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Esercizio di poteri di autotutela della stazione appaltante sull’aggiudicazione limiti, conseguenze risarcitorie, sorte del contratto e riparto di giurisdizione

Esercizio di poteri di autotutela della stazione appaltante sull’aggiudicazione limiti, conseguenze risarcitorie, sorte del contratto e riparto di giurisdizione

Pubblicato il 12.01.2017 Di Giorgia Mantegazza

L’evidenza pubblica è quel procedimento amministrativo che accompagna la conclusione dei contratti della p.a.. Nel corso di quest’ultima vengono rese note le ragioni di pubblico interesse che giustificano l’intenzione a contrarre, la scelta del contraente la formazione del consenso negoziale. Detta procedura è destinata a concludersi con la c.d. Aggiudicazione definitiva, provvedimento propedeutico alla stipulazione del contratto, in cui l’Amministrazione all’esito della selezione delle offerte presentate, svolta secondo il criterio indicato nel bando di gara, rende noto il nominativo della propria futura controparte contrattuale. Possiamo dire che con l’aggiudicazione si conclude la fase pubblicistica di selezione del contraente privato, cui segue una fase privatistica coincidente con la stipula ed esecuzione del contratto.

I concreti esiti della procedura di scelta del contraente privato possono essere fortemente influenzati dal potere di autotutela riconosciuto alla p.a.. L’autotutela è una nozione ampia e complessa, atta a ricomprendere in se molteplici fattispecie anche molto diverse tra loro. Nell’ambito della procedura di evidenza pubblica essa ha ad oggetto l’aggiudicazione definitiva ( c.d. Aggiudicazione esterna, dal punto di vista del contratto, in quanto incide su un atto, come detto, ad esso prodromico e temporalmente anticipato) e si esprime più di frequente negli istituti di revoca e annullamento d’ufficio ( codificati dal legislatore del 2000, l. 205, agli art. 21 quinques e 21 nonies della legge generale sul procedimento amministrativo, l. 241/90). Si suole invece definire c.d. Autotutela interna il complesso dei poteri di intervento unilaterale della p.a. sul contratto, che possono portare ache ad effetti risolutivi dello stesso: pensiamo a revoca e recesso unilaterale ( rispettivamente agli artt. 108 e 109 d.lgs 50/2016, quest’ultimo ricognitivo del previgente art. 134 Dlgs 163/2006 di particolare rilievo in materia di appalti pubblici).

Tornando alla c.d. Autotutela esterna, con un maggiore sforzo di precisione, possiamo definire gli istituti sopra citati, specie l’annullamento come espressione dell’autonomo potere di riesame riconosciuto alla P.A. nell’ambito dell’autotutela decisoria spontanea, la quale costituisce la regola dell’azione amministrativa nei casi in cui l’Amministrazione agisce come autorità ( in ossequio al principio costituzionale di buon andamento, imparzialità e legalità dell’azione amministrativa art. 97). Essa si traduce nella facoltà, trattandosi di potere discrezionale, per la p.a. di ritornare sulle proprie decisioni al fine di dare soluzione a conflitti reali o potenziali sorti con l’interesse pubblico a causa di provvedimenti adottati dalla stessa, che risultino ad un più attento esame affetti da un vizio di legittimità originario ( annullamento d’ufficio) o affetti da un vizio di merito dell’azione amministrativa, sopravvenuto o originario ( revoca) determinato da sopravvenienze legate a nuovi motivi di interesse pubblico, o al mutamento delle condizioni di fatto, ovvero ancora da una rivisitazione dell’interesse pubblico originario. In quest’ultimo caso viene in rilievo un’ipotesi peculiare di jus poenitendi, il cui ambito di applicazione è stato recentemente ristretto dalla mano del legislatore amministrativo, che al fine di assicurare una tutela rafforzata al legittimo affidamento del privato, ne ha escluso l’operatività in relazione a provvedimenti considerati maggiormente idonei a ingenerare nel privato un tale affidamento: autorizzazioni e provvedimenti aventi ad oggetto la concessione di vantaggi economici, (in continuità con la scelta operata dal legislatore tedesco).

