Autonomia privata e destinazione patrimoniale.

Autonomia privata e destinazione patrimoniale.

Stefania Martinez

Corso Magistratura on line 2015 2016

L’autonomia privata è  il potere del soggetto di autodeterminarsi, ossia di decidere della propria sfera privata, quale espressione della personalità dell’individuo. Per vero, tale potere costituisce un tratto essenziale di qualsiasi ordinamento democratico, ove la libertà di pensiero e di azione sono diritti inviolabili della persona. Il che trova fondamento nell’art. 2 Cost., quale clausola generale avente valore precettivo, così come riconosciuta dalla giurisprudenza più recente.

La libertà e l’autonomia di azione della persona nel contesto sociale sono alla base di quell’esplicazione dell’autonomia privata che è l’autonomia contrattuale, riconosciuta costituzionalmente in via indiretta dagli artt. 2, 41 e 42 Cost. In tal senso, l’autonomia contrattuale è strumento per realizzare la libertà di iniziativa economica e il diritto di proprietà e, di conseguenza, viene indirettamente tutelata tramite le garanzie offerte dall’ordinamento all’esercizio di tali libertà, al fine di armonizzarle con la dignità umana, la sicurezza e l’utilità sociale.

Il contratto, invero, rappresenta uno strumento indispensabile per la circolazione delle merci, per i traffici commerciali, per lo svolgimento dell’attività di impresa. Ne deriva l’immediata percezione della rilevanza della libertà contrattuale, fermo il rispetto della lex mercatoria.

La libertà negoziale, in  generale, è il potere riconosciuto dall’ordinamento alle parti di  autoregolamentare i propri interessi personali e patrimoniali mediante negozi giuridici. Più in particolare, l’autonomia contrattuale è il potere di autoregolamentare gli interessi determinando il contenuto, le modalità e gli effetti del contratto.

Ora, se da un lato, in senso negativo, libertà contrattuale significa che le parti non possono essere costrette ad eseguire prestazioni indipendentemente o in modo contrario alla loro volontà, né a essere spogliate dei loro beni (artt. 1372; 1321 c.c.), dall’altro lato, le parti possono costituire, modificare o estinguere rapporti giuridici patrimoniale (libertà in senso positivo). Sotto quest’ultimo aspetto, l’autonomia contrattuale può manifestarsi in varie forme: accanto alla libertà delle parti  di scegliere tra i diversi tipi contrattuali previsti dalle legge, vi è, altresì, ai sensi del comma 1 dell’art. 1322 c.c. la libertà di determinare il contenuto del contratto (nei limiti imposti dalla legge). Rispetto a quest’ultimo assunto, oltre a determinare il contenuto dei contratti tipici, le parti possono  concludere contratti atipici (ossia contratti innominati non disciplinati dal legislatore) ai sensi dell’art. 1322, comma 2 c.c. A tale specifico riguardo, se è vero che le parti possono perseguire finalità diverse da quelle dei contratti tipici, è anche possibile che perseguano con modalità contrattuali atipiche finalità già perseguibili con contratti tipici. Nello stesso senso, le parti possono utilizzare un contratto tipico per finalità tipiche, ma anche per realizzare finalità atipiche (diverse da quelle previste dal modello contrattuale), qualora il contratto tipico stesso risulti inadeguato. In definitiva, la libertà positiva di creare rapporti giuridici patrimoniali consente di utilizzare contratti tipici per finalità tipiche o atipiche e contratti atipici per finalità tipiche o atipiche.

