo ha diritto alla vita”) ed ancora alla CEDU (Roma, 1950 art. 2 “Il diritto alla vita di ogni persona è protetto dalla legge”).

Un ripensamento della nozione di capacità giuridica e dunque della natura giuridica del concepito viene altresì imposto dalla Carta Costituzionale del 1948, va però premesso come essa faccia uso di termini ed espressioni che in qualche misura possono, a ragione, essere definite ondivaghe ed equivoche. L’art. 2 Cost. fa riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo, dunque potrebbe obbiettarsi che essendo il concepito essere umano in via di sviluppo, e non uomo in senso stretto, non gli si possa riconoscere la titolarità dei diritti di cui alla disposizione in parola. È, però, vero che l’art. 32 Cost. si riferisce alla salute come diritto fondamentale di ogni individuo, dunque potrebbe astrattamente riconoscersi un diritto alla salute che faccia capo al concepito anche nella sua fase di vita prenatale. Ancora si potrebbe ricordare l’art. 31 Cost. che riconosce tutela costituzionale alla maternità e all’infanzia, dunque da ciò potrebbe trarsi un argomento a favore del valore e della dignità giuridica da riconoscere al concepito.

Della questione è stata più volte investita anche la Corte Cost., la quale, in una pronuncia del 1975, richiamandosi proprio alle disposizioni costituzionali sopra viste, ha riconosciuto il fondamento costituzionale delle situazioni giuridiche del concepito nello stesso art. 2 Cost., pur negando, però. al concepito lo status di persona umana, sostenendo che l’embrione non è persona umana ma lo deve ancora diventare.

Ben si comprende, alla luce di quanto appena esposto, che una prima parte del dibattito relativo alla natura giuridica del concepito abbia riguardato l’opportunità di riconoscere allo stesso lo status di persona umana o meno, ed in caso positivo la possibilità di applicare allo stesso la disciplina giuridica prevista in relazione alle persone fisiche.

Rileva in merito la posizione di coloro che hanno ritenuto necessario distinguere la nozione di persona umana (il cui riconoscimento e la cui tutela viene demandata al diritto sociale ) e la nozione di soggetto giuridico (la cui individuazione è compito del diritto positivo), concludendo però nel senso che, come si evince dal nome stesso, i diritti fondamentali, prima ancora che soggettivi, sono diritti della persona, hanno un fondamento giunaturalistico, preesistono al loro riconoscimento da parte dell’ordinamento e come tali dovrebbero essere riconosciuti anche al concepito, quale persona in formazione.

Su questo versante si collocano le opinioni di coloro che ammettono la riconoscibilità del concepito come titolare di diritti in forza di argomentazioni, diverse tra loro, che individuano in capo allo stesso: una capacità giuridica limitata, ovvero provvisoria, speciale, anticipata o prenatale, ovvero una soggettività giuridica anticipata. La nozione di soggettività giuridica è il portato di una concezione personalistica del diritto civile, che ammette la rilevanza per l’ordinamento giuridico di enti (non solo come il concepito ma anche ad es. le associazioni non riconosciute), pur privi di personalità giuridica, ma rispetto alle cui situazioni giuridiche, anche e soprattutto di natura non patrimoniale, l’ordinamento ha interesse e riconosce tutela.

I sostenitori di tali tesi oppongono all’impostazione tradizionale – che vede il concepito nella sua fase prenatale titolare di una mera aspettativa, di diritti sospensivamente condizionati alla nascita, che in quanto tali sono (in questa fase privi di un effettivo titolare) al più meritevoli di una tutela conservativa finalizzata ad evitare che possano subire un pregiudizio durante la gestazione – un’opzione differente, che riconosce in capo al concepito una capacità risolutivamente condizionata alla mancata nascita, con piena riconoscibilità allo stesso di diritti anche nella sua fase di vita prenatale, quantomeno certamente i diritti fondamentali. Vi è invece chi, adottando una soluzione intermedia: la quale, tenuto conto della concezione patrimonialistica che è propria del codice civile e dell’opportunità di distinguere tra soggettività e capacità giuridica, subordina all’evento della nascita l’acquisto dei soli diritti di natura patrimoniale (ambito di operatività della capacità giuridica), ammettendo invece la piena titolarità di posizioni giuridiche di natura personale sin dalla fase di vita prenatale del concepito, ritenendolo un soggetto di diritto.