Conflitti che vengono risolti,  ricorrendone le condizioni di legge, oggetto di approfondimento tra breve,  senza dover ricorrere all’autorità giudiziaria, ma mediante l’adozione di un provvedimento spontaneo ( c.d. Di secondo grado, in forza della stretta connessione che lo lega al provvedimento oggetto di riesame), che a seconda delle ipotesi può avere efficacia conservativa o demolitoria del provvedimento di primo grado. Un’efficacia caducatoria, che viene graduata dall’ordinamento sulla base del vizio da cui è affetto l’atto riesaminato:  ne giustifica la caducazione retroattiva il vizio di legittimità  proprio dell’atto annullato ( violazione di legge, incompetenza o eccesso di potere (art. 21 octies I comma l. 241/90) con esclusione dei vizi non invalidanti, incapaci cioè di alterare il contenuto del provvedimento amministrativo, inidonei a fondare tanto l’annullamento giudiziale quanto l’annullamento d’ufficio); al contrario l’effetto demolitorio è irretroattivo, opera dunque solo pro futuro, in relazione al provvedimento revocato in quanto affetto da mero vizio di merito, che come tale non consentirebbe di travolgere gli effetti medio tempore prodotti dal provvedimento. Ne approfittiamo per sottolineare come ai sensi dell’art. 21 quinques comma 1 l. 241/90 possono essere oggetto di revoca i soli provvedimenti caratterizzati da efficacia durevole, o comunque ancora idonei a produrre effetti al momento del riesame. Prospettazione messa in crisi dalla riforma intervenuta sul finire del primo decennio degli anni 2000 che ha ancora una volta innovato la disposizione normativa appena citata, includendovi il comma 1 bis, secondo il quale possibile oggetto di revoca sono anche i provvedimenti amministrativi ad efficacia istantanea. Scelta normativa che tuttavia l’opzione interpretativa  preferibile considera   come riferita ai provvedimenti istantanei non ancora portati a pieno effetto.

Ci troviamo dinanzi ad un potere di riesame che lungi dal rappresentare un “farsi giustizia da sè” è strettamente connesso al potere di amministrazione attiva (tanto da spingere taluni a inviduarne il fondamento legislativo proprio nella norma attributiva di detto potere, ancorchè destinato ad esprimersi un procedimento di secondo grado) e trova nella legge una puntuale regola di disciplina e un limite, la stessa ha infatti recepito le migliori evoluzioni e sviluppi frutto dello sforzo di ricostruzione operato  da dottrina e giurisprudenza.

La pubblica amministrazione procedente ( di regola lo stesso organo autore del provvedimento di primo grado, salva diversa volontà legislativa, ovvero salvo il caso in cui tale provvedimento sia affetto da vizio di incompetenza, ovvero ancora salvo in caso di successione di leggi modificativa, che abbia diversamente ripartito la competenza) può procedere alla rimozione del provvedimento riesaminato dall’ordinamento solo quando ciò risponda a ragioni attuali e concrete di interesse pubblico, che all’esito di un giudizio di bilanciamento in concreto svolto tenendo in debito conto il complesso degli interessi pubblici e privati, risulti preminente. Un interesse che giammai potrà coincidere con la mera restaurazione della legalità violata. Non si ignora che spesso la giurisprudenza ha ritenuto detto interesse pubblico sussistente in re ipsa, quando la rimozione del provvedimento è apparsa funzionale alla realizzazione di un risparmio di spesa o un alleggerimento degli oneri finanziari gravanti sulla p.a.: tanto da giustificare la predisposizione di un regime speciale di autotutela  di detti provvedimenti ( oggi abrogato) subordinato al rispetto di un termine temporale per l’esercizio del potere di riesame (pari nel massimo a tre anni dall’adozione del provvedimento) nonchè alla previsione di un indennizzo da liquidarsi in favore del privato danneggiato dalla rimozione del provvedimento.