In questo quadro ordinamentale, pare opportuno rilevare che l’autonomia contrattuale, in tale accezione positiva, volta alla determinazione del contenuto contrattuale ex art. 1322 , comma 1 c.c., trova un limite nel secondo comma della stessa norma, ossia il perseguimento di “interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico”. Ora, se il giudizio di meritevolezza degli interessi è effettuato a monte dal legislatore per i contratti tipici; la meritevollezza degli interessi è requisito di liceità per utilizzare schemi contrattuali atipici. Detto altrimenti, le parti possono stipulare contratti atipici se tali negozi non sono contrari alle norme imperative, all’ordine pubblico e al buon costume, nonché perseguono interessi meritevoli di tutela. In tal senso, è rimesso alla stessa autonomia contrattuale il controllo di meritevolezza; tuttavia, nella eventuale fase di contenzioso, tale giudizio sarà rimesso ex post al giudice, scisso da quello che dovrà effettuarsi sulla liceità ai sensi dell’art. 1343 c.c.

Ulteriori limiti vengono posti all’autonomia contrattuale quando vengono bilanciati gli interessi di cui questa è espressione (libertà di iniziativa economica, concorrenza) con altri valori di pari rango costituzionale (per lo più a tutela di contraenti deboli). In tal senso, la libertà negoziale positiva è limitata dai cosiddetti contratti imposti (ove la legge stabilisce il contenuto del contratto, contratti agrari, contratti di locazione); da obblighi legali (assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile) o convenzionali (obbligo a contrarre derivante dalla stipula di un pregresso contratto preliminare). Ancor di più, deroga all’autonomia privata è data dalla tutela dell’ordine pubblico. Ne discende che la parte non può rifiutarsi di trattare per motivi discriminatori (discriminazione razziale, religiosa). Tale limite, pertanto, attiene, non al contenuto del contratto, ma all’an. In altri termini, la normativa impone ad un soggetto (imprenditore) di trattare con tutti ed, in casi specifici, con tutti allo stesso prezzo. In tale ottica vanno lette le norme di cui all’art. 2597 c.c. (obbligo di contrattare del monopolista, che – nel rispetto della normativa antitrust- non può essere estesa analogicamente a colui che è mero concessionario di fatto) e all’art. 1679 c.c. (obbligo di contrattare del soggetto che ha la concessione dei trasporti di linea).

Ora, si deve valutare se l’autonomia contrattuale trovi, altresì, un limite nell’art. 2740 c.c., che prevede una responsabilità patrimoniale generica del debitore ed esclude limitazioni a tale responsabilità, in violazione dell’unicità del patrimonio e della par condicio creditorum, fuori dai casi previsti dalla legge (art. 2740, comma 2 c.c.). Sul punto, la dottrina maggioritaria nega che il principio di responsabilità patrimoniale costituisca un principio di ordine pubblico, tale da individuare un limite alla libertà negoziale. Tuttavia, tradizionalmente, si negava la derogabilità di tale principio ad opera dei privati, argomentando che i due limiti in esame operano autonomamente su due piani diversi. Ne discendeva che solo attraverso interventi normativi venivano poste limitazioni  alla responsabilità di cui all’art. 2740 c.c., in base al quale il soggetto risponde con tutti i suoi beni dell’adempimento dell’obbligazione (garanzia generica). Dal vaglio analitico della norma da ultimo citata emerge una nozione di patrimonio quale una unità composita, così come solitamente veniva concepito, ossia un insieme di rapporti giuridici o un complesso di beni suscettibili di valutazione economica.

È proprio nell’ottica dell’eccezione di cui al 2740, comma 2, c.c., che si introduce nel nostro ordinamento il patrimonio destinato ed il conseguente fenomeno (che ne è effetto e, al contempo, strumento di realizzazione dello scopo) del patrimonio separato.

Ebbene, il fenomeno della destinazione patrimoniale implica che un complesso di beni vengano destinati da un soggetto alla realizzazione di uno scopo e che gli stessi beni, in forza di tale vincolo di destinazione, siano sottoposti ad obblighi e limitazioni  al fine di garantire il soddisfacimento dello scopo medesimo. Ne discende il correlato fenomeno della separazione patrimoniale.

