RISARCIMENTO DEL DANNO DA RITARDO ED IMPUGNATIVA DEL SILENZIO-INADEMPIMENTO. PROFILI PROCESSUALI

 

 

RISARCIMENTO DEL DANNO DA RITARDO ED IMPUGNATIVA DEL SILENZIO-INADEMPIMENTO. PROFILI PROCESSUALI

Pubblicato il 10/02/2016 autore Paola Montone

L’ammissibilità di una tutela contro l’inerzia della pubblica amministrazione è stata riconosciuta espressamente ad opera del legislatore del 2000, che, con l’articolo 2 della legge 205, ha disciplinato proprio il ricorso avverso il silenzio.

Invero, la tutela avverso il silenzio era stata già prospettata dalla giurisprudenza come rimedio a fronte dell’inadempimento da parte della p.a. dell’obbligo di provvedere, recependo così legislatore un orientamento giurisprudenziale consolidato in materia.

 In merito, bisogna evidenziare come inizialmente al silenzio-inadempimento della p.a. si attribuiva una valenza provvedimentale, ossia di atto amministrativo implicito. Dalla concezione attizia, poi, si è gradualmente riconosciuto al silenzio un valore di mero comportamento, donde l’espressione silenzio-rifiuto o silenzio-inadempimento, per evidenziare che la p.a. risulta inadempiente rispetto all’obbligo di provvedere.

Ma non solo: tale espressione è funzionale anche alla distinzione tra questa tipologia di silenzio e quella del silenzio- assenso (istituto ormai generalizzato ed avente valore legale tipizzato di accoglimento della domanda del privato, ex articolo 20 della legge 241/1990) ovvero del silenzio-diniego (in cui la mancata definizione del procedimento con un provvedimento espresso è equiparato a un provvedimento di diniego, come accade in materia di accesso ai documenti amministrativi) nonché del silenzio-rigetto, ipotesi generalmente ricondotta al silenzio serbato dalla p.a. sulla presentazione del ricorso gerarchico, ex articolo 6 del d.P.R. 1199/1971.

Nello specifico, il meccanismo del silenzio-inadempimento si differenzia dalle ipotesi di silenzio significativo (silenzio-assenso e silenzio-diniego) in quanto implica una forma di tutela successiva, costituita proprio dall’esperimento del rito speciale sul silenzio.

Nel silenzio-assenso e nel silenzio-diniego, invece, il privato è tutelato ex ante, nel senso che allo scadere del termine è la legge stessa che gli consente di attribuire un preciso significato a quel silenzio, di modo che la tutela giurisdizionale conseguente sarà automaticamente una tutela di tipo impugnatorio.

Come anticipato, nel silenzio-inadempimento, invece, si assiste ad una violazione da parte della p.a. dell’obbligo di provvedere di cui all’articolo 2 della legge sul procedimento, cui consegue il rilievo per cui l’amministrazione non consuma il proprio potere di definire il procedimento con un provvedimento espresso: qualora quest’ultimo sopravvenga rispetto al termine di conclusione del procedimento esso risulterà pienamente legittimo (discutendosi al contrario se il provvedimento sopravvenuto in caso di silenzio significativo sia nullo o più semplicemente annullabile, proprio sulla scorta della premessa che ivi il potere amministrativo si è consumato con lo spirare del termine per provvedere).

Così sommariamente evidenziata la natura giuridica del silenzio-inadempimento, importa soffermarsi sulla disciplina contenuta nel codice del processo amministrativo, alla stregua del combinato disposto di cui agli articoli 31 e 117. La prima delle disposizioni citate, ossia l’articolo 31 al comma 1, esplicita la natura del giudizio, che si sostanzia in un giudizio in cui il g.a. accerta la sussistenza in capo all’amministrazione dell’obbligo di provvedere.

Proprio con riferimento al tema dell’individuazione dei casi in cui sussiste l’obbligo di provvedere, con il primo correttivo al codice, tra i presupposti per l’accertamento dell’obbligo suddetto, accanto al decorso dei termini per la conclusione del procedimento, è stato inserito l’inciso “e negli altri casi previsti dalla legge”. Il riferimento è chiaramente all’istituto della scia, come confermato dalla circostanza per cui lo stesso legislatore del 2011 ha inserito nell’articolo 19 della legge sul procedimento il comma 6ter, il quale individua come forma di tutela del terzo interessato “esclusivamente” l’azione avverso il silenzio serbato dalla p.a. sulla richiesta di esercizio delle verifiche alla stessa spettanti.