Detto ciò è bene evidenziare che tra gli interessi antagonisti che la p.a. è chiamata a tenere in considerazione nel corso del predetto giudizio di bilanciamento, accanto alla stabilità delle relazioni giuridici, anche l’affidamento del privato ricopre un ruolo di assoluta preminenza. Ciò influenza significativamente il contesto in esame tanto sotto il profilo sostaziale, quanto sotto il profilo processuale. Volendosi concentrare brevemente su detto secondo aspetto è bene evidenziare la progressiva procedimentalizzazione del procedimento di secondo grado intervenuta ad opera della giurisprudenza. Il procedimento in parola deve svolgersi in conformità ai principi di cui alla l. 241/90: in specie, con riguardo all’invio dell’avviso di avvio del procedimento, ma anche in relazione alla efficacia dei provvedimenti di secondo grado, che ha quale termine iniziale la comunicazione degli stessi ai destinatari del provvedimento di primo grado e soprattutto con riguardo al pregnante onere di motivazione del provvedimento adottato in autotutela, al fine di consentire al privato di comprendere con chiarezza il reale e chiaro fondamento giustificativo della rivisitazione dell’interesse pubblico.

Tornando all’aspetto sostanziale della vicenda, le tutele predisposte dal legislatore a presidio del legittimo affidamento in relazione al potere di autotutela divergono a seconda che consideriamo l’istituto della revoca o dell’annullamento d’ufficio. In quest’ultimo caso, il legittimo affidamento del privato riceve tutela grazie ad una perimetrazione  temporale del potere di autoannullamento, in generale da esercitarsi a pena di decadenza entro un lasso di tempo ragionevole dall’adozione del provvedimento di riesame. Un criterio di ragionevolezza che viene declinato specificatamente in massimo  18 mesi in relazione a quei provvedimenti maggiormente idonei a ingenerare nel privato detto affidamento: autorizzazioni e concessioni di vantaggi economici.

Al predetto criterio temporale si sostituisce in caso di revoca un diritto all’indennizzo riconosciuto in favore del privato che subisce un pregiudizio in conseguenza del, pur legittimo, provvedimento di revoca. Siamo dinanzi ad una responsabilità per atto lecito della pubblica amministrazione, connotazione che influenza il quantum dell’indennizzo, limitato ( o parametrato per ripercorrere le scelte lessicali del legislatore) al solo danno emergente, pari alle spese sostenute facendo incolpevolmente affidamento sulla definitività e validità del provvedimento caducato. Solo ove il privato fornisca la prova dell’illegittimità della revoca esercitata nel caso di specie, quest’ultimo avrà diritto al ristoro del danno integrale comprensivo del c.d. Lucro cessante, ovvero del mancato guadagno, quel guadagno che il privato avrebbe conseguito ove il provvedimento riesaminato avesse conservato la sua validità, ma sfumato in forza della sua caducazione.

Ci troviamo dinanzi a una responsbilità da “affidamento tradito”, ne deriva che ( come puntualmente sancito dall’art. 21 quinques comma 1 bis l. 241/90) l’entità dell’indennizzo riconosciuto al privato può essere influenzato dall’effettiva consistenza di detto affidamento. La disciplina in parola richiama il paradigma civilistico del “buon danneggiato” ( ex art. 1227 c.c.), per cui la p.a. procedente é chiamata a valutare la conoscenza o conoscibilità da parte del cittadino della contrarietà del provvedimento di primo grado all’interesse pubblico, in ragione dell’accessibilità della normativa di riferimento, la cui interpretazione univoca e chiara individuazione dei fattori atti a qualificare il provvedimento come conforme o contrario all’interesse pubblico, rende detta incompatibilità auto evidente, affievolendo la tutela da riconoscersi all’affidamento del privato. Ciò vale a maggior ragione nel caso di concorso di colpa del danneggiato nella erronea valutazione dell’interesse pubblico in cui sia incorsa la p.a. ( pensiamo al caso di provvedimenti adottati sulla base di documentazione prodotta dal privato che si riveli erronea, incompleta sè non falsificata). Nello stesso senso ha statuito il legislatore tedesco che esclude l’operatività di ogni tutela per l’affidamento del privato, in casi in cui il provvedimento adottato sia frutto di dolo, minaccia o corruzione.

