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IL PARTENARIATO PUBBLICO PRIVATO E GLI ACCORDI TRA PP.AA.: IN PARTICOLARE IL RISPETTO DEI PRINCIPI COMUNITARI IN MATERIA DI CONCORRENZA

 

IL PARTENARIATO PUBBLICO PRIVATO E GLI ACCORDI TRA PP.AA.: IN PARTICOLARE IL RISPETTO DEI PRINCIPI COMUNITARI IN MATERIA DI CONCORRENZA

Pubblicato il 1/03/2016 autore Benedetta Zucchini

Il partenariato pubblico privato non è definito né a livello nazionale né a livello comunitario: tale locuzione ricomprende una vasta gamma di modelli di cooperazione tra il settore pubblico e quello privato. Solamente l’art 3, comma 15 ter, d.lgs. 163/2006 delimita i “contratti di partenariato pubblico privato”, disponendo che si tratta di contratti aventi per oggetto una o più prestazioni quali la progettazione, costruzione, gestione o manutenzione di un opera pubblica o di pubblica utilità; oppure la fornitura di un servizio, compreso il finanziamento totale o parziale a carico di privati con l’allocazione dei rischi ai sensi degli indirizzi comunitari vigenti. Dunque, si ricorre al partenariato pubblico privato in tutti i casi in cui una P.A. intende affidare ad un operatore privato l’attuazione di un progetto per la realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità e per la gestione dei relativi servizi nell’ambito di una cooperazione di lungo termine. Nella normativa europea, il Libro Verde relativo ai partenariati pubblici privati, presentato dalla Commissione Europea nel 2004, distingue due categorie di partenariato: quello contrattuale e quello istituzionalizzato. Nel primo, la P.A. e i privati regolano i loro impegni unicamente su base convenzionale; nel partenariato istituzionalizzato, invece, la cooperazione avviene attraverso un soggetto giuridico distinto, di regola una società di capitali a partecipazione mista pubblica e privata. Giova sottolineare che in entrambe le forme vi è il finanziamento di almeno parte dell’iniziativa con i capitali dei soggetti privati e il coinvolgimento di questi ultimi nella gestione e nei rischi. Nel nostro ordinamento, a differenza di Francia e Spagna, non è prevista una normativa specifica per il partenariato pubblico privato, ma esistono dei singoli istituti che possono portare a forme di collaborazione dello stesso genere. Il Codice dei contratti pubblici (d.lgs. 163/2006) regola le principali forme di partenariato contrattuale quali: la concessione di lavori pubblici (art. 3, comma11); la concessione di servizi (art. 3, comma12); la locazione finanziaria (art. 3, comma 15bis); il contratto di disponibilità ( art. 3, comma 15bis.1); la sponsorizzazione. Si pone l’attenzione, inoltre, alla diffusione della prassi degli affidamenti a società miste, le quali sono espressamente prese in considerazione dall’art. 1,comma 2 Codice dei contratti pubblici, in base al quale nei casi in cui le norme consentono la costituzione di società miste per la realizzazione o gestione di un’opera pubblica o di un servizio, la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica. In particolare, si ravvisa il problema del rispetto del principio comunitario in materia di concorrenza ex art. 117, comma2 lett. e) Cost., in quanto le società miste saranno considerate legittime solamente se il socio privato viene scelto con un confronto concorrenziale avente per oggetto l’opera o il servizio che la società deve eseguire. Procedendo con ordine, occorre prendere in considerazione l’art. 113 T.U.E.L. ( d.lgs. 18 agosto 2000 n. 267), il quale si occupa della gestione delle reti ed erogazione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. In particolare, l’art. 113, al comma 5, disponeva quale regola generale l’obbligo di indire la procedura ad evidenza pubblica per la selezione della società di capitali cui affidare il servizio (lett. a). Mentre, l’art. 113, comma 5 T.U.E.L., alle lettere b) e c) prevedeva due eccezioni: era consentito l’affidamento diretto quando si trattava di “società a capitale misto pubblico-privato nelle