Concorso esterno in associazione mafiosa e principio di tipicità penale

Concorso esterno in associazione mafiosa e principio di tipicità penale

Pubblicato il 22.02.2017 autore Mariachiara Gebbia

La questione circa l’ammissibilità, nel nostro ordinamento, del concorso esterno in associazione mafiosa è stata lungamente oggetto di accesi contrasti giurisprudenziali, fino ad un decisivo arresto delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione cui è seguita, in tempi più recenti, una pronuncia della Corte Edu che ha analizzato la fattispecie da un’angolazione specifica e cioè alla luce del principio di tipicità penale, operante tanto in ambito nazionale quanto in ambito sovranazionale, sia pure con alcune differenze di interpretazione cui si farà cenno nel prosieguo della trattazione.                                                 Pare opportuno, dunque, introdurre la presente disamina con un inquadramento generale del principio di tipicità, per poi addentrarsi nel merito delle argomentazioni spendibili in materia di concorso esterno in associazione mafiosa, con specifico riferimento alle note vicende giudiziarie che hanno innescato il relativo dibattito giurisprudenziale, approdato anche all’attenzione degli organi europei. Giova innanzitutto precisare che il principio di tipicità è un corollario del principio di legalità, che domina l’intera scena del diritto penale, declinandosi in una serie di sotto – principi volti, appunto, a delimitare l’area dell’illecito penalmente perseguibile.                                                                     In particolare, il principio di legalità è riassumibile nel noto brocardo “nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege”, e prescrive la rigorosa necessità che l’incriminazione scaturisca da leggi formali ovvero da atti aventi forza di legge, con esclusione dall’ambito delle scelte di politica criminale di tutte le fonti gerarchicamente subordinate, quali atti dell’Esecutivo e consuetudini.                             Vien da sé, allora, che il primo ed immediato precipitato del principio di legalità è costituito dalla riserva di legge, volta a conferire al Parlamento quale titolare della sovranità popolare (in quanto organo rappresentativo di tutte le componenti, sociali e politiche, del Paese) il monopolio della legislazione penale, soprattutto contro eventuali ingerenze del Governo che, come organo di indirizzo politico, non è istituzionalmente preposto né strutturalmente idoneo ad assolvere a funzioni di rappresentanza democratica.                                                                                                                    Alla riserva di legge si affianca, come ulteriore corollario del principio di legalità, il principio di irretroattività della legge penale, secondo cui nessuno può essere condannato in virtù di una legge non entrata in vigore al tempo della commissione del reato. La sintesi di questi due sotto – principi, riserva di legge e irretroattività della legge penale, articolazioni a loro volta del valore primario della legalità, trova copertura costituzionale negli ultimi due capoversi dell’art. 25, compatibilmente con quanto disposto anche dagli artt. 1, 2 e 199 c.p.                                                                               Il paradigma della legalità si arricchisce poi di ulteriori componenti, che vanno a colmare i vuoti lasciati dai principi, di stampo puramente formalistico, della riserva di legge e della irretroattività della legge penale, definendone i contenuti e, quindi, conferendo loro un senso più pieno e pregnante: si tratta della determinatezza, della tassatività e, per quel che in questa sede massimamente interessa, della tipicità.                                                                                                                                                Parte della dottrina suole distinguere tra determinatezza e tassatività identificando la prima nel dovere, incombente sul Legislatore, di definire compiutamente gli elementi costitutivi di ogni fattispecie penalmente rilevante, e identificando la seconda nel divieto, per il Giudice, di ricorrere all’analogia in sede di interpretazione e applicazione normativa. Invero, pare preferibile la soluzione offerta da autorevole dottrina (Mantovani), che tratta unitariamente i due concetti sul rilievo, di ineccepibile rigore logico, per cui la tassatività postula necessariamente, e dunque assorbe, la determinatezza. In ogni caso, si tratta di principi inscindibili in quanto diretti alla realizzazione di una funzione unitaria, a garanzia della certezza del diritto colta in chiave di favor libertatis.                            