GIUDICATO A FORMAZIONE PROGRESSIVA E GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA

GIUDICATO A FORMAZIONE PROGRESSIVA E GIUDIZIO DI OTTEMPERANZA

Pubblicato il 5.04.2017

Autore ELOISE CUCIT

L’art. 112 c.p.a. pone quale principio generale quello per cui i provvedimenti del giudice amministrativo devono essere eseguiti spontaneamente dalla P.A. e dalle altre parti del giudizio. Questo significa che l’attività con cui si dà esecuzione a una sentenza è un’attività doverosa, a prescindere dal fatto che quella sentenza sia una sentenza immutabile, cioè non più soggetta a gravame, e anche dal fatto che la parte abbia appellato la sentenza, in quanto una sentenza del giudice amministrativo è esecutiva anche quando è di primo grado. Pertanto, può essere impugnata dalla P.A. soccombente, ma questo non la esime dal darle esecuzione.

Tuttavia, quando non vi è adempimento spontaneo a quanto stabilito in sede giurisdizionale, la parte vittoriosa può instaurare un nuovo giudizio per ottenere l’esecuzione della sentenza non eseguita, da parte della P.A., il c.d. giudizio di ottemperanza.

Il codice del processo amministrativo (d.lgs. n. 104/2010) ha introdotto una disciplina che ha fortemente innovato le norme precedenti in tema di esecuzione, le ha rese organiche e riorganizzate in termini procedurali, informandole al principio del giusto processo.

In passato, infatti, la disciplina era molto disorganica e frammentaria, in quanto contenuta, in parte, nel T.U. sul Consiglio di Stato (R.D. n. 1054/1924) e, in parte, nella legge istitutiva dei TAR (l. n. 1034/1971).

Il giudizio di ottemperanza è attualmente disciplinato dagli artt. 112 e ss. c.p.a.

È più corretto parlare di “ottemperanza”, piuttosto che di “esecuzione della sentenza amministrativa”, in quanto l’azione di esecuzione nel processo civile è un’azione con cui si mira a far ottenere alla parte esattamente ciò che la sentenza gli ha riconosciuto, mentre il giudizio di ottemperanza fa ottenere alla parte più di quello che la sentenza le ha garantito, perché questo giudizio (a differenza della sentenza che ne è oggetto, resa in sede di legittimità) rientra nella giurisdizione di merito del giudice amministrativo e può superare il limite della discrezionalità amministrativa.

In generale, i tre presupposti dell’azione di ottemperanza sono la sussistenza di un giudicato o di un provvedimento esecutivo, la necessità di un’attività materiale o giuridica della P.A. successiva alla pronuncia, e l’inadempimento del provvedimento giudiziale da parte della P.A. Con il codice, la diffida a provvedere non è più ritenuta presupposto necessario.

Per quanto riguarda l’ambito oggettivo di applicazione del giudizio di cui si tratta, il codice ha introdotto un’azione unica per le sentenze definitive e non definitive del giudice amministrativo. Prima, infatti, si poneva il problema per cui le sentenze passate in giudicato, non più suscettibili di gravame, erano assistite dall’azione di ottemperanza, mentre, le sentenze amministrative di primo grado, comunque considerate esecutive per legge, non erano assistite da alcun rimedio per la loro ottemperanza. Nonostante vi fosse un dovere di eseguire, se la P.A. non eseguiva, il privato non aveva alcuno strumento corrispondente di tutela. Il problema era stato in parte superato dalla l. n. 205/2000, che aveva introdotto un’azione apposita per le sentenze di primo grado, la c.d. azione di esecuzione.