Al fine di individuare i caratteri unitari di quest’ultima situazione giuridica, va dato atto preliminarmente di contrastanti classificazioni dottrinali, in assenza di una normativa specifica, e della difficoltà di una riconduzione univoca delle varie fattispecie ad un fenomeno unitario (si pensi alle ipotesi in cui la limitazione della responsabilità avviene tramite una separazione patrimoniale, quali ex pluribus l’usufrutto legale dei genitori sui beni dei figli o l’eredità beneficiata, nonché i beni oggetto di sostituzione fedecommisaria). Chiarito ciò, si può cercare di individuare la separazione patrimoniale come quel complesso di beni, che vengono sottratti alla responsabilità patrimoniale illimitata e sono destinati al soddisfacimento dei creditori di tale massa patrimoniale, ove quest’ultima è volta alla realizzazione di un determinato interesse. Con maggior impegno esplicativo, nella separazione in senso stretto, si può dire che una parte dei rapporti giuridici attivi e passivi di un soggetto è separata dalle vicende del restante patrimonio dello stesso. Ciò la differenzia dall’ipotesi in cui i rapporti attivi o passivi riconducibili a più soggetti sono, però, ascrivibili ad un soggetto diverso e terzo rispetto alla pluralità (patrimonio autonomo). Non manca di rilevare, nonostante ciò, che nelle ipotesi in cui il patrimonio autonomo gode di un’autonomia patrimoniale imperfetta, si realizza, quanto ad effetti, un fenomeno analogo a quello della separazione patrimoniale lato sensu intesa. In tal caso, la separazione (quale genus) va considerata nel suo assetto “unilaterale”, in forza del quale i creditori del patrimonio separato hanno il potere di rivalersi non solo sui beni separati, ma anche sul restante patrimonio personale del debitore, in via sussidiaria.

Dal profilo da ultimo evidenziato si distingue il fenomeno del patrimonio destinato, che dà luogo alla cosiddetta separazione bilaterale patrimoniale (segregazione patrimoniale), ove vi è una totale incomunicabilità bidirezionale tra il patrimonio separato e il patrimonio personale del soggetto titolare. I creditori del patrimonio segregato (cosiddetti speciali o qualificati) non possono soddisfarsi sulla parte rimanente del patrimonio; nello stesso senso, i creditori generali non possono rivalersi sul patrimonio segregato.

 Ora, solo il legislatore poteva prevedere nuove ipotesi di patrimoni separati e, di conseguenza, in dottrina si propugnava la tesi del numerus clausus dei patrimoni separati. Ciò in quanto, opinando diversamente, il debitore, tramite vincoli di destinazione, avrebbe avuto un notevole arbitrio in ordine alla quantità di patrimonio da esporre alle azioni esecutive dei creditori.

Pertanto, le limitazioni discendono ope legis da vincoli creati dalle parti per interessi selezionati a priori dal  legislatore. Ciò in quanto la valorizzazione di un interesse, riconosciuto dall’ordinamento, di tale rilievo da superare quello di credito, legittima la destinazione di una massa di beni e la loro strumentalizzazione al perseguimento di uno scopo.

L’evoluzione socio- economica ha portato ad un proliferare delle forme di patrimoni destinati, a titolo esemplificativo ex multis si possono annoverare la cessione dei beni ai creditori (art. 1977 c.c.), l’eredità giacente (art. 528 c.c.), i fondi pensione (d.lgs. 124/93); la separazione patrimoniale degli strumenti finanziari (d.lgs. 58/88); la cartolarizzazione dei crediti (l. 130/90, l. 402/99, l. 409/2001) e dei proventi derivanti dalla dismissione del patrimonio immobiliare  dello Stato e degli altri enti pubblici ( l. 410/2001)

In un’ottica ricostruttiva tra i  più significativi patrimoni destinati tipizzati dal legislatore viene in rilevo il fondo patrimoniale, ove il patrimonio è destinato ai bisogno della famiglia (interesse meritevole di tutela). Più in particolare si possono verificare due vicende. La prima si ha quando la proprietà dei beni del fondo patrimoniale rimane in capo ad entrambi i coniugi disponesti; in tale caso, si realizza solo un vincolo destinatorio funzionale su quella massa di beni. Viceversa, qualora la proprietà venga attribuita ad un solo coniuge ovvero non resti riservata al terzo costituente il fondo stesso, il negozio in esame produce effetti traslativi e destinatori, trasferendo la proprietà in modo qualificato, ossia vincolando l’acquirente al rispetto dello scopo fissato. Ne consegue che, nell’ ulteriore ipotesi in cui la proprietà resti in capo dal terzo disponente, verificandosi solo un effetto destinatorio, in capo ai coniugi si realizza un diritto di godimento di natura reale.