In questa stessa prospettiva opera il principio di tipicità, che postula la piena corrispondenza del fatto storico ad un ben preciso modello legale: la condotta concreta acquista penale rilevanza solo se ed in quanto sia sussumibile nella fattispecie astratta prevista dal Legislatore, e chiaramente tale meccanismo può attivarsi solo in presenza di norme incriminatrici puntuali ed esaustive, a conferma del fatto che i principi di determinatezza, tassatività e tipicità, pur godendo ciascuno di autonomo rilievo, sono tra loro comunicanti ed operano in condizioni di reciproca sinergia.                                  Il principio di legalità, con tutte le variabili di cui si compone, è formalizzato anche a livello europeo e precisamente nell’art. 7 Cedu, che tuttavia non àncora il concetto di legge ad un’accezione di significato meramente formale, in considerazione del fatto che l’Unione Europea abbraccia sia Stati di tradizione romanistica (che identificano sistemi di civil law) sia Stati di tradizione anglosassone (che identificano sistemi di common law). Come noto, nei sistemi di civil law, quale il nostro, il precedente giurisprudenziale non è vincolante e non assurge al rango di fonte del diritto, mentre nei sistemi di common law vige l’opposto principio dello stare decisis. Dunque, l’art. 7 Cedu recepisce sia la nozione di “law in books” che la nozione di “law in action”, in ciò discostandosi dal principio di legalità come tradizionalmente inteso nel nostro ordinamento, dove il Giudice è soggetto soltanto alla legge (art. 101 Cost.) in quanto organo autonomo e indipendente (art. 104 Cost.) non solo rispetto agli altri poteri statali, ma anche rispetto alle stesse componenti della magistratura, non retta da vincoli gerarchici e, pertanto, libera di dissociarsi dai precedenti giurisprudenziali, ancorché formulati dalle Sezioni Unite della Cassazione.                                                                                                      Col principio di legalità, così inteso, s’è posto nella nostra giurisprudenza un problema di compatibilità rispetto alla fattispecie del concorso esterno in associazione mafiosa, della cui tipicità penale si è largamente dubitato. Invero, pur dovendosi ammettere che tale figura di reato costituisce una creazione giurisprudenziale (giustificata dalla necessità di arginare allarmanti fenomeni di collusione con gli ambienti della criminalità organizzata), la soluzione di riconoscere piena cittadinanza, nel nostro ordinamento, al concorso esterno in associazione mafiosa appare coerente col sistema ed è, infatti, stata definitivamente accolta dalla giurisprudenza di legittimità.             Innanzitutto, l’incriminazione a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa muove dalla necessaria combinazione tra norma di parte generale sul concorso eventuale (art. 110 c.p.) e norma di parte speciale sul reato di associazione per delinquere di stampo mafioso (art. 416 bis c.p.). Sul punto, appare priva di pregio la tesi della fisiologica incompatibilità tra concorso eventuale e concorso necessario, proprio e tipico, quest’ultimo, di ogni fattispecie associativa. Infatti, non v’è norma nel codice penale che vieti, o comunque escluda, un’ipotetica interazione tra l’istituto del concorso eventuale da un lato e, dall’altro, la norma incriminatrice di reati a concorso necessario poiché qualificati dalla presenza di una struttura associativa.                                                                     A ciò si aggiunga che l’art. 418 c.p., nel sanzionare il diverso delitto di “Assistenza agli associati”, si apre con la clausola di riserva “Fuori dei casi di concorso nel reato”, ammettendo l’ipotizzabilità del concorso esterno nel reato presupposto, di per sé già strutturato come reato a concorso necessario, con la conseguenza che detta previsione ha senso solo se ed in quanto riferita al concorso eventuale nella forma, appunto, del concorso esterno.                                                                                    Ammessa la configurabilità del concorso esterno nel reato di cui all’art. 416 bis c.p., come affermato dalle Sezioni Unite della Cassazione già nel lontano 1994 con la nota sentenza Demitry, resta da qualificare il contributo dell’extraneus per differenziarlo dalla partecipazione dell’intraneus. Sul punto, la giurisprudenza è costante nel ritenere che sussista il concorso esterno in associazione mafiosa ogni qual volta il soggetto agente, pur non essendo compenetrato nella struttura dell’ente criminale, di fatto ne agevoli l’attività illecita, fornendo uno specifico, consapevole e volontario contributo (di tipo morale o materiale) avente efficienza causale rispetto alla conservazione o al rafforzamento delle capacità operative dell’associazione.                                                                            Si può, dunque, affermare che la figura del concorso esterno in associazione mafiosa, pur essendo il frutto di elaborazioni pretorie, non altera le logiche proprie del modello di civil law, in quanto trova fondamento e legittimazione nell’operatività congiunta degli artt. 110 e 416 bis c.p.                     