Con il codice, quindi, i titoli esecutivi che possono aprire il giudizio di ottemperanza, ai sensi dell’art. 112, co. 2 c.p.a., sono le sentenze del giudice amministrativo passate in giudicato; le sentenze esecutive e gli altri provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo, non sospese dal Consiglio di Stato; le sentenze passate in giudicato e gli altri provvedimenti a esse equiparati del giudice ordinario; le sentenze passate in giudicato dei giudici speciali, che non abbiano espressamente previsto un giudizio di ottemperanza all’interno delle loro norme procedurali; e i lodi arbitrali esecutivi divenuti inoppugnabili. Si possono avere provvedimenti esecutivi del giudice amministrativo, che sono non solo le sentenze di primo grado, ma anche le ordinanze cautelari ex art. 59 c.p.a., per i quali, nonostante non siano definitivi, la loro mancata esecuzione può far scattare il giudizio di ottemperanza. Con questa configurazione del giudizio di cui si tratta, si può avere un grado di definizione della controversia abbastanza immaturo e, allo stesso tempo, una tutela esecutiva molto forte. Tuttavia, il fatto che la sentenza sia immutabile o non immutabile condiziona il modo in cui il giudice esercita i poteri dell’ottemperanza. Inoltre, in questi casi, gli atti adottati sulla base dell’esecuzione della sentenza, che siano in contrasto con la stessa sono sanzionati con l’inefficacia (art. 114, co. 4, lett. c) c.p.a.). Questo perché il giudice deve esercitare i suoi poteri tenendo conto degli assetti e degli interessi meritevoli di tutela.

Per quanto riguarda i provvedimenti del giudice ordinario, il passaggio in giudicato rimane assolutamente necessario. La sentenza del giudice ordinario di primo grado, anche se esecutiva, non può essere portata a esecuzione con il giudizio di ottemperanza, perché è richiesta la definitività della pronuncia. Il codice ha, inoltre, esteso ai lodi arbitrali la possibilità della tutela esecutiva, visto che prima del 2010, in quanto espressione di un potere non giurisdizionale, questi non erano assistiti da tale giudizio, perché di natura giustiziale. Inoltre, per quanto attiene i provvedimenti del giudice ordinario, dei giudizi speciali, e i lodi arbitrali, condizione di procedibilità del ricorso è che la P.A. o un soggetto a essa equiparato sia stato parte del giudizio. Infine, per effetto delle decisioni delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e del Consiglio di Stato, anche il decreto con cui il Consiglio di Stato decide il ricorso straordinario al Capo dello Stato è assistito dal giudizio di ottemperanza. Esso, nella versione originaria del codice, non era contemplato tra i titoli esecutivi che davano la possibilità di tale giudizio. Con il primo correttivo al codice (d.lgs. n. 195/2011) è stato inserito di diritto tra le decisioni assistite dal giudizio, prevalentemente in ragione della sua alternatività, rispetto alla via giurisdizionale. Questo perché il ricorso straordinario al Capo dello Stato ha subìto un processo di giurisdizionalizzazione, per il quale, ormai, sostanzialmente è un rimedio giurisdizionale, anche se formalmente non lo è, perché il decreto che lo chiude è un atto amministrativo.

Per quanto riguarda la competenza, questa è di tipo funzionale inderogabile (art. 14, co. 3 c.p.a.). Quindi, nel caso in cui la sentenza di ottemperanza è una sentenza del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 113, co. 1 c.p.a., la competenza sull’esecuzione segue la competenza sulla cognizione. Il giudice che è chiamato a garantire l’esecuzione della sentenza è lo stesso giudice (TAR o Consiglio di Stato) che l’ha prodotta, perché, in base al principio di efficienza, nella misura in cui ha avuto la cognizione della causa, è il miglior giudice per indicare quali sono le conseguenze di quella decisione. Con riferimento alla sentenza di secondo grado, resa in appello dal Consiglio di Stato, varrà la regola dell’esecuzione dinanzi al Consiglio di Stato, solo se questo ha riformulato la sentenza, perché in questo caso è il giudice della cognizione, nel senso che stabilisce la definizione della lite. Invece, se il Consiglio di Stato rigetta l’appello, confermando la sentenza di primo grado, benché la sentenza che definisce il giudizio sia del Consiglio di Stato, chi ha deciso effettivamente quella controversia è il TAR e, quindi, la vicenda esecutiva avrà come giudice di riferimento il TAR che ha deciso solo se, però, le motivazioni della sentenza sono identiche. Se il Consiglio di Stato, invece, rigetta l’appello, ma per ragioni diverse da quelle che sono state poste alla base della decisione del TAR, non essendoci coincidenza delle motivazioni è comunque competente il Consiglio di Stato, benché l’esito finale sia lo stesso che aveva concluso il primo grado. La ratio di questa disposizione è quella per cui è il giudice, che stabilisce non solo il dispositivo della sentenza, cioè la pronuncia formale, ma anche le ragioni che sono alla base di quella decisione, che dovrà poi curarne l’esecuzione. Si ha, pertanto, identità tra giudice della cognizione e giudice dell’esecuzione.