Pertanto, in presenza di un patrimonio destinato come sopra detto, in conformità a quanto espresso in ordine ala segregazione patrimoniale, l’esecuzione sui beni del fondo patrimoniale non può essere condotta dal creditore che sapeva che quel debito era stato contratto per bisogni estranei a quelli della famiglia (art. 170 c.c.)

Inoltre, per i patrimoni societari, il patrimonio destinato è costituito per realizzare una politica di agevolazione degli investimenti e dei finanziamenti dell’attività sociale. Più in particolare,   ai sensi della lettera a), art. 2447bis c.c., è sancita una separazione del patrimonio della società per azioni per la destinazione ad uno specifico affare. Ne deriva una segregazione del patrimonio in oggetto, in base alla quale la società risponde, verso i suoi creditori generali, solo relativamente agli utili derivanti da quell’affare (art. 2447quinquies c.c.), nonché per le obbligazione contratte per quell’affare solo nei limiti di tale patrimonio separato, salvo che tali obbligazioni abbiano fonte in un fatto illecito (art. 2447ter, co. 3, c.c.). Ancor di più, è prevista una separazione degli utili derivanti da un contratto di finanziamento (art. 2447 bis, lett. b). In tal caso, per effetto della segregazione patrimoniale, il rimborso del finanziamento avverrà solo con gli utili derivanti da quell’affare.

Delineati tali profili, alla luce di quanto sin qui esposto in materia di autonomia negoziale e di ipotesi di responsabilità patrimoniale specializzate individuate dal legislatore, appare evidente come la tematica in esame verta sulla possibilità di sdoganare il rapporto tra autonomia contrattuale e destinazione patrimoniale, fuori dai casi previsti a livello normativo.

È a partire dalla seconda metà degli anni novanta che un filone dottrinale inizia a valorizzare l’autonomia privata e a tracciare la strada per il superamento della rigida tipicità dei patrimoni separati.

Invero, i fautori di tale filone dottrinale sottolineavano come il legislatore individuava le ipotesi di destinazione patrimoniale sulla base degli interessi meritevoli di tutela. Ne discendeva che, qualora tali interessi fossero divenuti non più corrispondenti all’assetto istituzionale, poiché storicamente inadeguati, gli istituti in esame venivano abrogati o modificati. In tal prospettiva, andavano interpretate l’abrogazione della dote (l’interesse sottostante non era più meritevole di tutela in quanto configgente con la parità morale e giuridica dei coniugi, prevista a livello costituzionale), nonché la modifica del fedecommesso (ridotto all’ipotesi di quello assistenziale, poiché il sacrificio alla libera circolazione dei beni viene bilanciato con l’interesse alla cura e alla tutela dell’interdetto). Ne deriva che l’interesse alla cui realizzazione è destinato il patrimonio deve essere valutato di volta in volta in concreto. A tal punto, secondo tale approccio ermeneutico, l’autonomia privata è ammessa a costituire patrimoni destinati atipici, prendendo in considerazione valori essenziali che il legislatore ha ritenuto rilevanti in altre ipotesi di separazione patrimoniale. Dunque, la destinazione individuata dall’autonomia privata deve essere oggetto del giudizio da parte del giudice sotto il profilo della liceità ex art. 1343 e della meritevolezza sulla base dei principi costituzionali di solidarietà e tutela della persona. Da ciò si deduce che è escluso qualsiasi giudizio sull’effetto di separazione (rispetto al quale verte di per sé il limite di cui al comma 2, art. 2740 c.c.), che viene relegato sul piano delle conseguenze.

