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Finzione di avveramento della condizione e provvedimenti amministrativi.

SELENE DESOLE

 

Finzione di avveramento della condizione e provvedimenti amministrativi.

 

La problematica sottesa alla presente trattazione richiede una disamina che interessa profili di interdisciplinarietà tra il diritto civile e il diritto amministrativo. In particolare, si pone un problema di non poco momento laddove il fatto dedotto in una condizione apposta in un contratto consista nell’emanazione di un provvedimento amministrativo, in quanto emerge la nota problematica della separazione tra potere amministrativo e potere giurisdizionale.

Al fine di meglio chiarire le implicazioni di siffatta fattispecie, è opportuno, in primo luogo, procedere con il definire la disciplina codicistica della condizione, la quale è contenuta in un apposito capo inserito nel titolo dedicato alla disciplina del contratto in generale.

Come noto, la condizione è un elemento accessorio del contratto, al pari del termine e del modo, in quanto si tratta di elementi la cui presenza non è rilevante ai fini della validità del contratto, ma regolano l’esplicazione degli effetti del medesimo.

La condizione è definibile come un evento futuro ed incerto al quale le parti decidono di subordinare gli effetti o la risoluzione del contratto; infatti, ai sensi dell’art. 1353 c.c., si deve distinguere tra l’apposizione di una condizione sospensiva e di una risolutiva. Nel primo caso, il contratto sarà inefficace fino a che non si realizzi l’evento dedotto; nel secondo, invece, il contratto produce effetti fin da subito, ma si risolverà laddove si verifichi l’evento futuro ed incerto.

Si deve notare che il legislatore abbia predisposto una puntuale disciplina della condizione; in particolare, si evidenzia che sono stati posti dei precisi limiti all’operatività delle medesime. Le condizioni illecite (contrarie a norme imperative, ordine pubblico e buon costume) rendono nullo il contratto; le condizioni impossibili rendono nullo il contratto se sono sospensive; invece, l’impossibilità della condizione risolutiva fa sì che la stessa si intenda come non apposta. Inoltre, il codice dispone la nullità delle alienazioni di un diritto o delle assunzioni di obblighi subordinati a condizioni sospensive che dipendano dalla mera volontà ovvero arbitrarietà dell’alienante o, rispettivamente, da quella del debitore.

Di rilievo ai fini della presente trattazione è la disciplina contenuta nell’art. 1358 c.c. La norma si occupa di disciplinare il comportamento delle parti durante lo stato di pendenza della condizione. In particolare, emerge che le parti debbano conformarsi al canone della buona fede al fine di conservare integre le ragioni dell’altra parte. La concezione di buona fede, nella disposizione in esame, è intesa in senso oggettivo: non si tratta di uno stato psicologico, ma di un vero e proprio canone comportamentale integrativo delle obbligazioni contrattuali. Nella giurisprudenza più recente, si è ritenuto che la concezione oggettiva della buona fede trovi fondamento nell’art. 2 Cost., il quale prevede che la Repubblica, nel riconoscere e garantire i diritti inviolabili dell’uomo, come singolo e nelle formazioni sociali in cui svolge la propria personalità, richiede l’adempimento di doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.  Proprio il concetto di solidarietà sociale si è rinvenuto nell’interpretazione costituzionalmente orientata di molte delle disposizioni codicistiche che fanno riferimento alla correttezza e alla buona fede. Anche la citata disposizione sul comportamento in pendenza di condizione, quindi, deve interpretarsi alla luce della nuova concezione della buona fede, ispirata al principio costituzionale di solidarietà sociale.

Alla luce della rilevanza del canone comportamentale della buona fede nella disciplina della condizione, emerge la ratio sottesa alla disciplina della finzione di avveramento della condizione, di cui all’art. 1359 c.c.

La norma citata prevede che la condizione si considera avverata qualora sia mancata per causa imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento di essa. Non è superfluo rilevare che la disposizione è strettamente legata al disposto di cui all’art. 1358 c.c., sull’obbligo di comportarsi secondo buona fede delle parti, nella fase di pendenza della condizione.