La tesi fondata sul riconoscimento di una soggettività giuridica in capo al concepito è contrastata da coloro che mirano al superamento di quello che definiscono un “convincimento tradizionale”, secondo il quale condizione necessaria perché l’ordinamento giuridico possa apprestare idonea tutela ad alcuni interessi e valori è il riconoscimento da parte dell’ordinamento stesso, quale soggetto giuridico, dell’ente a cui fanno capo. Tali autori, di contro, sostengono che spesso l’ordinamento giuridico potrebbe assicurare una migliore e più adeguata tutela a tali interessi e valori riconoscendoli come oggetto di tutela da parte propria. Anche se tale tesi si scontra spesso con i timori di reificazione del concepito, che sono stati espressi da alcuni autori, che pur non hanno tenuto in considerazione il fatto che lo stesso codice civile nel parlare di oggetto non si riferisce necessariamente ad una cosa, ma anche a beni di varia natura. Quindi, pur senza temere di offendere la dignità del concepito, si potrebbe immaginare una nozione di oggetto di tutela idonea a ricomprendere quest’ultimo, anche eventualmente accordandogli, come ipotizzato da alcuni esponenti della dottrina, l’applicazione della disciplina giuridica prevista in relazione alle persone fisiche, in quanto portatore dell’essenza umana anche se ancora essere in divenire.

Lungo questa direttrice si collocano poi anche le tesi, elaborate da coloro che considerano la questione in termini di contrapposizione tra cosa e persona. In tale ambito, una prima teoria è quella che partendo dall’impossibilità di considerare il concepito “cosa”, lo considerano persona, tertium non datur, con conseguente applicazione anche in favore del concepito della disciplina giuridica prevista per le persone fisiche. Ed anche, coloro che in ragione del c.d. criterio biologico, assicurano al concepito, cui è propria la struttura biologica umana, l’applicazione della relativa disciplina giuridica. A questi ultimi autori, si contrappongono coloro che, invece, escludono la riconoscibilità del concepito come destinatario della disciplina giuridica propria della persona umana, in quanto nel concepito è assente quella capacità di entrare in relazione con i propri simili e quella capacità di tenere il comportamento prescritto dalla norma, che vengono ritenute condizioni essenziali per essere titolari di diritti e doveri.

Merita sul tema di essere segnalata quella giurisprudenza della Suprema Corte che, compendiando alcune delle teorie appena analizzate, è giunta a riconoscere il concepito quale soggetto di diritto, per non accordandogli lo status di persona umana. Prendendo le mosse dalla clausola generale della c.d. centralità della persona nel nostro ordinamento giuridico, la Corte, richiamandosi a quanto già sostenuto dalla Consulta nel 1975, ha chiarito che l’embrione non è persona umana, perché ancora lo deve diventare, tuttavia ha ritenuto che il riconoscimento in capo al concepito di un’aspettativa o di diritti condizionati alla nascita, faccia di per sé dello stesso un soggetto di diritto.

Se un ampio e vivace dibattito ha interessato la dottrina in ordine alla riconoscibilità o meno al concepito dello status di soggetto di diritto e ad i diritti di cui quest’ultimo può dirsi titolare nella sua fase di vita prenatale, non meno interessante e attivo è stato, ed è tutt’oggi, il ruolo della giurisprudenza nel delineare il tema.

