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Nesso di causalità e morti da amianto

Nesso di causalità e morti da amianto

 Pubblicato il 5.02.2017 Autore SIMONA COLPO

Nell’ambito del nostro sistema giuridico, ai fini della sussistenza del reato, è necessario che il fatto commesso sia tipico (previsto normativamente), antigiuridico (contrario all’ordinamento), imputabile (riferibile al suo autore) e, sulla base della teoria quadripartita del reato, anche punibile (degno di trattamento sanzionatorio).

Rispetto a tale concezione dell’illecito penale, il nesso causale si iscrive nell’ampia categoria della imputabilità pur distinguendosi dall’elemento psicologico (dolo-colpa). Mentre quest’ultimo esprime il rimprovero che si può muovere ad un determinato soggetto, in termini di rappresentazione, volizione, previsione dell’evento lesivo, la causalità rileva in senso meramente oggettivo, riferendosi al collegamento logico tra comportamento commissivo/omissivo del reo ed evento dannoso o pericoloso. Come si ricava infatti dall’art. 40 cp, una condotta attiva o passiva è penalmente rilevante se il danno o il pericolo, da cui dipende l’esistenza del reato, è conseguenza diretta della medesima.

In sostanza, sotto il profilo causale, affinché si configuri un illecito penale, è necessario accertare che il fatto compiuto sia ricollegabile eziologicamente ad un determinato comportamento, a prescindere da un’indagine sull’atteggiamento psicologico del reo, confinato e attenzionato in sede di colpevolezza. In realtà, come vedremo nel prosieguo, le due categorie della imputazione oggettiva e soggettiva si compenetrano a vicenda, nel senso che una loro contestualizzazione è necessaria per l’inquadramento generale della fattispecie criminosa. Non solo, il nesso causale così come descritto, deve essere arricchito sulla base di una serie di criteri che, come verrà precisato nel corso della trattazione, consentono di arricchire il suo contenuto e di renderlo compatibile con i principi dell’ordinamento giuridico.

Fatta questa premessa, è opportuno precisare che l’analisi della causalità e di tutte le sue declinazioni permette di approfondire il tema oggetto della traccia, ossia le morti provocate nell’ambito lavoristico dall’esposizione ad agenti cancerogeni, quali l’amianto. Più precisamente, l’indagine sul nesso causale si traduce, nell’ipotesi de quo, nell’accertamento del legame intercorrente tra la condotta omissiva dei datori di lavoro/dirigenti/sorveglianti (consistente nella mancata predisposizione di misure idonee alla tutela della vita, integrità fisica e incolumità dei singoli lavoratori) ed il conseguente evento lesivo (decesso dei dipendenti/collaboratori dell’azienda).

La delicata questione coinvolge soprattutto quei soggetti che, impiegati per lungo tempo in processi produttivi ad alto rischio per la sicurezza-salute, hanno sviluppato patologie solo dopo molti anni e addirittura in momenti in cui non svolgevano più alcun tipo di attività professionale.

Per affrontare al meglio l’argomento, occorre volgere uno sguardo al passato e, in particolar modo, agli anni ’60 – ’70 del secolo scorso, periodo in cui il progresso tecnologico, pur avendo apportato grandi novità in materia economica e di sviluppo delle imprese, non era accompagnato da una corrispondente evoluzione medico-scientifica, volta ad individuare ed eliminare situazioni pericolose per la salute e sicurezza degli ambienti lavorativi.

Invero, gli studi condotti sugli effetti dell’esposizione ad elementi quali il cloruro di vinile monomero, erano ancora ad uno stadio primitivo e, al tempo stesso, la ricerca epidemiologica cedeva il passo al desiderio di continua espansione e crescita del mercato.

Solo se si considerano queste coordinate storico-scientifiche si può procedere ad approfondire il discorso della causalità applicata ai danni cd lungo-latenti (sviluppatisi cioè a distanza di tempo rispetto al fattore scatenante).

Innanzitutto, un primo approccio suggerirebbe di calare nel caso concreto uno schema eziologico puro, basato sul noto principio della conditio sine qua non: un evento si considera diretta conseguenza di un’azione, se eliminando mentalmente quella condotta, il primo non ha alcuna possibilità di realizzarsi. Peraltro, tale assioma troverebbe applicazione anche sotto il profilo omissivo nel senso che, in virtù della clausola di equivalenza ex art. 40 comma 2 cp, una lesione è automatica conseguenza di un comportamento omissivo se, immaginando azionata la condotta doverosa, non si sarebbe verificato alcun danno.

Applicando questo assioma all’ipotesi lavoristica, la mancata predisposizione di tecniche di tutela a protezione delle persone fisiche presenti in azienda, rappresenterebbe automaticamente il fattore causale dell’evento morboso.