Il criterio della competenza, però, ha subìto una modifica per opera del codice rispetto al regime della disciplina previgente, per i casi in cui la sentenza da ottemperare sia una sentenza di un giudice ordinario o di un giudice speciale. L’art. 113, co. 2 c.p.a. prevede che, in questi casi, è competente il giudice amministrativo della circoscrizione in cui ha sede il giudice ordinario o speciale che ha adottato la pronuncia. La disciplina previgente, invece, utilizzava il criterio per cui era competente il giudice amministrativo della circoscrizione in cui operava la P.A. che doveva ottemperare. Si faceva, dunque, riferimento al provvedimento adottato dall’organo chiamato a ottemperare. Questo criterio aveva prodotto una forte concentrazione di ricorsi innanzi al TAR Lazio, con riferimento all’Amministrazione statale. E, quindi, si è optato per un diverso criterio che richiama la sede del giudice, ordinario o speciale, che ha adottalo la pronuncia.

Anche il procedimento è stato significativamente modificato dal codice, per quanto, in realtà, la gran parte delle regole erano già state formulate dalla giurisprudenza. Il codice ha per lo più registrato i necessari cambiamenti a cui le norme procedurali erano state sottoposte per effetto dell’opera dei giudici.

L’art. 114 c.p.a. ha previsto la notifica del ricorso, con allegata la copia autentica del provvedimento e l’eventuale prova del suo passaggio in giudicato, anche ai controinteressati, oltre che alla P.A., sottoponendo il ricorso alle medesime regole del giudizio di cognizione. Il termine per proporre il giudizio è quello di prescrizione ordinario decennale dal passaggio in giudicato della sentenza. È, infine, previsto un rito camerale, ai sensi dell’art. 87, co. 2, lett. d) c.p.a., da concludersi con ordinanza (se è chiesta l’esecuzione di un’ordinanza) o con sentenza in forma semplificata, in virtù di un contenuto di cognizione anche se limitato.

L’art. 114, co. 4 c.p.a. disciplina, poi, i poteri decisori del giudice, da esercitarsi in garanzia dell’esecuzione della sentenza, che sono estremamente ampi e diversi dai poteri che il giudice ha nella giurisdizione di legittimità e nel processo di cognizione, essendo questa, infatti, una giurisdizione estesa al merito. Egli può disporre di una serie di strumenti, che modula a seconda delle singole vicende esecutive. Innanzitutto, può ordinare l’ottemperanza, prescrivendo le relative modalità, anche mediante la determinazione del contenuto del provvedimento, o l’emanazione dello stesso in luogo della P.A. (art. 114, co. 4, lett. a) c.p.a.). Qui il giudice non conosce più la barriera tipica rappresentata dalla riserva alla P.A. dell’esercizio del potere discrezionale, che viene meno. Si tratta di un potere pieno di sostituirsi alla P.A., da parte del giudice stesso o da parte del commissario all’uopo nominato, anche nell’esercizio del potere discrezionale. Infatti, il giudice può provvedere egli stesso all’adozione del provvedimento. Tuttavia, nella prassi, la via che il giudice amministrativo presceglie è quella della nomina del commissario ad acta, che nel codice viene individuato come suo ausiliario (art. 21 c.p.a.). Infine, sussistono due ulteriori poteri decisori che il giudice può esercitare, da un lato, l’accertamento della nullità degli atti emanati in violazione o elusione del giudicato (art. 114, co. 4, lett. b) c.p.a.), e, dall’altro, il potere di disporre delle penalità di mora, c.d. astreintes, salvo che ciò sia manifestamente iniquo e non sussistano altre ragioni ostative (art. 114, co. 4, lett. e) c.p.a.).