Quanto al secondo comma dell’articolo 31, esso riproduce sostanzialmente quello che era il contenuto dell’articolo 2 della legge sul procedimento nella versione modificata dalla legge 80 del 2005, prevedendo un termine di decadenza lungo (un anno dalla scadenza del termine di provvedere). Significativa, poi, è l’affermazione della regula iuris per cui il giudice “può pronunciare sulla fondatezza della pretesa”, laddove, rispetto al passato, il legislatore utilizza il termine pretesa e non più istanza, confermando la tesi per cui il rito sul silenzio è esperibile anche nell’ipotesi in cui si tratti di un procedimento iniziato d’ufficio, oltreché ad istanza di parte.

Ma vi è di più: il legislatore del 2010, recependo la giurisprudenza prevalente, circoscrive siffatto potere giudiziale ritenendo che lo stesso possa esplicarsi solo quando venga in rilievo un’attività di tipo vincolata o che comunque comporta un basso tasso di discrezionalità amministrativa e che non richieda adempimenti di tipo istruttorio: nell’ipotesi contraria, infatti, la verifica giudiziale della fondatezza della pretesa si risolverebbe in una valutazione riservata all’amministrazione, con violazione del principio di separazione dei poteri.

Tale assunto trova conferma anche nel contenuto dispositivo di cui alla lettera c) dell’articolo 34 c.p.a., come modificata dal secondo correttivo al codice, laddove l’espresso riconoscimento operativo dell’azione di esatto adempimento, ossia di condanna della p.a. al rilascio del provvedimento richiesto contestualmente all’azione avverso il silenzio, è subordinata proprio alla ravvisabilità dei sovracitati presupposti di cui al comma 3 dell’articolo 31.

Ciò posto, i profili processuali dell’impugnativa del silenzio-inadempimento sono presi in considerazione dall’articolo 117 del codice del processo amministrativo, il quale delinea il rito sul silenzio quale rito speciale, con dimezzamento dei termini processuali e decisione con sentenza in forma semplificata.

La giustificazione circa la scelta di questo rito è strettamente correlata alla natura del giudizio che il giudice amministrativo deve compiere, che non richiede un accertamento complesso, quanto piuttosto l’accertamento dell’esistenza in capo alla p.a. di un obbligo di provvedere, valutazione quest’ultima che dev’essere compiuta non solo in considerazione delle previsioni di legge espresse ma anche alla stregua dei principi operanti nel diritto amministrativo (il riferimento è soprattutto ai principi di buon andamento e giusto procedimento).

Quanto alla proposizione del ricorso avverso il silenzio, essa non richiede più la previa diffida, come accadeva in passato, di guisa che la messa in mora della p.a. è automatica. È, poi, interessante evidenziare come il codice del processo amministrativo abbia provveduto a risolvere alcune questioni problematiche che la dottrina e la giurisprudenza avevano individuato in relazione alla proposizione di siffatto ricorso. Il riferimento è alla verifica della necessità o meno di notificare il ricorso ad almeno un controinteressato, risolta positivamente dal codice, a fronte di quell’orientamento interpretativo che giungeva proprio ad escludere la ravvisabilità della figura del controinteressato, visto che quando vi è il silenzio da parte della p.a. manca un provvedimento e di conseguenza un controinteresse in senso formale da tutelare.

Al contrario, il codice sembra aver aderito qui ad una concezione sostanziale di soggetto controinteressato, ritenendo tutelabile la posizione di colui che, avvantaggiato dal silenzio della p.a., vedrebbe lesi i suoi interessi in caso di un ordine di provvedere impartito dal g.a. alla pubblica amministrazione satisfattivo della pretesa del ricorrente.

Ma non solo; il quinto comma dell’articolo 117 ha provveduto a precisare le conseguenze derivanti al ricorso avverso al silenzio in caso di provvedimento espresso sopravvenuto, scegliendo di aderire a quell’orientamento giurisprudenziale che consente la possibilità di impugnare il provvedimento anche con motivi aggiunti, in un’ottica di economia processuale oltreché di garanzia di un’effettività della tutela.