Infatti, è certamente considerabile violativo del canone della buona fede il comportamento della parte che agisca in modo da evitare che l’evento dedotto in condizione si verifichi, avendo un interesse contrario all’avveramento della condizione stessa.

La fictio iuris dell’avveramento della condizione rappresenta una sorta di sanzione per la violazione della regola di condotta secondo buona fede di cui all’art. 1358 c.c. Si deve rilevare che questa risposta sanzionatoria dell’ordinamento alla violazione di una regola comportamentale è anomala; infatti, secondo giurisprudenza consolidata, è opportuno operare una distinzione tra regola di validità e regole di comportamento. La violazione della regola di validità ha ripercussioni patologiche sull’atto posto in essere; invece, la violazione di una regola di condotta non travolge l’atto, il quale resta formalmente valido, ma dà luogo all’insorgenza di un’obbligazione risarcitoria in capo al soggetto che l’ha violata. Nel caso di specie, invece, vi è una peculiarità: il soggetto che viola la buona fede comportamentale, facendo in modo che l’evento dedotto in condizione non si verifichi, subirà la finzione giuridica dell’avveramento della condizione, di modo che sarà costretto a sottostare al regolamento contrattuale disposto fin dalla nascita del vincolo giuridico. Potrebbe sostenersi, in via ipotetica, che l’avveramento della condizione rappresenti, in favore del contraente che ha subito il comportamento contrario a buona fede, tenuto dall’altro, una sorta di reintegrazione in forma specifica. Si osserva, peraltro, che ai sensi dell’art. 1360 c.c., che gli effetti dell’avveramento della condizione retroagiscono al momento in cui è stato concluso il contratto, salvo che, per volontà delle parti o per la natura del rapporto, gli effetti del contratto o della risoluzione debbano essere riportati a un momento diverso. Tale disposizione comporta che, anche nella finzione di avveramento della condizione, gli effetti di tale avveramento saranno retroattivi al momento della conclusione del contratto.

Analizzata la disciplina codicistica della finzione di avveramento della condizione, si deve affrontare la problematica rappresentata dalla possibilità che l’evento dedotto in condizione sia l’emanazione di un determinato provvedimento amministrativo.

Per calare tale evenienza nella prassi, è opportuno procedere con l’esemplificazione di un caso concreto. Si pensi all’ipotesi in cui un soggetto venda un terreno alla condizione che sia rilasciato un permesso di costruire dall’amministrazione competente. Tale soggetto alienante dovrà impegnarsi fattivamente affinché la condizione sia realizzata, attivandosi nello svolgimento di tutte le attività necessarie al rilascio del provvedimento. Laddove l’alienante decida di non voler vendere il terreno e, a tal fine, tenga un comportamento volto a far sì che la condizione non si verifichi (ad esempio, non provvedendo a pagare gli oneri necessari al rilascio del permesso, presentando un progetto inadatto, non presentando la documentazione necessaria, etc.), ci si deve chiedere se possa essere esperito il rimedio della finzione di avveramento della condizione.

Nel caso di specie, come in altri casi in cui l’evento dedotto in condizione sia rappresentato dall’emanazione di un provvedimento amministrativo, appare problematica l’attuazione del rimedio di cui all’art. 1359 c.c.; infatti, considerando che al giudice spetterà la cognizione sulla possibilità di attuare il rimedio della finzione di avveramento, emerge l’annosa questione dei poteri dell’organo giurisdizionale nei confronti dei provvedimenti della pubblica amministrazione.

La questione affonda le sue radici nella legge abolitrice del contenzioso amministrativo (l. 2248 del 1865, All. E). Tale legge era stata introdotta con lo scopo di abolire i tribunali che si occupavano del contenzioso amministrativo e di devolvere il medesimo alle stesse autorità amministrative, restando alla giurisdizione ordinaria la giurisdizione sulle cause inerenti diritti civili e politici (diritti soggettivi). Si deve osservare, tra l’altro, che, successivamente all’emanazione della LAC, emerse un notevole problema di vuoto di tutela di tutte quelle situazioni giuridiche non classificabili come diritti soggettivi e che, oggi, definiamo come interessi legittimi; proprio per far fronte a tale problematica, poco tempo dopo, fu istituita la IV sezione del Consiglio di Stato al fine di devolvere alla stessa la giurisdizione sulle situazioni giuridiche non rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario.