Sin dagli anni 70, la giurisprudenza di legittimità investita della questione relativa alla legittimazione del concepito di far valere una volta nato il proprio diritto al risarcimento dei danni subiti nel corso della gestazione per fatto illecito, ne ha dato una soluzione negativa. Ciò ancorandosi all’interpretazione letterale dell’art. 1 c.c., per cui il concepito non può dirsi capace giuridicamente, centro di imputazione di diritti e doveri sino alla nascita, al di fuori delle ipotesi eccezionali previste expressis verbis dal legislatore, e come tale non può reclamare un diritto al momento della cui genesi egli non esisteva per l’ordinamento giuridico. In particolare, tale giurisprudenza ha individuato quale condizione della risarcibilità del danno: una contestualità temporale tra il fatto lesivo e il prodursi degli effetti pregiudizievoli dello stesso, imponendo dunque la necessaria presenza di una relazione attuale tra danneggiante- agente e danneggiato al momento dell’illecito.

Tale impostazione negazionista è stata superata grazie alla giurisprudenza di merito, in particolare grazie a quelle pronunce relative al c.d. danno da lesione del rapporto parentale, che hanno fornito una nuova lettura dell’art. 2043 c.c. e della nozione di danno ingiusto, che è stato ritenuto: il c.d. danno contra ius provocato in assenza di una causa di giustificazione, ma anche il danno non iure, avendo rilievo ai fini della responsabilità aquiliana, non solo la condotta lesiva di un diritto soggettivo assoluto, ma anche di un diritto soggettivo relativo e di ogni altro interesse o posizione giuridica soggettiva meritevole di tutela per l’ordinamento giuridico. È stata ammessa dunque la risarcibilità dei c.d. danni futuri che subisce un figlio per effetto di un illecito realizzatosi nella fase della gestazione, che lo vede privato dello status famigliare in conseguenza della morte del padre, ma le cui conseguenze pregiudizievoli si realizzano unicamente una volta che il bambino sia venuto al mondo. È stata così esclusa la natura necessaria della contestualità cronologica tra fatto illecito e effetti pregiudizievoli, al pari della sussistenza di una relazione attuale tra danneggiante e danneggiato. Un illecito come quello sopra descritto è oggi qualificato come illecito plurilesivo, in quanto idoneo ad incidere negativamente su di più soggetti (viene dunque meno la categoria dei c.d. danni da rimbalzo) in base al criterio della prevedibilità ed evitabilità dell’evento. Risponde, infatti, al criterio della regolarità causale ed è dunque prevedibile, che cagionare la morte di un soggetto abbia una ripercussione negativa sugli interessi materiale e personali dei prossimi congiunti della vittima, con conseguente piena risarcibilità del danno, anche in favore di colui che fosse concepito al momento dell’illecito, come sancito peraltro dall’art. 21 l. 990/1969.

La natura giuridica del concepito e la sua legittimazione al risarcimento danni sono questioni centrali del tema relativo al c.d. danno da nascita indesiderata.

Quello che comunemente viene definito danno da nascita indesiderata è un fenomeno dalle molteplici sfaccettature. In primo luogo, possiamo ricordare il c.d. danno da bambino non voluto, il danno biologico risarcibile in favore di coloro che, essendosi determinati a non avere figli, si fossero sottoposti ad un intervento di sterilizzazione o di interruzione volontaria di gravidanza, il quale tuttavia mal eseguito abbia portato alla nascita di un figlio. Tale danno viene liquidato dalla giurisprudenza quale danno patrimoniale, in misura corrispondente alla somma di denaro che si riterrà necessaria al mantenimento del bambino non voluto sino alla sua indipendenza economica (che oggi può coincidere non più con la sola maggior età, ma con la vita adulta). In ipotesi come quelle appena richiamate la giurisprudenza ha riconosciuto la risarcibilità in capo alla donna del c.d. danno biologico da parto, il danno che consegue alle lesioni, alla sofferenza, al dolore e all’inabilità fisica temporanea, che la donna subisce in conseguenza del parto. Altra situazione, uguale opposta, a quella considerata è quella in cui una coppia venga erroneamente informata, dopo essersi sottoposta ad un esame strumentale volto a conoscere l’andamento della gravidanza, dell’esito infausto della stessa, che invece si concluderà con la nascita di un bambino sano. La giurisprudenza ha ammesso in questi casi la risarcibilità del c.d. danno ecografico, coincidente con la sofferenza ingiustamente subita dalla coppia per effetto dell’errata diagnosi medica.