Tra le questioni giuridiche oggetto di espressa positivizzazione da parte del codice del 2010 vi è poi il problema del rapporto tra rito sul silenzio e proposizione del risarcimento del danno da ritardo.

Prima di esaminare come la stessa sia stata ormai pacificamente risolta dal comma 6 dell’articolo 117, occorre premettere alcune considerazioni sul risarcimento del danno da ritardo. Esso viene preso in considerazione dal legislatore del 2009 che ha introdotto l’articolo 2-bis della legge 241 del 1990, prescrivendo l’obbligo di risarcimento del “danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento” ed affermando la giurisdizione esclusiva del g.a. (previsione questa abrogata dal c.p.a. e sostanzialmente riconfluita nel 133 lettera a, numero 1).

Orbene, il dibattito dottrinale e giurisprudenziale sorto in merito alla ristorabilità del danno da ritardo si incentrava sul rilievo per cui occorreva distinguere le ipotesi di ritardo cosiddetto mero da quello qualificato.

Nel primo caso si alludeva alla circostanza per cui il soggetto privato vantava un interesse procedimentale, ossia quello di rispettare il termine previsto dalla legge per la conclusione del procedimento, a differenza del ritardo qualificato.

In questa ipotesi non rileva l’inadempimento in quanto tale ma solo in quanto correlato al mancato ottenimento del bene della vita cui il privato aspirava e che, sulla scorta di un giudizio di tipo prognostico, avrebbe prontamente ottenuto se la p.a. avesse concluso il procedimento con un provvedimento espresso nei termini di legge.

Ora, il dogma dell’irrisarcibilità degli interessi procedimentali trova una conferma nel contenuto dispositivo di cui al comma 2 dell’articolo 21 octies della medesima legge sul procedimento, nella parte in cui positivizza la categoria dei vizi non invalidanti il provvedimento, ma in realtà affonda le proprie radici nello storico arresto delle Sezioni Unite del 1999.

L’importanza di tale pronuncia sta sicuramente nell’aver affermato per la prima volta, expressis verbis, la risarcibilità dell’interesse legittimo, alla stregua di un’interpretazione evolutiva dell’articolo 2043 c.c., ma anche nell’aver delineato quella che è stata definita una rete di contenimento.

Si intende alludere alla circostanza per cui non ogni interesse può essere oggetto di risarcimento del danno, ma solo quell’interesse che superi positivamente il filtro rappresentato dal giudizio prognostico del bene della vita.

Con specifico riferimento al rito sul silenzio, si può affermare che solo se dall’adozione del provvedimento amministrativo espresso può derivare un’utilità sostanziale per il soggetto privato, può essere riconosciuto il risarcimento del danno per violazione dell’interesse legittimo.

Il giudizio prognostico sul bene della vita altro non è che la verifica giudiziale della fondatezza della pretesa di cui al sovracitato articolo 30, ragion per cui sarebbe più corretto interpretare siffatto potere giudiziale in termini di potere-dovere e non di mera facoltà valutativa.

Dalle considerazioni ora delineate ne dovrebbe conseguire l’irrisarcibilità del danno da mero ritardo, considerato che se anche la p.a. avesse provveduto nel termine di legge non avrebbe comunque adottato un provvedimento satisfattivo dell’interesse del privato. Questa soluzione esegetica trova oggi una conferma importante nel comma 1bis dell’articolo 2bis della 241 del 1990, visto che con la legge 98 del 2013 il legislatore ha espressamente preso in considerazione il danno da ritardo mero, prevedendo il diritto dell’istante ad ottenere un indennizzo per il solo fatto che l’amministrazione non ha osservato il termine di conclusione del procedimento ad istanza di parte.

Tale previsione, che si applica in via sperimentale ai procedimenti amministrativi per l’avvio e l’esercizio dell’attività d’impresa, iniziati dopo l’entrata in vigore della legge del 2013, chiarisce i rapporti tra risarcimento del danno da ritardo qualificato e indennizzo da ritardo mero.