Inoltre si può affermare che, ad oggi, i contenuti della fattispecie sono definiti e delimitati con sufficiente chiarezza ed esaustività, nel pieno rispetto dei principi di determinatezza, tassatività e tipicità, grazie al consolidamento interpretativo raggiunto dalla giurisprudenza con la citata sentenza Demitry, a cui le successive pronunce si sono uniformate.Tuttavia, come segnalato dalla Corte Edu nella sentenza Contrada del 2015, il principio di legalità sub specie di tassatività, determinatezza e prima ancora tipicità appare sacrificato nelle incriminazioni relative a condotte poste in essere in epoche anteriori all’intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, risalente, come detto, al 1994.  Va intanto premesso che, per la Corte Edu, il fatto che la figura del concorso esterno in associazione mafiosa abbia una matrice giurisprudenziale, anziché legislativa, non offende il principio di legalità che, secondo una lettura dell’art. 7 Cedu adeguatamente parametrata al contesto europeo, deve essere inteso tanto con riferimento alla legge in senso formale, quanto con riferimento al diritto vivente.    Ciò che, invece, per la Corte Edu integra un’intollerabile lesione del principio di legalità, in primis sul fronte della tipicità penale, è il fatto che al tempo in cui furono attuate le condotte contestate all’imputato Bruno Contrada (tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’80 del secolo scorso) lo stato della giurisprudenza nazionale sulla configurabilità del concorso esterno rispetto al delitto di associazione mafiosa fosse tutt’altro che pacifico, essendo ancora di là da venire la risolutiva sentenza Demitry.                                                                                                      Ne deriva che l’imputato non poteva essere in condizione di sapere che la propria condotta fosse ipoteticamente idonea a integrare gli estremi del concorso esterno in associazione mafiosa, con la logica conseguenza di non poter attribuire al medesimo, ex post, un reato la cui stessa esistenza nell’ordinamento era, allora, dubbia.                                Dunque, proprio la carenza di tipicità della fattispecie al tempo del commesso reato, cioè l’assenza di un modello astratto di delitto entro cui attrarre e sussumere il fatto attribuito al Contrada, esclude in radice la possibilità di pronunciare, ora per allora, una legittima condanna per concorso esterno in associazione mafiosa.                                    Diversamente, secondo la Corte Edu, sarebbe leso l’insopprimibile diritto di ciascun soggetto di orientare il proprio comportamento in base alla prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle proprie azioni od omissioni, che costituisce il nucleo essenziale, cioè il nocciolo duro, del principio di legalità letto in chiave garantista della libertà personale di ogni individuo. Alle argomentazioni sostenute dalla Corte Edu può, tuttavia, obiettarsi che le circostanze del caso concreto ed in particolare il ruolo professionale rivestito dall’imputato, il quale era funzionario di Polizia al tempo del reato, inducono a ritenere che lo stesso fosse perfettamente in grado di immaginare le possibili ricadute sul piano dell’imputazione penale della condotta assunta e consistita nell’aver agito come intermediario tra la magistratura e le cosche criminali. In altri termini, l’imputato godeva di un’indubbia familiarità con gli ambienti giudiziari, in virtù della quale non poteva non ipotizzare il rischio di subire un’incriminazione a titolo di concorso esterno in associazione mafiosa. Per le stesse ragioni, l’imputato doveva, altresì, essere a conoscenza della tendenza giurisprudenziale, allora già notoriamente diffusa, di ammettere e perseguire penalmente il concorso esterno in associazione di stampo terroristico, strutturalmente omogeneo all’ipotesi di concorso esterno in associazione mafiosa. Proprio il diverso trattamento riservato a due fattispecie affini di concorso esterno, per di più con riferimento a condotte coeve, pare essere la spia di un certo grado di irragionevolezza nella decisione della Corte Edu in commento.                                                Pertanto, ferma restando la vincolatività, per l’ordinamento interno, delle pronunce della Corte di Strasburgo denuncianti una violazione dei principi della Cedu, sembra preferibile la soluzione di dare all’art. 7 Cedu una lettura contestualizzata, cioè parametrata alle peculiarità del caso concreto, adeguando l’interpretazione del principio di legalità alle effettive capacità dell’imputato di calcolare preventivamente le conseguenze penali del proprio agire, capacità dedotte anche dall’ambiente sociale e professionale in cui lo stesso si trovava ad operare all’epoca della commissione del reato.

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