quali il socio privato veniva scelto attraverso l’espletamento di gara con procedure ad evidenza pubblica che abbiano rispettato le norme interne e comunitarie in materia di concorrenza, secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche” (lett. b). Ovvero, di  “società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano” (lett. c), il c.d. affidamento “in house”. Orbene, proprio in riferimento all’art. 113, comma 5 lett.b) d.lgs. 2000 n. 267, ci si è interrogati sulla legittimità comunitaria di affidamenti senza gara in favore di società miste nelle quali il socio privato era stato scelto con gara. Sul punto si sono registrate diverse posizioni. Una prima tesi propende per la illegittimità comunitaria dell’art. 113, comma 5 lett.b) T.U.E.L., sostenendo, in primo luogo, che se è vero che a monte nella scelta del socio è garantito il rispetto della concorrenza con la procedura ad evidenza pubblica, è parimenti vero che vi possono essere dei soggetti interessati ad ottenere l’affidamento del servizio pubblico locale senza entrare in società con l’amministrazione locale. In secondo luogo, si sottolinea come sono diversi i criteri che vengono in evidenza per la selezione del socio e per colui che deve gestire il servizio. Mentre nella gara per la selezione del socio sono rilevanti l’affidabilità economica, la solidità finanziaria, la capacità organizzativa; nella scelta dell’affidamento del servizio, ciò che interessa è la concreta capacità del concorrente di gestire al meglio il servizio. In conclusione, si afferma come la circostanza che ci sia stata la gara a monte non giustifica l’esonero dal gestire la gara a valle in sede di affidamento del servizio. Di parere opposto è il Consiglio di Stato, Sez. II n. 456 del 2007 che predilige la tesi della legittimità, a certe condizioni, di un affidamento diretto delle prestazioni a società miste in cui il socio privato sia stato scelto con gara. Le condizioni quali l’esistenza di una norma speciale che consenta l’affidamento senza gara a società miste; la delimitazione delle finalità della società mista cui affidare il servizio; la motivazione approfondita della scelta organizzativa; il limite temporale ragionevole alla durata del rapporto sociale; non sono state interamente condivise da un’altra pronuncia  del Consiglio di Stato, Sez. V n. 5587 del 2007, che ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria. Richiamando proprio i principi del Trattato dell’U.E., ossia quello di concorrenza e quelli connessi quali la trasparenza, non discriminazione e parità di trattamento, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato 2008 n. 1 afferma come il sistema dell’affidamento diretto costituisce eccezione al sistema ordinario delle gare in quanto potenzialmente idoneo a turbare la “par condicio” tra le imprese europee e quindi a violare il Trattato. Viene, pertanto, consacrato il principio della gara a doppio oggetto: sia per la scelta del socio, che per l’affidamento del servizio. L’A.P. 2008 n. 1 richiama, altresì, la sentenza della Corte Cost. del 2007, la quale sottolinea come nell’ambito dei contratti pubblici venga in rilievo l’aspetto della concorrenza che si estrinseca nell’esigenza di assicurare la più apertura al mercato a tutti gli operatori economici del settore nel rispetto dei principi della libera circolazione delle merci, della libertà di stabilimento e della libera prestazione dei servizi. Sono le procedure ad evidenza pubblica che devono essere idonee a garantire il rispetto dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione, proporzionalità e trasparenza. La nozione comunitaria di concorrenza (art. 117, comma 2, lett. e) Cost.) impone che il contraente venga scelto mediante procedure di garanzia che assicurino il rispetto dei valori comunitari e costituzionali. Sul piano interno, tutta l’azione dell’amministrazione è guidata dall’osservanza dei suddetti principi che sono anche attuazione delle stesse regole costituzionali di buon andamento e