La lesione del legittimo affidamento del privato motiva e fonda anche una diversa forma di responsabilità della p.a., c.d. responsabilità da scorrettezza o da comportamento.

Alla sentenza 500/99 della Cassazione si deve un importante sforzo ricostruttivo della responsabilità dell’amministrazione, che come reso evidente dal progressivo approfondimento della giurisprudenza è una fattispecie multiforme e variegata. La sua articolazione principale e più frequente trova la sua fonte nel c.d. Danno da provvedimento, il pregiudizio da ristorare ha quale proprio antecedente causale immediato e diretto un provvedimento illegittimo della p.a.: un provvedimento negativo di reiezione dell’istanza del privato ( lesione dell’interesse legittimo pretensivi), o un provvedimento atto ad incidere negativamente su una posizione giuridica soggettiva ormai consolidatasi in capo al privato ( lesione dell’interesse legittimo oppositivo).

Ci sono tuttavia casi in cui la responsabilità trova fonte nel comportamento della p.a., magari estrinsecatosi nell’adozione di atti, che non sono tuttavia la fonte immediata e diretta del danno.

Si propone dunque la divaricazione tra responsabilità da violazione delle regole di validità, che si traduce in un vizio di legittimità dell’ atto e può essere idoneo fondamento di responsabilità civile per violazione dell’interesse legittimo e responsabilità da violazione delle regole di condotta, poste a presidio della libertà negoziale è possibile fonte di responsabilità precontrattuale. Responsabilità che opera su piani separati, il che significa che non è necessaria l’inosservanza delle prime regole per aversi responsabilità precontrattuale ( anche se le due violazioni possono concorrere) nè l’accertamento di quest’ultima si traduce in invalidità del contratto.

Una responsabilità precontrattuale è stata ascritta in passato alla p.a. tanto in ipotesi di invalidità della sequenza procedimentale tanto in casi di accertata validità degli stessi.

Si tratta di un paradigma di responsabilità di matrice codicistica,  posto a tutela della libertà negoziale, legato all’inosservanza dei canoni di buona fede e diligenza, di cui alle norme imperative ex art. 1337 e 1338 c.c., espressione del dovere costituzionale di solidarietà contrattuale ( art. 2 Cost.) che si traduce nel comportarsi secondo lealtà nel corso delle trattative e nella formazione del contratto e per altro verso nell’astenersi da comportamenti che potrebbero essere fonte di un danno ingiusto, in modo tale che l’esercizio della propria libertà negoziale da parte di un contraente non si traduca in un abuso della libertà negoziale dell’altro contraente.