Nella l. n. 241/1990 si stabiliva che una delle cause di nullità degli atti amministrativi era l’ipotesi di violazione o elusione del giudicato, in cui la cognizione spettava al giudice amministrativo. Oggi, questa previsione è confluita nel codice, in cui si prevede che la sentenza del giudice dell’ottemperanza può avere un contenuto di accertamento della nullità degli atti.

Il giudizio in esame, inoltre, è ritenuto sede idonea per un’azione risarcitoria della parte che miri a ottenere il risarcimento dei danni dovuti al ritardo nell’esercizio o nell’inesecuzione della sentenza. La parte che lamenta tale inottemperanza può, nella stessa sede in cui chiede l’esecuzione della sentenza, chiedere anche il risarcimento dei danni, con il mantenimento del rito camerale, perché l’accertamento del danno non comporta sul piano probatorio adempimenti tali da giustificare la conversione in rito ordinario.

Infine, l’art. 112, co. 5 c.p.a. stabilisce, per la prima volta, che il ricorso al giudice dell’ottemperanza può essere proposto anche per ottenere chiarimenti in ordine alle modalità di ottemperanza, che possono essere chiesti sia dalla P.A., sia dal commissario ad acta, il quale, una volta nominato, non sappia come operare.

In passato, si era posto il problema della natura giuridica del giudizio di ottemperanza.

Secondo un orientamento minoritario, il giudizio di ottemperanza avrebbe natura meramente esecutiva. In tale giudizio il giudice avrebbe anche il potere di sostituirsi alla P.A., direttamente, o più frequentemente attraverso il commissario ad acta, nel caso in cui quest’ultima rimanga comunque inerte.

Per un secondo orientamento, il giudizio di ottemperanza avrebbe natura meramente cognitiva e il giudice non avrebbe alcun potere sostitutivo, dato che si concluderebbe con una sentenza determinativa del comportamento che la P.A. dovrebbe tenere.

Secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, invece, il giudizio di ottemperanza avrebbe natura mista, di cognizione e di esecuzione. In questo giudizio sussisterebbe, quindi, una fase di cognizione, in cui il giudice ha poteri accertativi, e una successiva fase esecutiva, in cui il giudice dà concreta esecuzione alla sentenza.

Sul punto è intervenuta l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato nel 2013 affermando la polisemicità del giudizio e dell’azione di ottemperanza, nel senso che al suo interno sono configurabili sia azioni meramente esecutive sia azioni cognitive.

In questo contesto nasce la tesi del giudicato a formazione progressiva, per la quale il giudizio di ottemperanza è una continuazione del giudizio di cognizione. Secondo questa teoria, si ha una formazione progressiva del giudicato amministrativo originario, che viene arricchito, integrato e specificato, con statuizioni attuative e non meramente esecutive. Si tratta di un concetto di giudicato che si distingue dal giudicato civilistico di cui all’art. 324 c.p.c.

Questa tesi è ormai tradizionalmente accolta dalla giurisprudenza amministrativa e dalla stessa Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

Tuttavia, a seguito dell’adozione del codice del processo amministrativo, questa impostazione è stata messa in dubbio dalla Quinta Sezione del Consiglio di Stato, che, non condividendola, ha rimesso la questione sull’attualità del giudicato a formazione progressiva all’Adunanza Plenaria. Ci si è chiesti se con l’introduzione di nuove azioni processuali, e il conseguente passaggio da un giudizio sull’atto a un giudizio sul rapporto, ha ancora senso fare riferimento a un giudicato di tipo elastico, che in sede di ottemperanza può essere completato e integrato. La Sezione rimettente ha posto, inoltre, la questione dell’ampiezza del giudicato in relazione allo ius superveniens, che nel caso di specie era una sentenza della Corte di Giustizia.