Ferme restando le ipotesi sopra considerate, importanza principale nell’ambito della tematica considerata ha il c.d. danno da nascita infelice, il quale si suole ricondurre alle ipotesi in cui in conseguenza di un errore medico il neonato riporti delle patologie o degli handicap. È bene distinguere due categorie di casi distinti.

Una prima serie di casi riguarda le ipotesi in cui venga accertata una responsabilità del medico per danneggiamento del feto, in questo caso la risarcibilità del danno è ammessa in favore della madre, del padre, dei germani, ma anche del feto, poiché la condotta attiva od omissiva del sanitario si pone come certo antecedente causale del danno subito dal feto. Ad essere risarcito è anche in questo caso, come nel danno da lesione del rapporto parentale, un danno futuro, i cui presupposti fattuali si sono realizzati durante la gestazione, ma le cui conseguenze pregiudizievoli si producono alla nascita del bambino, con conseguente ristorabilità del danno a partire da quel momento, come altresì previsto dall’art. 41 c.p.

Una seconda serie di casi, sui quali peraltro si è incentrato maggiormente il dibattito giurisprudenziale, che lungi dal potersi dire concluso vista la recente nuova pronuncia delle sezioni unite del 22 dicembre 2015, riguarda l’ipotesi in cui il sanitario può dirsi solo autore mediato del danno, in quanto, per aver mancato di adempiere al proprio obbligo informativo, ovvero per aver omesso di diagnosticare una malformazione fetale, ha leso il diritto all’autodeterminazione terapeutica della donna, precludendole, pur ricorrendone i presupposti di legge, di procedere all’interruzione di gravidanza, che avrebbe impedito la nascita del bambino, che nato con degli handicap si trova a dover vivere una vita segnata dalla malattia e quindi priva della possibilità di libera esplicazione della propria personalità.

La giurisprudenza nazionale, e non, sul punto è sempre stata incline ad accogliere le domande di risarcimento promosse dai genitori, ma a rigettare le domande di risarcimento del danno lamentato, iure proprio a mezzo dei propri legali rappresentanti, dal bambino nato con handicap.

Fa eccezione un importante caso esaminato dalla giurisprudenza francese c.d. Affaire Perruche (2001), nell’ambito del quale la corte di cassazione francese ha attuato un revirement della decisione del giudice di prime cure (pronunciatosi in senso conforme al tradizionale orientamento negazionista), formulando il principio di diritto per cui: quando nell’ambito di un contratto concluso con una donna incinta venga accertato un errore medico (nel caso era l’omessa diagnosi di una malformazione fetale, per il cui accertamento la donna aveva richiesto di essere sottoposta ad accertamenti, formulando in caso di esito positivo dei test l’intenzione di procedere all’interruzione volontaria di gravidanza), che abbia precluso alla donna l’esercizio del diritto all’aborto, il quale avrebbe evitato la nascita di un bambino portatore di handicap, accertata l’esistenza di un nesso causale tra la condotta del sanitario e il danno, tale pregiudizio (l’handicap) dovrà essere risarcibile anche in favore del neonato. L’incidenza effettiva di tale pronuncia è stata significativamente, se non totalmente, limitata in Francia da un intervento normativo immediatamente successivo, che ha escluso la risarcibilità del danno lamentato iure proprio dal neonato in tutti i casi in cui la patologia non sia stata aggravata, determinata o evitata da un errore medico.