Confermativo dell’assunto non è soltanto la considerazione per cui lo stesso incipit del comma 1-bis fa salvo quanto previsto dal comma 1, ossia la previsione del risarcimento del danno ingiusto, ma anche il fatto che la disposizione si chiude prescrivendo la detrazione delle somme corrisposte a titolo di indennizzo dal risarcimento, pena un’ingiustificata locupletazione del privato a fronte dello stesso fatto generatore del danno.

Ora, nel sistema rimediale prospettato dal legislatore è chiara la distinzione tra risarcimento del danno per il ritardo con cui il soggetto privato ha tratto utilità dal provvedimento a lui favorevole ma non emanato in tempo e l’indennizzo per il comportamento inerte in sé della pubblica amministrazione, a conferma che il bene tempo assume un ruolo importante al fine della garanzia del giusto procedimento e della buona amministrazione.

In merito alla tematica del risarcimento del danno da ritardo, appare opportuno precisare che lo stesso è accordato previa dimostrazione di un’inosservanza del termine di conclusione del procedimento che dev’essere “dolosa o colposa”.

Rimane quindi fermo il requisito, da assolvere in tutti i giudizi volti ad ottenere il risarcimento del danno, della dimostrazione della colpevolezza della p.a..

Sul punto, trovano applicazione i moderni approdi esegetici che, valorizzando il principio della vicinanza della prova, ritengono sufficiente che il privato alleghi l’illegittimità del provvedimento, qui ovviamente rappresentata dall’inerzia nel provvedere, quale indice sintomatico della colpa, potendo poi la stessa pubblica amministrazione dimostrare la non imputabilità di alcun atteggiamento colposo, stante la configurabilità di un errore scusabile, quale quello ravvisabile, ad esempio, in un contrasto giurisprudenziale o in una poca chiarezza del testo normativo o anche in considerazione della natura vincolata o latamente discrezionale del potere amministrativo.

Sul punto, minoritaria è la tesi che configura un’ipotesi di responsabilità oggettiva della pubblica amministrazione, sulla scorta del principio di diritto della pronuncia della Corte di Lussemburgo nel caso Gradz Stadt, con cui si è ritenuto ostativo al diritto comunitario una normativa che subordina il riconoscimento di un profilo risarcitorio alla prova della colpevolezza, anche quando la stessa si ritenga presunta. In realtà, la dottrina maggioritaria concorda come questa soluzione giuridica ha una valenza applicativa limitata al contenzioso appalti, laddove viene in rilievo il diritto alla concorrenza.

Ne consegue che non può ravvisarsi una generalizzata fattispecie di responsabilità di tipo oggettivo, svincolata dall’accertamento della colpevolezza dell’amministrazione, confermando anche per quest’aspetto l’attualità delle soluzioni giuridiche prospettate dalle Sezioni Unite del 1999, che parlava significativamente di colpa d’apparato.

Ritornando, infine, al rapporto tra l’azione di risarcimento del danno e l’impugnativa del silenzio-adempimento, il codice del processo amministrativo ha preso posizione circa la possibilità di presentare cumulativamente siffatte azioni, che risulta problematica visto che si tratta di due azioni che seguono ovviamente due riti diversi: un rito speciale per l’azione avverso il silenzio ed il rito ordinario per l’azione di condanna ex articolo 30.

In merito, erano state prospettate due soluzioni: secondo una prima impostazione non poteva ammettersi una proposizione cumulativa delle due domande, stante l’incompatibilità ontologica fra i due riti, relativamente ai tempi processuali, alle modalità della decisione e soprattutto in considerazione della natura sommaria del rito sul silenzio, che non consente di effettuare accertamenti come quelli che comporta un giudizio sul risarcimento del danno.

La conseguenza era che il soggetto doveva necessariamente attendere la pronuncia del giudice di condanna all’obbligo di provvedere per poi presentare domanda risarcitoria nel termine decadenziale di cui al terzo comma dell’articolo 30 c.p.a.. Viceversa, secondo un differente orientamento dottrinale, era ben possibile presentare cumulativamente le due domande, in considerazione del principio della concentrazione e dell’effettività degli strumenti di tutela.

Quest’ultima impostazione è stata fatta propria dal legislatore del 2010 che ha individuato nella separazione dei due riti la soluzione pratica al problema, prevedendo che il giudice potrà definire col rito camerale l’azione avverso il silenzio e col rito ordinario la domanda risarcitoria.

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