Superata la risalente opinione contraria all’applicabilità della culpa in contrahendo sopra esposta alla p.a. ( argomentata in forza dell’insindacabilità della discrezionalità amministrativa, della sussistenza di procedure di controllo a presidio dell’attività negoziale pubblica e della spendita da parte del privato di posizioni di interesse legittimo), si è configurata in capo alla p.a. una responsabilità precontrattuale peculiare, stante le caratteristiche che connotano l’azione pubblica. Ciò nella consapevolezza che l’interesse perseguito dalle parte private nelle procedure di scelta del contraente, non è semplicemente l’ordinario interesse a non venire coinvolti in trattative inutili, ma l’interesse a un bene della vita finale, che è l’aggiudicazione. Si è riconosciuta l’autonomia del momento negoziale da quello pubblicistico, in altre parole il duplice profilo della p.a. quale “ buon amministratore” da un lato e “buon contraente” dall’altro ( unico aspetto indagato alla luce della responsabilità precontrattuale). Il tutto, nell’ambito di un’evoluzione progressivamente ampliativa, che partendo dall’applicare tale tipologia di responsabilità  ai soli casi di trattativa privata pura, ovvero nei casi di procedura aperta o negoziata, al solo momento successivo alla scelta scelta del contraente, l’ha estesa ad ogni fase della procedura di scelta del contraente privato, evidenziando come ogni momento, del procedimento amministrativo prodromico, temporalmente anticipato, rispetto alla fase privatistica pura concorra a formare il consenso negoziale, necessitandosi sotto questo aspetto una disciplina armonica e continuativa di quello che è un fenomeno unitario, ancorchè bifasico, non potendosi affievolire la tutela di cui agli artt. 1337 e 1338 c.c. al momento in cui il contatto sociale, sia individualizzato. La presenza di un procedimento amministrativo che doppia quello negoziale, la rilevanza di istanze di interesse pubblico che orientano la trattativa e la presenza di una pluralità di offerenti, sono circostanze atte a determinare un volto per certi versi innovativo della responsabilità precontrattuale, ma non tanto da escluderne l’operatività sin dagli inizi della procedura di evidenza pubblica.

In relazione alla tematica che qui ci interessa, le condizioni che integrano la responsabilità precontrattuale della p.a. sono essenzialmente due: 1) una positiva l’incolpevole affidamento ingenerato nel privato dalle iniziative comportamentali e provvedimentali della p.a. 2) la mancata stipula del contratto per aver la p.a. messo fine in assenza di giusta causa, ovvero una volta trascorso un lasso di tempo tale che ha ragionevolmente consolidato l’affidamento del privato al buon esito della procedura.

Più in particolare la giurisprudenza sancito la responsabilità precontrattuale della p.a. in una serie di ipotesi: in caso di revoca dell’aggiudicazione definitiva per affermate esigente di completa revisione progettuale, quando la revoca sia stata pronunciata una volta trascorso un lasso di tempo irragionevolmente lungo dall’espletamento degli atti di gara; in caso di annullamento di un atto della sequenza procedimentale, perché affetto da vizio di legitittimità, quando trattasi di vizio originario di cui la p.a. avrebbe potuto avvedersi sin dall’inizio della procedura, ma di cui ha preso atto solo in un momento successivo alla stipula del contratto; in caso di revoca dell’aggiudicazione definitiva per intervenuto mutamento delle condizioni di intervento; in caso di revoca per mancanza di fondi. Tale ultima ipotesi è stata attenzionata con particolare frequenza dalla giurisprudenza, la quale rifacendosi ai principi fin’ora esposti, ha evidenziato il grave rimprovero movibile alla p.a. per violazione del dovere di vigilanza e di coordinamento degli impegni  economici assunti in relazione ad una procedura di evidenza pubblica, non solo avviata ma svoltasi sino all’aggiudicazione. Ipotesi in cui punto focale permane l’affidamento incolpevole ingenerato nel privato, con riguardo anche, ma non unicamente, al fattore temporale della vicenda. Per esempio è stata sancita la responsabilità precontrattuale di quella p.a. che ha revocato l’aggiudicazione definitiva, dopo la stipula del contratto, pur avendo sollecitato primo di questo momento l’aggiudicataria a predisporre con rapidità  in suo favore il servizio oggetto del bando. La p.a.è stata al contrario esente da responsabilità in un caso in cui ha revocato il bando di gara, ancora una volta per mancanza di fondi, ma ancor prima della scadenza del termine di presentazione dell’offerta. La tempestività dell’agire della stazione appaltante ha scongiurato infatti la creazione in capo ai partecipanti di un affidamento legittimamente tutelabile.

Così descritto l’aspetto qualitativo della responsabilità precontrattuale della p.a., nel ricordare come l’opzione interpretativa preferibile la riconduca al più ampio genus della responsabilità aquiliana, giova analizzarla brevemente sotto l’aspetto quantitativo,  profilo che non si discosta dall’ordinaria disciplina codicistica, prevedendo il solo ristoro dell’interesse negativo pari al danno subito: alle spese sostenute e alla chance contrattuale alternativa perduta.