Purtuttavia, tale pronuncia ha stimolato il dibattito giurisprudenziale italiano, che è stato caratterizzato da importanti pronunce del 2004, 2009, 2012 (allorchè vi è stata una prima remissione della questione alle Sezioni Unite) e in ultimo come accennato del 2015 con una nuova remissione della questione alle Sezioni Unite.

Le tre tematiche salienti che hanno caratterizzato le pronunce sopra elencate sono senza dubbio: la legittimazione giuridica del concepito, l’onus provandi gravante sulla gestante e la causalità tra condotta negligente del medico e nascita malformata del bambino.

Ora, con riguardo alla legittimazione del neonato al risarcimento del danno lamentato iure, proprio la tesi negazionista è a tutt’oggi quella prevalente ( è stata infatti confermata dalle Sez. Un. 2015), queste le principali argomentazioni addotte a sostegno.

Con la legge 194/1978 in materia di interruzione volontaria di gravidanza, il legislatore italiano ha elaborato una gerarchia di valori dai quali è possibile evincere, fuori da ogni dubbio, la natura eccezionale delle ipotesi permissive – legate non alla semplice esistenza a carico del nascituro di malformazioni, ma anche ed imprescindibilmente alla ricorrenza di un pericolo grave per la salute fisica e psichica, ovvero per la vita della donna (art. 6 l. 194/78), al di fuori delle quali l’aborto rimane un delitto – la ricorrenza delle quali opera non solo come esimente dalla responsabilità penale, ma fonda un vero e proprio diritto all’autodeterminazione terapeutica della donna. Vige nel nostro ordinamento un divieto di aborto eugenetico o di utilizzo dell’aborto quale strumento di controllo delle nascite o di programmazione famigliare.

Il quadro normativo sopra richiamato evidenzia come il legislatore abbia con ciò voluto realizzare un bilanciamento tra interessi contrapposti: da un lato, il diritto alla salute della madre, dall’altro l’interesse alla vita del concepito, secondo una logica che riconosce natura preminente al primo, quale forma di una tutela e di salvaguardia di una persona già esistente e un ruolo recessivo al secondo (che pur secondo quanto sancito dalla Consulta nel 1997 deve essere tutelato quando ciò sia possibile in situazioni che vedano in pericolo tanto la madre quanto il feto).

Il bilanciamento di interessi realizzato dalla norma rappresenta di per sé un argomento dirimente in ordine all’assenza di legittimazione ad agire del nato malformato, se infatti il concepito fosse considerato dal legislatore(in antinomia con quanto previsto dall’art. 1 c.c.) soggetto di diritto anche nella sua fase di vita prenatale, non vi sarebbe dubbio che il bilanciamento di interessi opererebbe in senso inverso, in favore del diritto alla vita – bene al vertice dell’ordine assiologico di valori dell’ordinamento giuridico – del concepito rispetto, al pur fondamentale ma recessivo, diritto alla salute della donna.