L’idea di fondo della LAC era quella di una piena realizzazione del principio di separazione dei poteri: infatti, nell’idea di stato liberale e democratico, dovevano tenersi ben distinti i tre poteri dello Stato, quello legislativo, quello esecutivo e quello giurisdizionale. Il potere della pubblica amministrazione rientra nell’alveo del potere esecutivo e, di conseguenza, non si accettava l’idea che un giudice, che esercita il potere giurisdizionale, potesse sindacare su provvedimenti amministrativi, interferendo nella discrezionalità amministrativa.

In particolare, per ciò che qui rileva, si deve analizzare la disciplina contenuta nell’art. 4 LAC; le disposizioni in esso contenute hanno dato luogo, per lungo tempo, ad una sorta di statuto speciale della pubblica amministrazione, impedendo l’operatività di diversi istituti che avrebbero potuto interferire con il potere della pubblica amministrazione.

In questo senso, si è dubitato della possibilità di applicare la disciplina della finzione di avveramento della condizione, in quanto presupporrebbe che il giudice adito si sostituisse alle valutazioni della pubblica amministrazione nel rilascio di un provvedimento che è espressione della sua discrezionalità.

L’art. 4 LAC, al comma primo, prevede che, laddove cada in contestazione un diritto che si pretenda leso da un atto dell’autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere degli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio. Il secondo comma precisa che l’atto amministrativo non possa essere revocato o modificato se non con ricorso alle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato dei tribunali per quanto riguarda il caso deciso.

La norma esprime chiaramente l’idea che il potere giurisdizionale non possa intervenire sul provvedimento amministrativo, né per annullarlo, né per modificarlo e che si debba limitare a conoscere gli effetti dell’atto.

Se è pur vero che molte delle limitazioni poste dall’art. 4 LAC sono state superate, tuttavia si devono fare delle precisazioni. Infatti, è d’uopo distinguere le ipotesi in cui la pubblica amministrazione agisca nella veste pubblica, da quelle in cui agisca iure privatorum, cioè ponendosi in posizione paritaria con i soggetti privati. In tale ultima ipotesi, non sarà possibile sostenere che la p.a. goda di guarentigie particolari: esemplificativa è la giurisprudenza che ha sostenuto l’applicabilità dell’art. 2932 c.c.; infatti, laddove la pubblica amministrazione, alla stregua di qualsiasi altro privato contraente, obbligatasi alla conclusione del contratto, poi non abbia adempiuto all’obbligazione, dovrà subire le conseguenze di una sentenza costitutiva che produrrà i medesimi effetti del contratto non concluso.

Invece, nel caso in cui l’attività della pubblica amministrazione sia strettamente pubblicistica e manifestazione di un potere autoritativo, non potrà ammettersi che l’intervento del giudice sostituisca tale potere.

Allora, l’ipotesi della condizione che abbia ad oggetto il rilascio di un provvedimento amministrativo preclude la possibilità di applicare la disposizione sulla finzione di avveramento della condizione, in quanto rappresenterebbe una violazione dell’art. 4 LAC e il giudice non potrà considerare avverata la condizione per effetto della fictio iuris di cui all’art. 1359 c.c.

Da ultimo, ci si deve allora interrogare se residuino margini di tutela nei confronti del contraente che abbia subito il comportamento contrario a buona fede dell’altro contraente, in virtù del quale abbia causato la mancata realizzazione dell’evento dedotto in condizione.

Come emerso nel corso della trattazione, il rimedio della finzione di avveramento è anomalo rispetto al generale rimedio che l’ordinamento predispone laddove si deduca la violazione di una norma di comportamento, rappresentato dal risarcimento del danno.

Ciò comporta che, data l’inapplicabilità della disciplina della finzione di avveramento, nell’ipotesi in cui sia dedotto in condizione il rilascio di un provvedimento amministrativo, si riespande il rimedio generale del risarcimento del danno e il contraente che abbia subito il comportamento contrario a buona fede e correttezza non sarà privo di tutela giurisdizionale.

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