La comunione de residuo il candidato tratti in particolare il problema delle partecipazioni azionarie e dei conti correnti cointestati.

La comunione de residuo il candidato tratti in particolare il problema delle partecipazioni azionarie e dei conti correnti cointestati.

di Silvia Rea

Con la riforma del diritto di famiglia introdotta con la L.n.151 del 1975 il legislatore ha cercato di contribuire all’ attuazione dell’ambizioso disegno dell’art. 2 della Costituzione,cosi riconoscendo e garantendo anche nell’ambito della famiglia, formazione sociale per eccellenza, i diritti inviolabili dell’uomo.

Tra le principali novità introdotte con la cennata novella legislativa vi è il riconoscimento dell’obbligo per entrambi i coniugi di contribuire alle esigenze familiari.

Ciò ha comportato,dunque, l’applicazione di un nuovo regime legale di tali rapporti costituito dalla “comunione dei beni” tesa, fondamentalmente, ad implementare la condivisione degli incrementi di ricchezza conseguiti dai coniugi anche grazie all’attività separata di ciascuno di essi durante il matrimonio.

In realtà, con la riforma del 1975 si è assistito al passaggio da un regime patrimoniale, quello della separazione dei beni dei coniugi , espressione di una visione “egoistica” e disparitaria del modello familiare ad un regime, quello della comunione,che, invece, aspira alla realizzazione del principio di parità sostanziale nonché al superamento della condizione di inferiorità economica del coniuge privo di un reddito di lavoro.

In particolare,la disciplina del regime patrimoniale della comunione legale è regolata dagli artt. 177 e 179 c.c. e, come da più parti osservato, è espressione di un sistema c.d. misto o composito che attinge in parte al regime comunitario ed in parte a quello separatista e di partecipazione differita.

Sicché, è possibile distinguere tra beni che cadono “immediatamente” in comunione,( art. 177 lett. a), d) e co.2) , quelli che ne sono oggetto solo dopo lo scioglimento della comunione legale,cosiddetta “comunione de residuo” ( art. 177 lett.  b) e c)  ed ,infine,quelli che restano di proprietà individuale di ciascuno dei coniugi ( art. 179 c.c.).

Le successive norme, invece, disciplinano l’amministrazione della comunione legale ( artt.180 c.c. – 185 c.c. ), la responsabilità dei coniugi ed i beni che formano oggetto della comunione  in ordine alle obbligazioni assunte nell’interesse della famiglia  e delle obbligazioni gravanti sui coniugi singolarmente.

Fra tutte,norma cardine con riguardo al regime patrimoniale della famiglia è,in primis, l’art. 177 c.c. il quale detta la regola generale della caduta in comunione dei beni acquistati dai coniugi e ,pertanto, stabilisce che sono oggetto di comunione immediata gli “acquisti” compiuti dalla coppia  insieme o separatamente  durante il matrimonio,lett a); le “aziende gestite da entrambi i coniugi  e costituite dopo il matrimonio , lett. d); gli utili e gli incrementi delle aziende appartenenti ad  uno dei coniugi  anteriormente al matrimonio ma gestite da entrambi ( art. 177 co.2).

Dunque,nelle predette ipotesi la caduta in comunione si determina ex lege ovvero automaticamente al momento dell’acquisizione del bene, risultando irrilevante la provenienza del danaro.

La ratio che ispira la comunione c.d. immediata è quella di una presunzione legale di congiunta formazione del risparmio durante la vita familiare che porta, quindi, a non distinguere la misura dell’effettiva partecipazione morale e materiale di entrambi i coniugi.

L’art. 177 c.c. ,come accennato,regola anche il sottoregime della comunione de residuo, altresì nota come comunione a partecipazione eventuale o differita.

Tale fattispecie si riferisce a ciò che residua all’atto dello scioglimento della comunione legale e riguarda i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi; i proventi dell’attività separata di ciascuno dei coniugi ove “non consumati” allo scioglimento della comunione nonché, infine,i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente sempre ove sussistano al momento dello scioglimento ( art. 178 c.c.).

Invero,i beni rientranti nella comunione de residuo si caratterizzano per il fatto che prima dello scioglimento della comunione medesima restano nella piena disponibilità e nel godimento del coniuge, analogamente a quanto previsto per i beni personali di cui all’art. 179 c.c..

Tuttavia, si differenziano rispetto a questi ultimi in quanto il titolare di beni personali può alienarli e con il prezzo ricavato acquistare altri beni che,del pari,non costituiranno oggetto della comunione, sempre che di tanto sia fatta espressa menzione all’atto di acquisto ,conformemente a quanto previsto dall’art.179 lett. f) c.c..