A ciò si aggiunga l’affermata sussistenza nel nostro ordinamento giuridico di una presuzione juris et de jure di preferibilità della vita, ancorchè malata. Ciò preclude in radice la configurabilità in capo al concepito di un diritto a non nascere (se non sano), la non vita non può assurgere a bene della vita in ragione del principio contraddizion nol consente. Quand’anche si ammettesse la configurabilità di un tal diritto si tratterebbe di un diritto adesposta: esso sussisterebbe solo durante la fase di vita prenatale del concepito – momento in cui tuttavia ai sensi dell’art. 1 c.c. l’ordinamento esclude la capacità dello stesso ad essere centro di imputazione di diritti e doveri – e cesserebbe di esistere con la nascita del bambino, proprio quando quest’ultimo diviene per l’ordinamento soggetto di diritto. Si tratterebbe dunque, altresì, di un diritto che verrebbe ad esistenza solo a seguito di una sua violazione – la sua violazione implicherebbe la nascita del bambino e la conseguente idoneità dello stesso ad esserne titolare. Ove anche si ammettesse la configurabilità di un tale diritto, fondato sul rifiuto della vita perché malata, quale sarebbe il livello di gravità della patologia atto a giustificare la sussistenza di un tale diritto, chi la persona legittimata ad operare una tale valutazione (non certo il concepito, privo di capacità relazionali, il medico, la madre, i genitori). Se si ammettesse un diritto a non nascere se non sano, allora, perché non ammettere, anzi pretendere, imponendo un obbligo in tal senso alla madre, il ricorso all’aborto, anche in assenza di condizioni di grave pericolo per la donna. Con ciò però si sovvertirebbe integralmente l’impostazione attuale fondata sul riconoscimento in capo alla madre di un diritto all’autodeterminazione. Infine si consideri, a fondamento della tesi negazionista, l’assurdità a cui si arriverebbe nell’affermare in ragione di un diritto a non nascere se non sano di una responsabilità per la madre, che, quand’anche opportunamente informata delle patologie di cui è portatore il feto, non abbia inteso interrompere la gravidanza, così imponendo al bambino di vivere una vita malata. Si consideri la contraddizione in termini a cui conduce l’imputazione di responsabilità ad uomo (al medico, ma in senso assoluto la contraddizione si avverte se si ragiona sulla figura della madre) di un evento naturale: i crismi della responsabilità civile impongono, quale fondamento della responsabilità, l’esistenza di una condotta umana e non naturale che abbia determinato l’evento (ex art. 1227 e 2055 c.c.), e la nascita è senz’altro un evento della natura (per quanto taluno tenda a ricostruirla sempre più come il frutto del concorso del medico e delle tecnologie di PMA).

Tale impostazione negazionista è stata oggetto di importanti critiche, poi superate dalle sezioni Unite del 2015, che sono state formulate nel senso che segue:

Una prima critica ha riguardato il fatto che con la sentenza del 2004 si è ampliata la legittimazione ad agire a titolo di risarcimento del danno, non più solo alla gestante, ma anche al padre del nascituro e ai germani dello stesso, alla luce della c.d. teoria del contratto con effetti protettivi del terzo. Perché una tal legittimazione non può dirsi sussistente in capo al nato malformato. Sul punto, ha sostenuto qualche autore che il contratto in essere tra la gestante ed il medico non debba essere inteso solo come avente ad oggetto l’obbligazione principale di consentire, per quanto possibile, agendo con diligenza e perizia, alla gestante di avere una gravidanza priva di complicazioni, ma anche l’obbligazione accessoria di non arrecare danno al nascituro. Tale argomento è stato ritenuto privo di pregio giuridico dalle sez. Un. del 2015, solo infatti in ordine alle categorie di soggetti oggi legittimati al risarcimento del danno può essere individuato un c.d. danno conseguenza, apprezzabile realizzando una comparazione tra beni della vita omogenei, quali la qualità della vita di tali soggetti prima e dopo la nascita del bambino portatore di handicap.

Una seconda critica è stata elaborata nel senso della estendibilità al concepito del diritto alla procreazione cosciente e responsabile riconosciuto alla gestante (ex art. 1 l. 194/1978), potendo tale diritto dirsi il risultato di una corretta informazione della madre sulla gravidanza, il parto e la maternità in generale. L’assenza di una scelta responsabile e cosciente della madre, comporterà per il nato l’obbligo di vivere una condizione esistenziale deteriore rispetto a coloro che siano frutto di una tal scelta, dovendo subire sulla propria persona le ripercussioni negative dell’atteggiamento psicologico negativo della madre. Anche tale considerazione è stata ritenuta dalla recentissima sentenza del 2015 destituita di fondamento, in quanto il diritto alla procreazione responsabile e cosciente ha come unica destinataria la donna e tentare di estenderlo al concepito altro non è che un “mimetismo verbale” volto a rendere accettabile un diritto a non nascere. Mai, sostiene la Corte, vita anche priva dell’amore famigliare, potrà dirsi peggiore di una non vita. Alcun diritto – e tanto meno un diritto a non nascere – può essere riconosciuto al concepito sulla base del bilanciamento di interessi di cui alla l. 194/78, che pur funzionale a garantire il diritto alla salute della madre e il suo diritto alla maternità responsabile, impone un sacrificio dell’interesse alla vita dello stesso concepito.