In sintesi, per quanto la tematica, a tutt’oggi, resta oggetto di dibattito, secondo l’orientamento prevalente, in un’ottica di valorizzazione dell’autonomia privata,  ci si è spostati da una visione tradizionale rigidamente tipica ad una- attuale- del tutto atipica dei patrimoni destinati.

Quanto sin qui affermato a livello dottrinale pare trovare un suo compiuto riconoscimento normativo nell’art. 2645ter c.c., ai sensi del quale, come è noto,  è prevista la trascrizione di atti di destinazione volti alla “realizzazione di interessi meritevoli di tutela”.

Dall’introduzione di tale norma la dottrina maggioritaria deduce che nel nostro ordinamento è ammissibile il negozio di destinazione atipico, ove il legislatore richiede una causa avente rilevanza sociale, per consentire all’autonomia privata la sottrazione di alcuni beni alla garanzia patrimoniale generica, nonché la conseguente non aggredibilità di tali beni da parte dei creditori generali.

Tale tesi fa leva, in prima battuta, sulla natura sostanziale delle prescrizioni contenute nell’art. 2645ter c.c. e, più in particolare,  della disposizione che prevede l’impiego dei beni conferiti e dei loro frutti solo per la realizzazione dello scopo di destinazione, nonché il precetto che costituisce oggetto di esecuzione solo per i debiti contratti per lo scopo di destinazione i beni conferiti e i loro frutti. Accanto a queste si rinvengono anche altre norme attinenti al termine di prescrizione, nonché alla durata massima del vincolo in questione. A fortiori tale impostazione sarebbe avvalorata dai fautori di quella teoria per la quale il solo art. 1322 c.c. al suo secondo comma sarebbe idoneo di per sé a porre in essere negozi di destinazione atipici nel nostro ordinamento, attributivi di diritti funzionalizzati ad uno scopo, tramite la valorizzazione gli interessi meritevoli di tutela, ossia aventi rilevanza sociale. Alla tesi sostanzialistica è stato obiettato che la norma de qua non ha introdotto un nuovo tipo negoziale, poiché nulla prevede quanto alla  sua struttura (unilaterale o bilaterale), alla sua natura (gratuita o onerosa), agli effetti (traslativi o obbligatori). Proprio in ordine a quest’ultimo profilo si sviluppa un vivace dibattito dottrinale sulla efficacia reale o obbligatoria del negozio di destinazione di cui all’art. 2645ter c.c.

 A favore dell’efficacia reale militano coloro che sostengono che la disciplina sulla trascrizione, così come è rubricato l’art. 2645ter c.c., attiene, in generale, a negozi aventi efficacia reale. Il che è riscontrabile, peraltro, nell’effetto di segregazione, nonché nelle limitazione del potere di gestione e di disposizione. Se così fosse, secondo diverso approccio ermeneutico, l’art. 2645ter non avrebbe motivo di esistere, in quanto tale negozio ad effetti reali sarebbe comunque trascrivibile ex art. 2643 c.c., sebbene non espressamente tipizzato, in virtù di un’interpretazione elastica del concetto di tassatività e tipicità degli atti trascrivibili. Ne discenderebbe, secondo tale orientamento, che il negozio di destinazione di cui al 2645te c.c. ha  effetti obbligatoti, posto che il legislatore ha posto tale norma dopo il 2645bis c.c. (trascrizione di negozi ad efficacia obbligatoria, quale il contratto preliminare).

La tematica degli effetti reali del negozio di destinazione attiene, per vero, ad una questione di più ampio respiro sulla possibilità da parte dell’autonomia privata di modulare i diritti reali tipici, superando il dogma del numerus clausus dei diritti reali.