Di contro, gli acquisti effettuati con i proventi della vendita della comunione de residuo cadono immediatamente nella comunione legale.

In realtà,derogano a tale regola solamente gli acquisti aventi ad oggetto i beni di cui all’art. 179 lett. c) e d) c.c., ovvero di beni di uso strettamente personale o  destinati all’esercizio della professione e ciò in ragione della loro oggettiva destinazione.

In questo modo il legislatore, il cui intento, per il tramite della cennata riforma,era proprio quello di tutelare i bisogni della famiglia e del coniuge più debole, ha voluto evitare  che l’utilizzo delle ricchezze oggetto della comunione residuale possa in qualche modo incrementare il patrimonio personale del solo  coniuge che ne ha la disponibilità.

Molteplici, quindi, le ragioni di fondo che hanno ispirato l’istituto della comunione differita espressione,secondo alcuni, non solo del raggiungimento di un giusto equilibrio tra il principio solidaristico che dovrebbe informare la vita coniugale ( ex art. 29 cost.) e la remunerazione del lavoro ( ex art. 41, 42, Cost.) ma ,anche,di una riconosciuta libertà ai coniugi nell’espletamento della loro attività lavorativa e in particolare di quella imprenditoriale.

Differenti le teorie affermatesi con riguardo ai beni oggetto della comunione de residuo.

Un primo orientamento giurisprudenziale, tendenzialmente volto a sanzionare ogni tipo di abuso o sperpero in danno al coniuge debole, ha osservato che rientrano nel regime patrimoniale de quo non solo i redditi effettivamente esistenti al momento dello scioglimento della comunione bensì anche quelli percependi rispetto ai quali il coniuge titolare non sia riuscito a dar prova che sono stati consumati per il soddisfacimento dei bisogni familiari o per investimenti  caduti in comunione.

All’opposto,un differente indirizzo ha chiarito che entrano a far parte della comunione differita solo ed esclusivamente i beni che,appunto, residuano al momento dello scioglimento della stessa.

Ciò in quanto, come evidenziato, i beni della comunione de residuo sono,sostanzialmente,beni personali del coniuge rispetto ai quali questi può liberamente disporne fino allo scioglimento della comunione, momento in cui ciò che residua di tali beni deve essere diviso a metà  tra essi coniugi.

In pratica, il richiamato indirizzo ha il merito di aver chiarito,definitivamente, che i beni della comunione de residuo non sono sottoposti ad alcun condizionamento o vincolo di destinazione e, perciò, cosi riconoscendo in capo all’altro coniuge una mera aspettativa di fatto  rispetto al residuo non consumato di frutti e proventi,non dissimile dalla condizione di aspettativa che vanta l’erede prima dell’apertura della successione.

Nondimeno,la giurisprudenza,  anche tenuto conto della necessità da parte dei coniugi di rispettare i doveri fondamentali di cui agli artt. 143 e 147 c.c., ha attribuito in capo al coniuge non percettore dei suddetti redditi il rimedio della  separazione giudiziale dei beni ex art. 193 c.c.  onde, eventualmente, tutelarsi nel caso in cui il coniuge percettore del reddito sia animato  da scarso senso di solidarietà coniugale.

Orbene, sulla scorta delle presenti considerazioni la giurisprudenza ha cercato di definire il rapporto, non sempre chiaro, intercorrente tra il regime della comunione de residuo e le partecipazioni azionarie e i conti correnti cointestati.

Sul punto,attesa la laconicità dell’art. 177 c.c., un ruolo fondamentale è stato svolto dalla giurisprudenza.

Secondo un risalente e minoritario orientamento le partecipazioni sociali, in quanto diritti di credito, non rientrano nella comunione legale.

In pratica tale indirizzo,prendendo spunto dal tenore letterale dell’art. 1100 c.c.,in materia di comunione in generale, ha ritenuto che debbano essere oggetto della comunione legale solamente i diritti reali e non anche i diritti di credito in quanto,la natura strettamente personale di questi ultimi li renderebbe, perciò solo , inidonei alla condivisione automatica con l’altro coniuge.

Il restrittivo indirizzo di cui sopra è stato nel corso del tempo temperato  da quella giurisprudenza che,invece, ha distinto tra partecipazioni in società di persona e partecipazioni in società di capitali, cosi affermando che solo queste ultime possono entrare a far parte della comunione legale.

In pratica, ponendo l’attenzione sul diverso ruolo svolto dai soci nei suddetti ambiti si è evidenziato che nella società di capitali i soci sono meri investitori e, dunque,la partecipazione  rappresenta solo un modo di impegnare la ricchezza.

All’opposto, nelle società di persone, i soci esercitano direttamente l’attività di impresa e,di conseguenza,non si limitano alla mera partecipazione ai risultati economici della società.