Un ultima importante critica, elaborata nell’innovativa sentenza Travaglino del 2012, ritiene che la questione sia mal posta se considerata in termini di contrapposizione tra diritto a nascere o diritto a non nascere, dovendosi invece rivedere la legittimazione del nato con handicap al risarcimento del danno alla luce del fatto che la lesione da questi lamentata altri non è che una lesione al proprio diritto a una nascita priva di patologie, al diritto alla salute. Un danno, i cui presupposti fattuali si siano realizzati nel corso della fase di vita prenatale del nascituro e che purtuttavia vede le sue conseguenze pregiudizievoli venire ad esistenza appieno dopo la nascita del bambino, allorchè egli è già legittimo soggetto di diritto. Si tratta dunque di un danno futuro, che diviene attuale con la nascita del bambino e che dunque è pienamente risarcibile in suo favore, al pari del danno da lesione del rapporto parentale approfondito in precedenza. Dunque il pregiudizio fatto valere in giudizio altro non sarebbe che la propria condizione esistenziale negativa, l’handicap – pur imputabile ad un’azione colposa altrui – a prescindere dalle alternative paventabili, dalle quali escludere la possibilità di una vita sana (eventualità che mai sarebbe, o si potrà realizzare in futuro) a prescindere dall’eventuale natura ereditaria della patologia o dall’espressa volontà della madre di esercitare il diritto all’aborto, ove correttamente informata.

Tale prospettazione è risultata però fallace a parere delle Sezioni Unite perché, da un lato, attribuirebbe alla responsabilità del medico da omessa diagnosi di malformazione fetale, ovvero da omessa informazione, natura vicariale rispetto a strumenti assistenziali che lo Stato è tenuto a predisporre in favore a soggetti deboli. Ma soprattutto dal punto di vista della causalità, altra tematica fondamentale del dibattito giurisprudenziale, in ragione di quanto segue.

La sentenza Travaglino del 2012 opera sul piano della causalità un’equiparazione quoad effecta della condotta medica negligente che abbia determinato direttamente un danneggiamento del feto e della condotta medica pure negligente, ma che abbia determinato la nascita del bambino malformato per aver precluso alla madre, ricorrendone le condizioni di legge, l’esercizio del diritto all’aborto.

Correttamente la sentenza esclude un nesso di causalità tra la condotta del medico e la nascita, non potendo la nascita qualificarsi come evento pregiudizievole. Esclude, del pari, che la condotta medica possa dirsi antecedente causale della patologia del nascituro, che è invece preesistente e indipendente dall’agire del medico. Ciononostante, riconosce l’errore medico come eziologicamente connesso alla nascita malformata del nascituro, secondo quella che viene definita la c.d. propagazione intersoggettiva dell’illecito, per aver lo stesso pregiudicato il diritto della madre all’aborto, che avrebbe evitato la nascita del bambino con handicap.

Tale equiparazione non è ammissibile nella misura in cui non tiene conto dell’assoluta diversità delle due ipotesi e dell’altrettanto differente apporto causale della condotta del medico nelle stesse. Ciò è chiaramente percepibile attraverso il c.d. percorso alternativo lecito: nel caso in esame infatti ove il sanitario avesse adeguatamente svolto il proprio compito, il minore lungi dal nascere sano non sarebbe nato, quale conseguenza dell’esercizio da parte della madre dell’interruzione volontaria di gravidanza, con conseguente riproposizione di tutte le importanti obiezioni che abbiamo visto essere state svolte per escludere la configurabilità di un diritto a non nascere se non sano e a favore di una presunzione iuris et de iure di preferibilità della vita, ancorchè malata.