La dottrina più recente ha valorizzato l’autonomia contrattuale fino ad affermare che l’art. 2645ter c.c. ha tipizzato un nuovo effetto negoziale (reale e obbligatorio). Il che implica, da una parte, l’attribuzione ai beneficiari di un diritto di credito alla destinazione; dall’altra, la creazione di una garanzia reale sul bene destinato, in base alla quale  il beneficiario può aggredire il bene anche se questo viene alienato, nonché può sottrarsi al concorso con gli altri creditori del debitore, in virtù della separazione patrimoniale. Ne discende che l’autonomia privata ha creato degli oneri reali che circolano con i beni vincolati e, in tale logica, è necessaria la loro pubblicizzazione attraverso la trascrizione.

È noto che la funzionalizzazione della proprietà è avvenuta ad opera della nostra Costituzione, in quanto ai sensi dell’art. 42 il proprietario non può godere del bene se non nei limiti in cui tale godimento sia giustificato da un interesse generale e, di conseguenza, ne è ammessa la compromissione  a fronte dell’utilità sociale.

Se è vero che è stata superata la perentorietà del principio della tipicità dei diritti reali, si può affermare, allora, che l’autonomia privata può incidere sulle prerogative proprietarie con effetti opponibili ai terzi. Il che si verifica tramite una proprietà fiduciaria (detta anche temporanea), caratterizzata dal fatto che il potere di godere e di disporre del bene è attribuito al proprietario non per soddisfare un interesse proprio, bensì un interesse altrui. Ciò si realizza nel trust di common law, previsto nella Convenzione dell’Aja (ratificata in Italia dalla L. 364/89), ove il vincolo di destinazione di un bene all’interesse altrui costituisce un vincolo reale. Ne deriva che il bene è sottratto all’azione esecutiva dei creditori personali del proprietario fiduciario e, al contempo, il vincolo di destinazione è opponibile ai terzi aventi causa dello stesso proprietario fiduciario. Da tale assunto si deduce che si è in presenza di una scissione tra titolarità formale e sostanziale, ossia si verifica la coesistenza di due proprietà: una di diritto comune e una fiduciaria limitata dal vincolo di destinazione. Ciò  vale a distinguere il trust dal contratto fiduciario ove vi è solo un rapporto obbligatorio tra il proprietario del bene e il titolare dell’interesse (fiducia romanistica). Ne consegue che il vincolo di destinazione del bene all’interesse è inopponibile ai terzi creditori del proprietario ed ai suoi aventi causa.

Ora, a parere della dottrina più conservatrice, in ossequio della tipicità dei diritti reali, la proprietà fiduciaria non può essere frutto dell’autonomia contrattuale. Pertanto, solo tramite l’ammissibilità del trust interno tale figura potrebbe entrare nel nostro ordinamento.

In tal senso, a parere della dottrina prevalente, l’art. 2645ter c.c., espressione di libertà negoziale, presenta uno schema elastico tale da giustificare le limitazioni al diritto di proprietà ogni volta che si sia in presenza di un apprezzamento sociale particolarmente forte e, in tal guisa, avrebbe dato ingresso nel nostro ordinamento al cosiddetto trust interno; tuttavia, ad oggi, non si registra unanimità di vedute.

Ci si interroga, infine, se la limitazione di cui all’art. 2740, comma 2, c.c., abbia ancora senso di esistere, dato che l’art. 2645ter c.c. costituisce più una regola che un’eccezione. Ne deriva che l’ambito applicativo della norma di cui all’art. 2740 c.c., quale limite all’autonomia privata di creare patrimoni destinati atipici, è ormai – nella prassi- molto esigua, se non del tutto inesistente. Tuttavia, la norma regola ancora, in modo tutt’altro che residuale,  la sfera di liceità entro cui realizzare la separazione stessa. Tale assunto non è privo di risvolti applicativi in ordine alle azioni esperibili a fronte di lesione degli interessi dei creditori: nullità ovvero revocazione (in base alla circostanza che gli atti attengano direttamente ovvero indirettamente alla responsabilità patrimoniale).

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