In pratica, il richiamato indirizzo ermeneutico, onde dirimere il controverso problema della ricaduta o meno delle partecipazioni sociali nel regime di comunione dei coniugi, ha fatto leva , principalmente, sulla questione della responsabilità limitata o meno che deriva in capo ai soci in virtù della partecipazione stessa.

Sicché, ove essa si limiti al mero conferimento in società cade in comunione in via immediata ex art. 177 co.1 lett. a) c.c.,atteso che, in questo caso, il patrimonio dei coniugi non potrà subire alcun pregiudizio.

Di converso,ove la partecipazione sociale si inserisca in un modello a responsabilità illimitata,tale acquisto rientrerà necessariamente tra quelli di cui all’art. 178 c.c. per poi, eventualmente, cadere in comunione de residuo al momento dello scioglimento della stessa.

Numerose critiche sono state mosse dalla dottrina nei confronti di un siffatto criterio discretivo.

Si tratterebbe, invero, di un parametro meramente formale improntato unicamente sul regime di responsabilità dei modelli societari e che,perciò,condurrebbe ,inevitabilmente, a soluzioni che  non rispecchiano la realtà fattuale.

In ragione di ciò si è,quindi,osservato che un valido criterio distintivo onde comprendere se le partecipazioni sociali rientrino o meno nel regime di comunione immediata o de residuodovrebbe,invece,porre attenzione alla destinazione che il coniuge acquirente ha voluto attribuire alla partecipazione.

In pratica, è stato evidenziato che ogniqualvolta la partecipazione rappresenti l’esercizio di una vera e propria “attività d’impresa” da parte del coniuge imprenditore la stessa rimarrà personale cadendo in comunione de residuo solo al momento dello scioglimento della medesima,cosi come previsto dall’art. 178 c.c..

Di contro, ove la partecipazione sociale rappresenti un “acquisto” ,ovvero un investimento del coniuge, volto ,perciò,ad incrementare il patrimonio comune, si deve ritenere che la stessa cada in comunione immediata ex art. 177 co.1 lett. a) c.c..

Un recente indirizzo,valorizzando la locuzione “acquisti” di cui alla cennata disposizione,ha chiarito che la stessa è idonea a ricomprendere gli atti acquisitivi di ogni genere di bene non contenendo, di fatto, alcuna specificazione limitativa.

In considerazione di ciò la giurisprudenza prevalente ha affermato che rientrano nella comunione c.d. immediata anche i diritti di credito ove si risolvano in veri e propri investimenti.

Ciò in quanto,le forme di “investimento” determinano  un quid ali riconducibile al concetto di “acquisto” di cui all’art. 177 co.2 lett.a) c.c. a differenza degli altri meri crediti (si pensi al preliminare di vendita) che, invece, non rappresentando un incremento non possono costituire oggetto del patrimonio comune dei  coniugi.

Sicché,sulla scia di detta impostazione, cadono in comunione, anche i titoli di partecipazione azionaria, al pari dei titoli di obbligazioni e delle quote di fondi d’investimento ciò in quanto trattasi di acquisti di nuove ricchezze in grado di accrescere il patrimonio.

Nei predetti casi, infatti, la finalità di investimento è inequivoca rappresentandone anche la funzione e la ratio.

Tra l’altro,seguendo il ragionamento portato avanti dalla Suprema Corte,i diritti a struttura complessa quali ,appunto, i diritti azionari, sarebbero suscettibili di  entrare nella comunione immediata, in quanto beni ex art. 810, 812,813.

In pratica, si ammette la caduta in comunione delle partecipazioni azionarie non per una generale idoneità dei crediti a far parte della comunione quanto per la “materialità” che contraddistingue tali partecipazioni atteso che,in questo caso,il credito risulta incorporato in una res, ovvero il titolo che le rappresenta, nonchè per il loro intrinseco valore di scambio.

Tra l’altro,risulterebbe indifferente che per l’acquisto delle partecipazioni azionarie siano stati utilizzati i proventi dell’attività separata del coniuge investitore in quanto il nostro ordinamento,enucleando all’art. 177 co.1 lett. a) c.c. la regola generale secondo la quale entrano a far parte della comunione gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio,  sancisce il principio della “gratuità del coacquisto” .

Per cui,circa la caduta o meno di un dato bene nella comunione legale  risulta di regola irrilevante la provenienza del denaro utilizzato per il suo acquisto.

Tale principio risponderebbe, perciò, ancora una volta alla ratio di una comunione legale costruita come comunione di ricchezza,ove in genere il coniuge beneficia di tutte le ricchezze del consorte ,fatta eccezione per i beni che rimangono personali ex art. 179 c.c. e per quelli che ,al più, rientrano nella comunione de residuo.