Ultima questione da affrontare è quella relativa al contrasto giurisprudenziale sorto con riguardo onus probandi imposto a carico della gestante in casi di omessa informazione od omessa diagnosi di malformazione fetale, che abbia precluso alla madre l’accesso alla interruzione di gravidanza, pur ricorrendone le condizioni di legge.

Il contrasto si caratterizza per l’emersione in giurisprudenza di due opzioni.

Una prima opzione più favorevole alla gestante, che ha affermato l’esistenza nel caso di specie una presunzione fondata sul principio di regolarità causale per cui la gestante è tenuta a provare semplicemente di essersi sottoposta ad esami diagnostici volti ad accertare la salute del feto, dovendosi ritenere presunto che, in caso fossero stati accertati handicap a carico del feto, la donna avrebbe optato per l’interruzione di gravidanza.

Una seconda opzione, esclusa l’esistenza di una presunzione come quella sopra descritta, pone a carico della donna un onere della prova conforme a quello incombente sul danneggiato ex art. 2043 c.c.

Il contrasto è stato composto dalla Suprema Corte nel senso che segue.

Ribadita la natura eccezionale delle ipotesi permissive dell’aborto di cui all’art. 6 l. 194/78, la Corte ha evidenziato come nel caso di specie il thema probandum corrisponda ad un fatto complesso composto da: l’esistenza di un handicap in capo al feto; la situazione di grave pericolo per la salute psico-fisica, ovvero per la vita della donna; l’omissione del medico; la scelta abortiva della donna. Come evidente, è dunque richiesta la prova di un fatto psichico (la condizione psichica della donna, la sua volontà di abortire). Come tale non può che essere la donna a fornire la prova dei presupposti facoltizzanti la possibilità abortiva, in conformità a quanto peraltro previsto dal principio di vicinanza della prova (art. 2697 c.c. onus imcumbit qui ei dicit).

Esclusa la configurabilità di un danno in re ipsa la donna deve provare che quello che all’epoca dei fatti aveva natura di un danno potenziale si è poi tradotto in un danno effettivo.

Le sezioni Unite hanno, però, ammesso che un tal onere della prova sia soddisfabile a mezzo di presunzioni con le presenti specifiche. La Corte ha escluso nel caso di specie la ricorrenza di una presunzione legale, seppur iuris tantum, in quanto la stessa è prerogativa del legislatore e si traduce in una semplificazione della fattispecie legale, con esenzione della parte dall’onere di dimostrare uno o più elementi integrativi, oltre alla premessa fattuale. Nel caso di specie, infatti, il legislatore non ha in alcun modo esonerato la donna dal provare lo stato di grave pericolo per la propria salute psico-fisica, o la volontà di abortire. È stata di contro ammessa la ricorrenza di una presunzione homminis ex art. 2727 c.c., che consente di inferire dal fatto noto il fatto ignoto, attraverso il ricorso al criterio della regolarità causale (c.d. id quod plerumque accidit) ed all’allegazione di circostanze contingenti, quali tra gli altri: precedenti manifestazioni di pensiero favorevoli alla scelta abortiva in caso di handicap del nascituro, la condizione psico-fisica della donna (accertabile anche a mezzo di CTU), eventuali richieste di esami diagnostici volte al fine di accertare eventuali malformazioni del feto.

Queste le principali posizioni che hanno caratterizzato il dibattito dottrinale e giurisprudenziale in ordine al concepito, nella consapevolezza che si tratterà di questione non esaurita, in quanto al centro di quella che anche la giurisprudenza ha definito la nuova responsabilità medica del ventunesimo secolo che vede contrapposte la vita (non voluta) e la morte (voluta per espressa dichiarazione o implicita presunzione).

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