Secondo la tesi del giudicato a formazione progressiva, il giudicato non è intangibile e, di conseguenza, può essere superato dallo ius superveniens di matrice comunitaria, anche oltre lo sbarramento della notifica della sentenza da ottemperare, fissato dalla giurisprudenza prevalente per le sopravvenienze di fatto e di diritto. Pertanto, solitamente, dopo la notifica, le sopravvenienze non sono rilevanti, ma in virtù del principio della primazia del diritto comunitario, si può superare tale limite e influire sul giudicato già intervenuto, in modo da renderlo comunitariamente compatibile.

La tesi sostenuta dalla Sezione rimettente, invece, è che la figura del giudicato a formazione progressiva è stata elaborata dalla giurisprudenza per sopperire alle mancanze del processo amministrativo ante riforma, che era incentrato sulla mera azione di annullamento, e configurato come giudizio sull’atto, di tipo impugnatorio-caducatorio. Di conseguenza, in un nuovo contesto, nel quale il giudice di cognizione ha a disposizione diversi strumenti, come i motivi aggiunti, la tutela cautelare ante causam, la possibilità di sostituirsi alla P.A. per emettere il provvedimento richiesto (azione di esatto adempimento), o di nominare un commissario ad acta già nella fase di merito, e non vi è un’espressa previsione normativa che fondi tale tipo di giudicato, non si trova più una valida giustificazione per il giudicato a formazione progressiva. Si deve perciò fare riferimento a un giudicato di tipo civilistico, che si forma e si completa nel giudizio di cognizione, configurando così il giudizio di ottemperanza come meramente esecutivo. In questo modo il giudice non avrebbe più alcun potere di integrazione del giudicato, ma dovrebbe solo garantirne l’esecuzione.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato si è espressa nel 2016, con una sentenza che ha ribaltato l’ordine delle questioni sottopostale, valutando primariamente la questione relativa all’ampiezza del giudicato e all’incidenza sullo stesso dello ius superveniens. La questione del giudicato a formazione progressiva, ritenuta logicamente consequenziale, non è stata trattata specificatamente, ma è stato comunque ribadito come tale configurazione del giudicato amministrativo è a oggi ancora accettata e condivisa, sempre nei limiti giurisdizionali imposti dalla legge. Secondo l’Adunanza Plenaria, le sopravvenienze, di fatto e di diritto, possono influire sul giudicato ma solo se antecedenti alla notifica della sentenza da eseguire. Tuttavia, lo ius superveniens può comunque incidere sul giudicato, in modo tale che quest’ultimo non si ponga in contrasto con il diritto europeo, altrimenti si configurerebbe una decisione abnorme ricorribile in Cassazione ex art. 111, ult. co., Cost.

In conclusione, il giudicato amministrativo sarà sempre un giudicato più flessibile rispetto a quello civilistico, proprio in virtù della configurazione del processo amministrativo. Tale giudicato, infatti, secondo anche l’ultima sentenza dell’Adunanza Plenaria, in sede di ottemperanza può essere arricchito e integrato di contenuto, per sopperire a eventuali lacune derivanti dal processo da cui origina, rispondendo così alla sua finalità di adeguare il caso concreto a un preciso giudicato. La formazione del giudicato continua, quindi, anche dopo il giudizio principale, completandosi nella fase successiva dell’ottemperanza, per quanto non stabilito dal giudice di cognizione. Inoltre, in questo modo si può ammettere la rilevanza delle sopravvenienze su un giudicato che non è intangibile. È per questo che si tratta di “ottemperanza” e non di mera esecuzione.

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