imparzialità ai sensi dell’art. 97 Cost. Pertanto, la disciplina dei servizi pubblici locali e della relativa modalità di affidamento e gestione è stata ridisegnata dall’art. 23 bis D.L. 2008 n. 12 e dall’art.15 D.L. 2009 n.135. Diversamente dall’art. 113, comma 5 T.U.E.L., che prevedeva tre modelli di conferimento della gestione di servizi pubblici locali, l’art. 23 bis distingueva una modalità ordinaria di conferimento della gestione che consisteva nell’espletamento di procedure competitive ad evidenza pubblica, nel rispetto dei principi del trattato e dei principi generali relativi ai contratti pubblici; nonché una modalità in deroga in situazioni di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali. Quanto alla possibilità di ammettere l’affidamento a società miste, non vi era espresso riferimento e il problema non era di facile soluzione visto le incertezze sulla legittimità comunitaria dell’istituto. È l’art. 15 D.L. 2009 n. 135 che modificando l’art. 23 bis al comma 2, prevede espressamente l’affidamento a società miste, inserendole tra la modalità ordinaria uniformandosi, pertanto, al principio espresso dal Consiglio di Stato A. P. 2008 n. 1, ossia al principio della gara a doppio oggetto sia per la scelta del socio che per la scelta dell’affidamento del servizio. Una novità fu l’introduzione di una partecipazione minima del 40% per il socio privato, proprio in ragione dell’apertura del mercato dei servizi alla concorrenza. Da un lato, così, veniva consentito alla P.A. di far ricorso a società miste per mantenere il controllo sul servizio, dall’altro si richiedeva che ai privati fosse riservata una fetta rilevante di partecipazione societaria, così da rendere maggiormente appetibile la partecipazione dei privati alle società miste. Nel 2010 veniva firmato dal capo dello Stato con il D.P.R 168/2010 il regolamento di attuazione dell’art. 23 bis D.L. n. 112 del 2008, che andava ad abrogare il comma 5 dell’art. 113 T.U.E.L. Obiettivo principale del regolamento era proprio quello di favorire la concorrenza e trovava espressione nell’art. 2, il quale esplicitava che l’affidamento diretto doveva essere considerato un fatto eccezionale. Su tale assetto normativo si era registrato un acceso dibattito dal momento che si obiettava che la modifica era stata adottata in sede di decretazione di urgenza e senza una riforma organica della materia, imprimendo una drastica svolta verso la privatizzazione dei servizi pubblici locali che rischiava di comprimere lo spazio delle imprese pubbliche affidatarie senza gara, che erano destinate ad aprirsi ai privati. Si prospettava, inoltre, il rischio che questa apertura all’iniziativa imprenditoriale privata, seppure in attuazione di interventi pro-concorrenziali ed in vista di una futura liberalizzazione, finisse per sbilanciare in favore dei privati il mercato dei servizi pubblici e alterando così il difficile equilibrio tra logiche di mercato e spazi riservati alla ineliminabile presenza pubblica. Vi furono diverse istanze di “ripubblicizzazione” della gestione dei servizi pubblici locali, soprattutto con specifico riferimento al servizio idrico, che hanno portato all’indizione di un referendum svoltosi a giugno 2011, avete ad oggetto tre quesiti: l’abrogazione dell’art. 23 bis D.L. 2008 n. 112 relativo alla privatizzazione dei servizi pubblici di rilevanza economica; l’abrogazione degli artt. 150 e 154 d.lgs. n. 152 del 2006    ( c.d. Codice dell’ambiente). Il referendum che si è concluso con la prevalenza del “si”, ha determinato l’immediata abrogazione delle norme contestate, nonché del D.P.R n. 168 del 2010. La Corte Cost. n. 24 del 2011, in sede di giudizio sull’ammissibilità del referendum aveva, altresì, dettato i criteri ermeneutici da seguire disponendo che qualora si sarebbe verificata l’abrogazione dell’art. 23 bis, non vi sarebbe stata alcuna reviviscenza delle norme precedentemente abrogate da questo articolo, ossia l’art. 113 T.U.E.L., ma vi sarebbe stata un’applicazione immediata