Una species di responsabilità che ha sollevato un vivace dibattito quanto al profilo della giurisdizione. Fondamento tradizionale della giurisdizione amministrativa è la riconducibilità del sacrificio ristorabile alla iniziativa comportamentale o provvedimentale della p.a. che sia anche solo latamente riconducibile ad un potere attribuitale dalla legge in funzione dell’interesse pubblico. Circostanza che la giurisprudenza amministrativa ha riscontrato anche quando detto sacrificio discenda da un fatto giuridico più complesso e articolato del singolo provvedimento amministrativo illegittimo e in cui oggetto di lesione sia il legittimo affidamento del privato. Rifacendosi al dato letterale dell’oggi abrogato art. 6 comma 1 L.205/2000, l’Adunanza plenaria ha considerato attratte alla giurisdizione amministrativa tutte le controversie, aventi ad oggetto interessi legittimi come diritti soggettivi, sorte nel corso del procedimento funzionale alla stipula di un contratto di appalto di lavori, servizi e forniture, in quanto nella scelta del contraente privato la stazione appaltante è tenuta al rispetto della relativa normativa comunitaria ed all’osservanza della procedura di evidenza pubblica. Sicchè anche le controversie in materia di responsabilità precontrattuale, potendosi dire il pregiudizio lamentato riconducibile latamente alla funzione non può che seguire tale criterio di riparto della giurisdizione.

Se tale teoria ha incontrato agli inizi il consenso anche della Cassazione civile che ne ha individuato la bontà nell’esistenza di espresso fondamento normativo che la corroborava, l’evoluzione giurisprudenziale successiva a portato la giustizia civile ad allontanarsene, considerando attratta alla giurisdizione amministrativa solo quella categoria di controversie in cui antecedente causale del danno sia un provvedimento amministrativo illegittimo sfavorevole al ricorrente e non anche la lesione del legittimo affidamento operato dal privato in ordine alla stabilità di un provvedimento illegittimo ( connotato da un vizio di legittimità non auto-evidente, ma a se favorevole. In questo ultimo caso infatti viene in rilievo la semplice violazione di un canone di condotta di matrice civilistica atto a richiamare la giurisdizione del giudice ordinario.

Tale ricostruzione é stata sottoposta a osservazione critica. È vero che tale tesi ha il pregio di aver  posto l’attenzione su una tipologia di danno non pienamente esplorata fino ad allora dalla giurisprudenza amministrativa, legata ad un provvedimento illegittimo ma favorevole al privato. Tuttavia, è parimenti vero che anche in tal caso viene in rilievo un vizio di legittimità dell’azione amministrativa, che pur se tradottasi in un beneficio e non in un danno per il privato, non può dirsi ragione sufficiente al tradizionale criterio di riparto della giurisdizione, che per definizione vuole rimesso al giudice amministrativo il sindacato di legittimità dell’attività provvedimentale della p.a.

Rimane da verificare se il potere di autotutela riconosciuto alla p.a. al fine di assicurare la conformità delle relazioni amministrative con l’interesse pubblico possa dirsi o meno esteso alla fase privatistica della procedura di scelta del contraente privato. In altre parole, se sia possibile la rimozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva una volta intervenuta la stipula del contratto. Questione ineludibilmente connessa alla sorte del contratto è ancora una volta alla giurisdizione sulle relative controversie.

La declinazione nel tempo del potere di autotutela risulta anche sotto questo aspetto diversificata a seconda che ci riferiamo all’istituto di cui all’art. 21 nonies ovvero all’art. 21 quinques L. 241/90.

In relazione all’annullamento d’ufficio sono emerse due principali opzioni ermeneutiche.