E’ facile intuire come il ragionamento anzidetto debba essere scartato alla luce di evidenti ragioni pratiche. In primis, il sillogismo (così come teorizzato) sarebbe suscettibile di impiego indefinito nel tempo, fino ad individuare un fattore causale addirittura nel concepimento di quei soggetti che, in un futuro prossimo, avrebbero posto in essere comportamenti di siffatta natura. In secondo luogo, non tiene conto dell’eventuale sussistenza di concause che siano state da sole sufficienti a determinare l’evento e che, pertanto, costituirebbero una frattura nell’ambito del collegamento eziologico (art. 41 comma 2 cp). Si pensi, per esempio, al caso in cui analisi cliniche dimostrino che la morte del lavoratore sia legata esclusivamente alla sua dipendenza dal fumo.

La rilevanza delle concause è alla base di quella teoria che, criticando il postulato condizionalistico, richiede, ai fini dell’accertamento della causalità, l’idoneità di un determinato comportamento commissivo od omissivo a provocare una certa lesione. In altre parole, non basta il riferimento a qualsivoglia antecedente naturalistico ma è necessario individuare, tra diversi fattori pregressi, quello concretamente adatto a spiegare il decorso causale.

Abbandonato dunque il rigore del giudizio controfattuale puro (che attiene al profilo esterno della causalità), è opportuno spostare l’attenzione dalla forma al contenuto del nesso eziologico. A tal proposito, la sentenza Franzese (Sezioni Unite 2002) ci insegna che il rapporto causa-effetto deve essere oggetto di leggi scientifiche o probabilistiche di copertura nel senso che, un evento può considerarsi conseguenza di una data azione/omissione se esiste un’indagine scientifica o un’osservazione empirica che spiega quel fenomeno. Non solo, una volta individuato un laboratorio di ricerca, occorre altresì escludere, oltre ogni ragionevole dubbio, che quel risultato possa dipendere da fattori diversi da quelli individuati mediante il metodo sperimentale.

La Cassazione, a tal proposito, utilizza il concetto di “probabilità logica” o “credibilità razionale”, auspicando il raggiungimento di una corrispondenza tra proiezione e realtà pari al 100%.

Tuttavia, applicando le coordinate della Suprema Corte al caso delle morti da amianto, una parte della giurisprudenza è giunta ad un risultato acerbo, quanto meno sul versante della tutela dei soggetti lesi.

Invero, se l’insegnamento pretorio è utile soprattutto in epoca moderna dove il progresso tecnologico è penetrato ormai nell’ambito delle tecniche di gestione del rischio e permette di selezionare con un elevato grado di certezza i fattori scatenanti pericoli per l’integrità e la salute, non può dirsi altrettanto in relazione al bagaglio culturale del secolo scorso. Come anticipato in premessa, le conoscenze scientifiche di oggi non possono in alcun modo paragonarsi al patrimonio intellettivo del dopoguerra. Ciò che attualmente sarebbe considerato fuor di dubbio non solo pericoloso ma anche nocivo (alla luce delle sperimentazioni degli ultimi decenni) in passato poteva non essere nemmeno considerato rischioso. Non a caso, il recente smantellamento dell’eternit ne è un esempio lampante.

Dunque, coloro che accolgono l’impianto della sentenza Franzese, giungono a ritenere esclusa la rilevanza penale del fatto, senza tener conto tuttavia del conseguente pregiudizio arrecato alle vittime. Secondo tale logica, la mancata programmazione di tutele per i lavoratori, potrebbe giustificarsi in ragione dell’assenza di un patrimonio conoscitivo completo in grado di prevedere, oltre ogni ragionevole dubbio, quali conseguenze avrebbe portato l’esposizione a sostanze quali il cloruro di vinile monomero.

Questa conclusione, se spinta agli estremi, condurrebbe a paradossali vuoti di tutela e ad una concezione del nostro sistema giuridico come mero simulacro di norme e principi.

In considerazione di ciò, un indirizzo giurisprudenziale più aderente ai canoni costituzionali e alle garanzie predisposte dall’ordinamento, ricostruisce il problema scomodando un particolare canone ermeneutico.

Si tratta del principio di precauzione le cui origini internazionali e comunitarie sono consacrate, in particolare, nell’art. 191 TFUE, norma dettata per fissare gli obiettivi della politica UE in materia ambientale. In particolare, il comma 2, nello stabilire che “l’Unione Europea è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva” ci consegna due nozioni ben diverse in punto di tutela. Mentre prevenire un determinato fatto significa utilizzare tutte le conoscenze esistenti per prevedere e quindi evitare un possibile danno (prevenzione in quanto previsione), la precauzione deve essere intesa come tecnica di gestione di un rischio, in condizioni di assoluta ignoranza circa il possibile decorso causale di un dato evento. In sostanza, tale principio verrebbe in rilievo ogniqualvolta non si abbia a disposizione alcun dato certo né probabile sull’eventuale pericolosità di un determinato fattore ma, nonostante ciò, sia comunque necessario mettere in atto procedure in grado di far fronte ad un eventuale rischio. La precauzione cioè si traduce nella cosiddetta clausola maximin, secondo cui ogni scelta, da effettuarsi in condizioni di incertezza, va valutata in base alla peggiore delle sue conseguenze possibili.