nell’ordinamento italiano della normativa comunitaria relativa alle regole concorrenziali minime in tema di gara ad evidenza pubblica per l’affidamento della gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica. In definitiva, il risultato che consegue al referendum non corrisponde alle reali aspettative dei proponenti, dal momento che non né è derivata una “ripubblicizzazione” forzata dei servizi pubblici locali, compromettendo così la possibilità di convogliare risorse finanziarie verso le infrastrutture locali. Rimane, orbene, possibile predisporre l’affidamento dei servizi pubblici mediante gara, così come è consentito ricorrere a partenariati pubblici privati c.d. istituzionalizzati, vale a dire attraverso le società miste in cui il socio privato venga scelto con gara a doppio oggetto. Resta, a questo punto, da analizzare la possibilità, prevista dalla L. n.241 del 1990, in capo a più amministrazioni di concludere tra loro degli accordi. In particolare, l’art. 15 L. 241/90 dispone che “anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art.14 (ossia di conferenze di servizi), le amministrazioni pubbliche possono sempre concludere tra loro accordi per disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività comune” (comma 1); “per detti accordi si osservano, in quanto applicabili, le disposizioni previste dall’art. 11, commi 2 e 3” (comma 2). Questa norma è espressione di una generalizzazione del principio dell’esercizio consensuale della potestà amministrativa. Alla disciplina generale di riferimento di cui all’art. 15 L. 241/90, in merito agli accordi tra le pubbliche amministrazioni, si contrappone la particolareggiata regolamentazione di fattispecie tipiche di accordi tra enti pubblici: fra queste riveste particolare importanza l’accordo di programma previsto dall’art. 34 T.U.E.L (d.lgs. 267/2000) che riguarda specifiche tipologie di interventi,  prevede quali amministrazioni possano parteciparvi e contiene una scansione definita delle fasi procedimentali. Quanto al rapporto tra le due norme, infatti, Cass. S.U. 2006 n. 15893, ha chiarito che tra gli accordi organizzativi di cui alla L. 241/90 e le previsioni legislative di accordi in particolari settori intercorre un rapporto di genus a species. Al di là della disciplina sostanziale degli accordi ex art. 15 L. 241/90, che come suddetto rinvia ai commi 2 e 3 dell’art. 11 L. 241/90 e pertanto, all’obbligo di osservare la forma scritta a pena di nullità e l’operatività, nei limiti di compatibilità, dei principi in materia di obbligazioni e contratti del codice civile; e al di là della disciplina processuale che ai sensi dell’art. 133, comma1, n.2 c.p.a., attribuisce alla cognizione esclusiva del G.A. la cognizione delle controversie in materia di accordi tra pubbliche amministrazioni; in tale sede preme soffermarsi sulla formula utilizzata dal legislatore nell’art. 15 L. 241/90 di “attività” di interesse comune. Dunque, per “attività” si intende qualsiasi tipo di attività giuridica, comprese quelle materiali da svolgere nell’espletamento di un pubblico servizio e direttamente in favore della collettività. Nello specifico, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato 2011 n. 966, ha disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, a proposito del rapporto fra l’art. 15 L. 241/90 e la disciplina europea degli appalti pubblici. Ha, in particolare, rimesso la questione relativa alla compatibilità della direttiva 2004/18/CE relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione di appalti pubblici, di lavori, forniture e servizi, con la disciplina nazionale che consente la stipulazione di accordi in forma scritta tra due amministrazioni aggiudicatrici verso un corrispettivo non superiore ai costi sostenuti per l’esecuzione della prestazione, ove la P.A. esecutrice possa rivestire la qualità di operatore economico. La questione giuridica da risolvere è se siano compatibili con il diritto comunitario gli accordi tra enti pubblici stipulati senza previa