La prima, minoritaria, esclude che persista in capo alla p.a. un potere di rimuovere l’aggiudicazione definitiva successivamente alla stipula del contratto e ció in base alla lettera degli art. 121 e ss c.p.a. che rimettono al giudice amministrativo il potere di pronunciare l’inefficacia del contratto all’esito dell’annullamento dell’aggiudicazione, nulla dicendo in merito alla p.a.. Silenzio interpretato dai fautori di tale tesi come negazione di detto potere in capo alla p.a.

Conclusione ritenuta radicalmente infondata dalla tesi maggioritaria, favorevole al riconoscimento in capo alla p.a. del potere di annullamento d’ufficio anche dopo la stipula del contratto ( salva la responsabilità amministrativa contabile legata al mancato tempestivo avvenimento del vizio e all’inerzia serbata sul punto). Una ricostruzione operata partendo da alcuni dati normativi: l’art. 121 ss c.p.a. non qualifica altrimenti l’annullamento, potendosi riferire ugualmente all’annullamento giurisdizionale e a quello d’ufficio; la legge finanzia 2005 nel declinare il potere di annullamento riconosciuto in capo alla p.a. per ragioni di risparmio di spesa ha declinato tale potere come esercitabile anche in un momento successivo alla stipula del contratto; nonchè, l’art. 11 comma 9 del previgente codice dei contratti pubblici ( Dlgs 163/2006), il quale fa salvo l’esercizio dei poteri di autotutela riconosciuti dalla legge, anche una volta divenuta definitiva l’aggiudicazione.

Se dunque l’annullamento d’ufficio è un potere “resistente” alla stipula del contratto, quest’ultimo non puó che esserne travolto, come dimostrano le principali teorie del panorama dottrinale e giurisprudenziale che parlano sul punto di caducazione, ovvero di invalidità derivata, per cui il vizio di legittimità da cui é affetta l’aggiudicazione ( atto propedeutico) finisce per propagarsi al contratto, in ossequio al principio stipula stabunt simul cadent.

È bene chiarire che lo scopo principale che la p.a. persegue quando adotta un provvedimento di annullamento d’ufficio successivamente alla stipula del contratto è proprio liberarsi del vincolo contrattuale che considera non più rispondente all’interesse pubblico. Con l’adozione del provvedimento di autotutela la p.a. ha già svolto quella valutazione di merito in ordine all’opportunità o meno della conservazione del contratto che nelle ipotesi di annullamento giudiziale spetta al giudice ex art. 121 c.p.a in caso di vizi gravi ed ex art. 122 c.p.a.  in caso di vizi non gravi. Sappiamo infatti che l’inefficacia del contratto non è una conseguenza immediata e diretta dell’annullamento dell’aggiudicazione. Accertato il vizio di legittimità di quest’ultima l’autorità giudiziaria pronuncia l’inefficacia del contratto solo quando ciò sia funzionale ad assicurare al ricorrente il subentro nel contratto, sempre che ciò risponda all’interesse pubblico, in tutti gli altri casi il ricorrente vittorioso si vedrà riconosciuta la sola tutela risarcitoria.

Tale peculiarità dell’atto di annullamento in autotutela fa sì che in tutti i casi in cui il giudice condivida le conclusioni del predetto atto, ma anche in tutti i casi in cui lo stesso si sia consolidato nell’ordinamento giuridico ( per  essere stato infruttuosamente impugnato o impugnato tardivamente) pronuncerà l’inefficacia del contratto. Se così non fosse infatti il giudice finirebbe per arrogarsi un sindacato di merito ulteriore privo di un reale fondamento normativo e per considerare il provvedimento di annullamento, pur valido ed efficace per l’ordinamento tam quam non esset.

Tale conclusione non varia al variare della autorità giudiziaria procedente: nel caso in cui il provvedimento di autotutela sia tempestivamente impugnato a procedere sarà il giudice amministrativo giustificandosi in questo caso una concertazione delle tutele dinanzi a quest’ultimo, ad un tempo chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del provvedimento è sulla sorte del contratto. Ove invece il thema decidendum sia ristretto alla sorte del contratto ( perchè il provvedimento non è impugnato o medio tempore é divenuto inoppugnabile), la controversia verterà in materia di diritti soggettivi, radicando la giurisdizione del giudice ordinario, sembra che ciò cambi l’epilogo della questione.