Tale principio, pur non trovando piena cittadinanza nel nostro ordinamento, ha mosso i primi passi soprattutto nell’ambito della legislazione speciale. Si pensi, a titolo esemplificativo, all’art. 107 Codice del Consumo il quale, in materia di controlli sulla sicurezza dei prodotti, stabilisce che le pubbliche amministrazioni agiscono adottando misure di controllo e di verifica, sulla base del principio di precauzione (pur non dandone un’adeguata definizione).

In realtà, già la legge istitutiva del Ministero dell’ambiente (L. 349/1986) faceva implicito riferimento al canone suddetto all’interno dell’art. 15, in tema di sanzioni per danno ambientale. La norma prevedeva infatti una sanzione per chi generasse “campi elettromagnetici e magnetici superando i limiti di esposizione ed i valori di attenzione di cui ai decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri”. Con il concetto di “attenzione” il legislatore, già all’epoca, aveva intuito, forse inconsapevolmente, la necessità di predisporre strumenti di controllo già in una fase pregressa, rispetto alla nascita di un rischio ossia già in un momento in cui il bagaglio culturale non permetteva di comprendere la pericolosità o meno di un determinato “impianto”, di una certa “sostanza”..etc”.

Ancora, la normativa complementare che, più di tutte, è permeata dal paradigma precauzionale è sicuramente la L. 626/1994 poi trasfusa nel D.lgs 81/2008 (tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro). Qui, i concetti di valutazione dei rischi, protezione dai medesimi, gestione e predisposizione di misure tese alla sicurezza-salute dei dipendenti, enfatizzano l’esistenza di una logica di tipo prudenziale-precauzionale, sottesa a qualsiasi scelta organizzativa.

Ora, tornando al problema centrale della traccia, occorre indagare in che modo il principio di precauzione possa incidere sul nesso di causalità e rendere quindi punibili le condotte di quei soggetti che, esponendo i propri lavoratori a sostanze cancerogene hanno provocato gravi danni alla salute.

Secondo un autorevole indirizzo che, come vedremo, tende a rovesciare il postulato della probabilità logica, il collegamento eziologico tra esposizione all’amianto e insorgenza della malattia esiste, in quanto può essere escluso solo nel caso in cui gli esiti delle ricerche (inizialmente incerti), neghino scientificamente il rischio dell’evento.

In tal modo, però, si regredisce ad una fase di mero sospetto la cui rilevanza penale si giustifica alla luce di quell’incertezza medico-scientifica che non può eliminare il rischio, oltre ogni ragionevole dubbio. Dunque, il contenuto della sentenza Franzese viene in qualche modo superato e rovesciato in punto di credibilità razionale. Non è più il dato scientifico/statistico a dover essere ancorato al paradigma dell’oltre ogni ragionevole dubbio, ma è l’incompletezza delle conoscenze che prevale sempre, fintanto che gli studi e le analisi neghino con assoluta certezza il legame tra patologia e esposizione tossica.

V’è di più. L’orientamento anzidetto giunge a tali conclusioni valorizzando anche il profilo soggettivo delle condotte imprenditoriali. Secondo l’impostazione de quo, infatti, non è soltanto il nesso di causalità ad essere permeato dal principio precauzionale ma anche l’elemento psicologico della colpa, così che causalità e colpevolezza vengono a fondersi in un tutt’uno.

In pratica, i sostenitori di questa teoria partono da una premessa fondamentale, ossia dal fatto che, già all’epoca, si conoscevano gli effetti lesivi severi (seppur non gravissimi) del contatto con l’amianto.

Invero, la ricerca medica aveva individuato, in quegli anni, una malattia che colpiva le ossa (acrosteolisi) provocata proprio dall’esposizione al cloruro di vinile monomento. Pur non trattandosi di una patologia tumorale, la relativa scoperta doveva rappresentare un lampadina di allarme, in quanto la prevedibilità di un generico evento dannoso per la salute, sarebbe sufficiente a comprendere anche un’eventuale conseguenza lesiva di maggior gravità.

La colpevolezza viene dunque in rilievo tutte le volte in cui, in quella data situazione, non si tiene conto delle conoscenze già acquisite che devono spingere ad adottare strumenti di tutela più ampi per prevenire rischi ancora più gravi di quelli manifestatisi. Si giunge, perciò, ad affermare che, una volta resi noti gli effetti anche lievi del contatto con una data sostanza, occorre mettere in atto tutte quelle misure cautelative e precauzionali che eliminino l’insorgenza di qualsiasi patologia. Ciò, in quanto l’incompletezza delle conoscenze medico-scientifiche non può escludere che, in futuro, il progresso tecnologico arrivi a dimostrare un rapporto causa-effetto in materia di salute e sicurezza nell’ambito lavorativo.

Tale ricostruzione ha certamente il pregio di valorizzare il versante della tutela delle vittime da amianto, ma al tempo stesso, se interpretato in maniera rigorosa, potrebbe condurre a svuotare di significato alcuni dogmi costituzionali, quali il principio di determinatezza e di legalità e anche lo stesso principio di responsabilità personale. Non si vede come un datore di lavoro condannato per i fatti esposti, possa percepire come giusta (ex art 27 Cost) una pena inflitta per aver esposto i suoi dipendenti ad una sostanza, di cui all’epoca si conoscevano solo effetti marginali.

 

 

 

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