gara. La Corte di Giustizia, con sentenza del 19 dicembre 2012 (causa n. C-159/11) si è pronunciata nell’ambito di una controversia insorta tra, da un lato la ASL di Lecce e l’Università del Salento e dall’altro, l’ordine degli ingegneri della Provincia di Lecce, vertente su un contratto di consulenza stipulato tra l’ASL e l’Università, avente ad oggetto lo studio e la valutazione della vulnerabilità sismica delle strutture ospedaliere della Provincia di Lecce. La ASL aveva deciso di affidare direttamente, senza previa gara, all’Università tale attività a titolo oneroso. Il Consiglio di Stato esponeva come gli accordi tra pubbliche amministrazioni previsti dall’art. 15 L. 241/90 sono preordinati al coordinamento dell’azione di diversi apparati amministrativi, ciascuno portatore di uno specifico interesse pubblico, e costituiscono una forma di cooperazione volta a consentire una efficiente ed economica gestione dei servizi pubblici. Un tale accordo può essere concluso quando una P.A. intenda affidare a titolo oneroso ad altra pubblica amministrazione la prestazione di un servizio e tale servizio ricada tra i compiti  dell’amministrazione, conformemente agli obiettivi istituzionali degli enti che sono parti dell’accordo. Tuttavia, il giudice del rinvio si chiede se la conclusione di un accordo tra pubbliche amministrazioni possa essere considerata contraria al principio della libertà di concorrenza qualora una delle amministrazioni interessate si possa considerare come un operatore economico, qualità riconosciuta ad ogni ente pubblico che offra servizi sul mercato, indipendentemente dal perseguimento di uno scopo di lucro, dalla dotazione di una organizzazione di impresa o dalla presenza continua sul mercato. Nello specifico, dal momento che l’Università può partecipare ad una gara d’appalto, i contratti con essa stipulati da amministrazioni aggiudicatrici rientrerebbero nell’ambito di applicazione della normativa dell’Unione in materia di appalti pubblici. La Corte di Giustizia ha stabilito che il diritto dell’Unione  in materia di appalti pubblici è in contrasto con una normativa nazionale che autorizzi la stipulazione, senza previa gara, di un contratto con il quale taluni enti pubblici istituiscano tra loro una cooperazione, nel caso in cui si verifichino tre condizioni che spetterà al giudice del rinvio verificare. Ossia che quel contratto non abbia il fine di garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico che sia comune agli enti medesimi; il contratto non sia retto unicamente da considerazioni ed esigenze connesse al perseguimento di obiettivi di interesse pubblico; ed infine lo stesso è in grado di porre un pestatore privato in una situazione privilegiata rispetto ai suoi concorrenti. Nel caso di specie, il contratto di consulenza tra  l’ASL e l’Università sembra soddisfare solamente il requisito del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico, ma giova sottolineare come un contratto siffatto possa esulare dall’ambito di applicazione del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici soltanto qualora soddisfi tutti e tre i suddetti criteri. Innanzitutto, questo contratto presenta degli aspetti materiali, ossia la valutazione della vulnerabilità sismica delle strutture ospedaliere, che corrispondono ad attività che vengono generalmente svolte da ingegneri e architetti e che, se pur baste su un fondamento scientifico, non assomigliano ad attività di ricerca scientifica. Di conseguenza, la funzione di servizio pubblico che costituisce l’oggetto della cooperazione tra enti nel contratto di consulenza, non sembra garantire l’adempimento di una funzione di servizio pubblico che sia comune all’ASL e all’Università. Inoltre, il contratto potrebbe condurre a favorire imprese private qualora l’Università si avvalga di collaboratori esterni altamente qualificati per realizzare talune prestazioni richieste e tra questi sono inclusi degli operatori privati.

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