La “resistenza” che sembra connotare il potere di autotutela di cui all’art. 21 nonies non sembra caratterizzare l’ipotesi di cui all’art. 21 quinques L. 241/90.

Minoritaria e recessiva appare infatti la tesi favorevole ad ammettere l’esercizio di detto potere dopo la stipula del contratto sulla base della lettera dell’appena citato art. 11 comma 9 Dlgs 163/2006. La stessa Adunanza plenaria investita della questione ha determinato che ove la p.a. successivamente alla stipula del contratto si avveda di ragioni di inopportunità della prosecuzione del rapporto contrattuale dovrà esercitare il diritto potestativo riconosciutagli dall’art. 109 D.lgs 50/2016 (ricognitivo dell’art. 134 Dlgs 163/2006): il diritto di recesso. La giurisprudenza ha evidenziato l’identità di presupposti che accomuna i due istituti legate alla rivisitazione dell’originario interesse pubblico in ragione di sopravvenienze. Due istituti dunque legati da un rapporto di specialità: in cui l’art. 109 norma speciale è destinata a prevalere sulla norma generale di cui all’art. 21 quinques. Se così non fosse la norma attributiva del diritto di recesso rimarrebbe priva di qualsivoglia rilevanza pratica, poichè la p.a. opterebbe sempre per la più conveniente revoca, la quale riconosce al privato un indennizzo pari al solo danno emergente, rispetto all’art. 109, che prevede in favore del danneggiato che subisca il recesso un ristoro pari al pagamento delle opere eseguite, al valore dei materiali utili presenti in cantiere nonché un rimborso forfettario pari ad un decimo del valore delle opere non eseguite ( criterio presuntivo di determinazione dell’utile di impresa).

Quella prevista dal codice dei contratti pubblici é una disciplina differenziata rispetto a quella predisposta dalla normativa codicistica ( art. 1671 c.c.) che prevede in favore dell’appaltatore che subisca il recesso il pagamento della minor somma tra le spese sostenute o il mancato guadagno. Si comprende così il significato della locuzione parità tendenziale utilizzata dalla giurisprudenza amministrativa per evidenziare il riconoscimento in favore della p.a., in conseguenza della funzionalizzazione della sua attività a ragioni di interesse pubblico, di strumenti di autotutela interna diversificati, qualificati in ogni caso anche se previsti unicamente in favore della p.a. come aventi natura privatistica, con proposizione delle relative controversie dinanzi al giudice ordinario.

In conclusione giova ricordare quel orientamento dottrinale che ha svolto osservazioni critiche circa l’effettiva identità di presupposti tra revoca e recesso, osservando che per certi versi l’ipotesi di cui all’art. 109 Dlgs 50/2016 potrebbe presentare profili di convenienza ulteriori rispetto alla revoca ex art. 21 quinques, a prescindere dalla diverso ammontare dell’indennizzo dovuto.  In particolare, l’art. 109 configura un diritto di recesso ad nutum legato ad una mera valutazione di opportunità che ha sullo sfondo sì l’interesse pubblico, ma che non è declinato puntualmente e specificatamente declinato come per la revoca (sopravvenuti motivi di interesse pubblico, mutamento delle circostanze di fatto, rivisitazione dell’originario interesse pubblico). A ció si aggiunga che secondo quanto  osservato da alcuni Autori il legislatore del 2014 nell’escludere la revoca in ipotesi di rivisitazione dell’originario interesse pubblico ( jus poenitendi)in relazione  ad autorizzazioni e provvedimenti concessori di vantaggi economici ne avrebbe di fatto precluso l’operatività in tema di appalti pubblici, potendo qualificarsi secondo tale prospettazione l’aggiudicazione definitiva come provvedimento concessorio di vantaggi economici.

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