Invero, la scelta di far rientrare nella comunione legale i crediti aventi carattere c.d. “finale”,ossia quelli che si risolvono in veri e propri investimenti e non soltanto in mezzi per il successivo acquisto di diritti reali, è frutto,tra le altre cose,di una valorizzazione delle differenti finalità sottese rispettivamente al regime giuridico della comunione ordinaria ex art. 1100 c.c. e  a quello della comunione legale.

Per cui, si è osservato che quest’ultima è una comunione a “mani riunite” di matrice germanica nella quale, dunque, le quote acquistano rilievo solo al momento dello scioglimento della stessa.

Per il resto la comunione legale si configura  quale comunione senza quote posto che ciascun coniuge risulta titolare della totalità dei beni facenti parte della stessa a differenza, invece, della comunione ordinaria che, a sua volta, ricalca il modello romanistico.

In pratica la comunione legale, all’opposto di quella ordinaria,non ha quale finalità precipua quella di tutelare la proprietà individuale ed il libero godimento di essa ma è finalizzata alla tutela della famiglia e dei molteplici valori costituzionalizzati  che coinvolgono detta formazione sociale.

Quanto detto induce ,perciò, a ritenere che, in questo caso, le esigenze dei singoli coniugi si stemperino attribuendo invece rilievo primario  alla salvaguardia dei bisogni familiari complessivi.

Da qui, ne discende,l’automatica caduta in comunione di tutti i diritti di credito, quali,appunto,le partecipazioni azionarie, aventi ex se valore economico e l’esclusione, invece, di quei diritti di credito  che non comportano un nuovo stabile e definitivo incremento patrimoniale.

Seguendo tale impostazione la Suprema Corte ha chiarito che il deposito in conto corrente,laddove avente ad oggetto somme provenienti da attività personali di uno dei coniugi,non integra un’operazione finalizzata a determinare un mutamento effettivo dell’assetto patrimoniale del coniuge depositante e, dunque, non ricade nell’ambito della comunione immediata ma,semmai,nella comunione de residuo,ex art. 177 co.1 lett. c).

I recenti indirizzi giurisprudenziali si sono, quindi,discostati dai precedenti orientamenti i quali, per lungo tempo avevano affermato  che la cointestazione di un conto corrente bancario è indice di una donazione indiretta tra coniugi  avente ad oggetto tutte le somme depositate  sul conto, pur se appartenenti ad uno solo dei correntisti.

Perciò, in forza del richiamato orientamento,si stabiliva che la prova contraria,tesa a vincere la presunzione di comunione,doveva consistere nella dimostrazione da parte di chi aveva versato le somme personali sul conto comune dell’assenza di un qualsivoglia animus donandi nei confronti dell’altro correntista.

Orbene, la recente giurisprudenza ha affermato che il rapporto di conto corrente bancario determina la costituzione di un diritto di credito del correntista nei confronti della banca depositaria avente ad oggetto la restituzione, quantomeno, della somma depositata.

In pratica, come sopra esaminato, il diritto di credito è idoneo a rientrare nella nozione di “acquisti” ex art. 177 co.1 lett. a) c.c..

Tuttavia, la Suprema Corte ha ritenuto che i depositi bancari  non sono idonei a cadere nella comunione legale.

Le ragioni espresse dai giudici di legittimità moverebbero dal presupposto che attraverso l’operazione di deposito bancario non si realizza alcuna acquisizione nel patrimonio dei coniugi ma solamente uno spostamento di ricchezza già esistente da un luogo ad un altro ovvero all’interno del conto corrente.

In altri termini, si è evidenziato che i depositi bancari , a differenza delle partecipazioni azionarie, rappresentano un diritto di credito incapace di addurre un incremento di ricchezza nel patrimonio del depositante.

Di talché, il denaro depositato in un conto corrente rappresenta un mero “credito di restituzione” e non un credito relativo all”acquisto” ovvero un quid novi ,idoneo ad accrescere la comunione ex art. 177 co.1 lett. a) c.c..

In quest’ottica, quindi, il deposito il conto corrente ha valore di mera operazione di conservazione e gestione di ricchezze già acquisite con la conseguenza che, laddove abbia ad oggetto somme provenienti da attività personali di uno dei coniugi,deve rimanere nella disponibilità esclusiva di quest’ultimo, rientrando, semmai, nella comunione de residuo ex art. 177 co.1 lett. c)..

Guarda anche

  • Anatocismo e prassi usurarie

  • Servitù atipiche e tutela esperibile

  • Parere diritto civile corso avvocati INPS

  • IL PRINCIPIO DI CONCORRENZA CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA FIGURA DELL’ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO.