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Tema svolto – Concorso per la carriera prefettizia

I criteri di risoluzione delle antinomie: abrogazione, annullamento e disapplicazione di norme giuridiche, anche con riferimento al rapporto tra norme interne e norme comunitarie nel sistema delle fonti del diritto.

L’interpretazione delle disposizioni è un’attività articolata e complessa, che è posta in essere dai giuristi, ogni volta che si debba individuare la norma da applicare a un caso concreto, nel quale emerga la necessità di tutela di una posizione giuridica soggettiva, oppure occorra determinare la sanzione da applicare. È evidente, dunque, che la tematica dell’interpretazione è comune alle diposizioni di diritto civile, penale e amministrativo e costituisce una questione trasversale e preliminare, giacchè investe ambiti propri della teoria generale del diritto, ed ha ricadute rilevanti in ordine alla responsabilità dei magistrati, gli interpeti del diritto per eccellenza. Lo studio degli ordinamenti in chiave di sistema comporta la constatazione che la completezza e la non contraddizione (principio proprio della logica formale) del sistema stesso, costituiscono solo un mito giuridico, smentito puntualmente dal legislatore stesso nel momento in cui, all’art. 12, co. 2 Preleggi, prevede tra i criteri di interpretazione l’analogia legis e l’analogia iuris. È chiaro infatti che le lacune sono cosa diversa dalle antinomie, ma entrambi i fenomeni sono indicativi di un’imperfezione del sistema. Se dunque l’attività del legislatore si stratifica nel tempo e, addirittura, è possibile che uno stesso ordinamento sia arricchito da una pluralità di fonti di produzione e sulla produzione, di origine nazionale, locale e regionale, nonché internazionale e comunitaria, è necessario coordinare questo magna di disposizioni in modo coerente, anche per consentire ai destinatari delle norme di orientare il loro comportamento in modo conforme ad esse. Dunque l’interprete, nel momento in cui deve attribuire il significato alla disposizione che costituisce la legge di copertura del caso concreto, sottoposto alla sua attenzione, traendone la norma, deve anche verificare che non esistano altre disposizioni applicabili, secondo i diversi ordinamenti interferenti in quella fattispecie e, nel caso in cui individui più disposizioni pertinenti, è chiamato ad accertare e risolvere eventuali conflitti. Tali conflitti sono le antinomie. Il termine, che letteralmente indica ciò che è contrario alla norma, si riferisce a un contrasto tra proposizioni, ugualmente applicabili, almeno in astratto. Per poter risolvere tale concorso tra norme, talora solo apparente,  l’interprete ha un vasto strumentario, che comprende le regole proprie delle fonti del diritto e si fonda essenzialmente sul criterio gerarchico, temporale e di specialità. Talune di queste regole però sono soprattutto il frutto di una costruzione della dottrina, e difficilmente si fondano su dati normativi generali e univoci. Cercando di comprendere meglio che cosa siano le antinomie, prima di chiedersi come si possano risolvere, si deve evidenziare che si parla propriamente di antinomia quando una medesima fattispecie è disciplinata da norme che prevedono per essa conseguenze incompatibili. Sembrerebbe allora che sulla fattispecie concreta l’interprete non possa decidere, giacchè quello che a prima vista si presenta come un problema di interpretazione del diritto, costituisce invero un problema di produzione e comunque di costruzione dell’ordinamento. Tuttavia, in virtù del principio di non liquet , non è possibile per il giudice denegare giustizia quindi, anche davanti all’incoerenza delle norme, l’interprete deve garantire la certezza del diritto, se non vuole incorrere non solo in un fallimento del sistema, ma anche in un’ipotesi di responsabilità disciplinare. Dunque l’interpretazione diventa la via per risolvere le antinomie, anche se contemporaneamente le fa emergere. Il primo principio di risoluzione che può trovare applicazione è quello cronologico. Tale principio ha il suo referente nell’art. 15 Preleggi, secondo cui “ le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove e le precedenti o perché la nuova legge regola l’intera materia”. Esiste poi un principio gerarchico, che non ha una disposizione che lo espliciti, ma che risulta immanente dall’architettura dell’ordinamento, e si può comunque ricostruire, partendo dall’art. 134 Cost , secondo cui “la Corte Costituzionale giudica sulle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni”, e dagli artt. 1, 4 e 8 delle Preleggi, che delineavano il sistema delle fonti, prima dell’emanazione della Costituzione . Un altro principio di risoluzione delle controversie è quello di specialità, che nasce da una costruzione giuridica, anche se nell’art. 14 delle Preleggi se ne può individuare un frammento, ove si dispone che “ le leggi penali e quelle che fanno eccezione a regole generali o ad altre leggi non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati”. Il principio cronologico, secondo cui lex posterior derogat legi priori , si applica  se le norme configgenti sono poste da fonti equiordinate e congeneri, quindi dello stesso tipo. Questo principio si spiega con una visione dinamica dell’ordinamento giuridico, in cui in particolare la funzione legislativa, ex art. 70 Cost, è esercitata collettivamente dalle Camere, e  il suo esercizio diviene espressione della volontà popolare, dal momento che l’elezione dell’organo legislativo si fonda sul suffragio universale diretto. La volontà popolare può mutare rispetto agli interessi che intendono perseguire o tutelare tramite la legge. Del resto a favore della dinamicità dell’ordinamento milita anche una caratteristica propria della legge : l’innovatività. La prevalenza della nuova norma sulla vecchia si esplica come effetto abrogativo : la norma più recente abroga quella più risalente, anche perché attesta un mutamento della volontà del legislatore.  L’abrogazione consiste nella cessazione degli effetti giuridici della norma più risalente, secondo una successione di norme nel tempo. Esistono diverse forme di abrogazione, unificate dall’effetto che producono. Tali forme, identificate dall’art. 15 Preleggi, sono l’abrogazione espressa, “per dichiarazione espressa”, l’abrogazione tacita, “per incompatibilità” e l’abrogazione implicita, “perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore”. In realtà l’abrogazione espressa è un caso in cui non sussistono antinomie, perché il legislatore ha espressamente previsto l’effetto abrogativo in una disposizione nuova. Invece l’abrogazione tacita o implicita presuppongono un’attività di interpretazione. L’abrogazione tacita, o per incompatibilità, nasce da un principio proprio di una democrazia rappresentativa, come la nostra, per cui un legislatore non può vincolare la volontà dei futuri  legislatori. Tuttavia l’interprete non ha il potere di eliminare la disposizione precedente, ma può solo dichiararla abrogata. Se invece il legislatore ha riformato l’intera materia, si ha abrogazione implicita, ma l’interprete è chiamato ad accertare se anche solo parzialmente le disposizioni preesistenti sia tutt’ora vigenti. L’operazione è complessa e tipicamente di interpretazione. Dunque l’abrogazione è un fenomeno fisiologico dell’ordinamento e l’effetto abrogativo si produce ex nunc e inter partes, salvo nel caso in cui l’abrogazione sia espressa. Il principio gerarchico dispone che lex superior derogat legi inferiori, quindi secondo la gerarchia delle fonti prevale la norma sovraordinata.  L’effetto giuridico che si produce con l’applicazione del principio gerarchico è l’annullamento. Tale effetto giuridico si dice di tipo costitutivo, secondo la teoria processual-civilistica dell’azione, e richiede una pronuncia del giudice con la quale si accerta l’illegittimità di un atto o di una disposizione e di conseguenza l’atto o la disposizione perdono validità. La validità è la conformità dell’atto o della disposizione con la norma di riconoscimento, ovverosia con la norma che disciplina gli elementi strutturali dell’atto o gli elementi costitutivi e presupposti di una determinata disposizione. Invero un atto annullato è un atto invalido, in quanto viziato e il vizio è di legittimità. Il vizio di legittimità può essere di tipo formale, e riguarda la forma dell’atto, oppure di tipo sostanziale, e riguarda i contenuti normativi della disposizione. In questo caso propriamente si ha un’antinomia risolta applicando il principio gerarchico ed ottenendo un effetto di annullamento. Dunque l’annullamento riguarda la patologia dell’ordinamento e colpisce un atto normativo, ma anche un atto provvedimentale, con effetto erga omnes ed ex tunc, ad esclusione dei rapporti già esauriti. Sennonchè può accadere che il giudice chiamato ad accertare l’invalidità dell’atto non abbia il potere di  annullarlo, ma possa solo disapplicarlo. Una volta delineato il quadro dei principi che consentono la risoluzione delle antinomie, sarà opportuno individuare più precisamente le differenze tra l’annullamento e la disapplicazione, che del resto sono effetti che si atteggiano diversamente nel caso in cui il conflitto coinvolga norme dell’ordinamento interno oppure norme interne e norme comunitarie, o addirittura norme dell’ordinamento interno ma con un ambito di competenza distinto come accadrebbe nell’antinomia che coinvolga la norma nazionale e la norma regionale. In alcuni casi il criterio cronologico e quello gerarchico possono interferire. Si tratta di norme che sono gerarchicamente poste su piani diversi, e che sono state emanate in tempi diversi. Può accadere che una norma gerarchicamente inferiore sia in contrasto con  quella sovraordinata anteriore. Gli esiti dell’antinomia sono opposti a seconda del principio che si applica, tuttavia, a ben vedere il conflitto è solo apparente, e si assiste ad una sorta di gerarchia dei principi per cui il principio gerarchico prevale su quello cronologico, e dunque, la norma superiore prevale su quella inferiore, ancorchè successiva. Diversamente se una norma gerarchicamente superiore è successiva, il criterio gerarchico e quello cronologico concorrono e la norma anteriore gerarchicamente inferiore, potrà essere ritenuta abrogata o invalida. Tuttavia anche in questo caso l’applicazione del criterio gerarchico è prevalente e preminente, giacchè posto a presidio del sistema delle fonti : se una norma legislativa anteriore è in contrasto con la Costituzione, tale norma non si considera abrogata, ma invalida, per illegittimità costituzionale. La differente valutazione è rilevante perché se la norma anteriore fosse abrogata l’antinomia potrebbe essere risolta dal giudice comune, e comunque con effetto ex nunc inter partes, mentre ritenere la norma anteriore invalida richiede la decisione di accoglimento della questione di legittimità costituzionale da parte della Corte Costituzione, con un giudizio accentrato, e con efficacia ex tunc ed erga omnes. Il principio di specialità consente la composizione dell’antinomia quando tra le norme esiste un rapporto da genere a specie. La norma speciale può essere una specificazione della norma generale, oppure può fare eccezione ad essa. Se si ha la prima ipotesi non si configura nessuna reale antinomia, che invece si riscontra ove la  norma speciale sia eccezione della norma generale. Come già accennato, non esiste una vera e propria “ codificazione di questo principio”, ma se ne trovano frammenti, in disposizioni che si occupano soprattutto della materia penale. Il riferimento è all’art. 14 delle Preleggi e all’art. 15 del c.p. La ragione è probabilmente nel rilievo peculiare che il principio di legalità ha in quell’ambito, rilievo tale da determinare nel costituente l’espressa costituzionalizzazione  nell’art. 25, co.2 Cost. Questo principio si può presentare secondo due possibili varianti : nella prima incide su un’antinomia parziale unilaterale, nella seconda su un’antinomia parziale bilaterale. La prima ipotesi riguarda il conflitto tra due norme equiordinate, in rapporto di regola-eccezione, e la soluzione del conflitto porta alla deroga della norma generale da parte di quella speciale. Invero tale deroga consiste in una non applicazione, poiché la norma generale non viene né abrogata, né invalidata, ma non produce effetti inter partes, mentre continua a produrre effetti in altre fattispecie. A ben vedere il meccanismo che  si realizza è quello di una combinazione di due frammenti normativi, che sono ricondotti ad un’unità, riformulando la norma generale in modo da includere in essa una sua eccezione. L’attività di interpretazione può essere complicata dal fatto che le due norme in rapporto di specialità ed equiordinate , appartengano a due leggi diverse, cronologicamente successive. In questo caso il principio cronologico può interferire con il principio gerarchico. Se la norma speciale è anteriore, si può ritenere che la norma speciale costituisca comunque deroga alla disciplina generale, tuttavia diversamente opina la Corte Costituzionale : il giudice delle leggi evidenzia che l’interprete è chiamato a vagliare di volta in volta se il legislatore intendesse attuare o meno un’abrogazione implicita della disciplina di una determinata materia, perché nel caso in cui la disciplina successiva non tolleri eccezioni, la conseguenza deve essere l’applicazione del principio cronologico, con conseguente abrogazione della disciplina speciale anteriore. Se invece la norma speciale è successiva alla norma generale, si avrà un restringimento del campo di applicazione della norma generale, con deroga alla norma generale. Non manca però chi suggerisce di applicare il criterio gerarchico e constatare una abrogazione parziale della norma generale. Tuttavia una tale lettura del fenomeno presuppone una attenta valutazione dell’interprete in ordine ad un eventuale mutamento radicale della volontà del legislatore. Nell’antinomia parziale bilaterale il conflitto coinvolge due norme che sono contigue, che non hanno un rapporto di genere a specie, ma le cui fattispecie si sovrappongono parzialmente l’una all’altra. Il conflitto non porta né all’invalidità, né all’abrogazione, perché non trova applicazione né il principio gerarchico, né quello cronologico, ma dovrà risolversi su una base di gerarchia di valori, che ricorda la logica dell’applicazione dei criteri di consunzione e di sussidiarietà in materia penale. Per quanto esaminato fino a questo punto della trattazione, emerge che l’interprete chiamato a risolvere un’antinomia deve stabilire se si pone un problema di applicabilità, di efficacia oppure di validità. Il problema della validità risulta particolarmente complesso perché invero può dare luogo a effetti di annullamento o di disapplicazione. Quindi la soluzione non è univoca ma si diversifica a seconda dei poteri che spettano all’interprete. In questo senso, occorre considerare che l’art. 4 della L.A.C. , secondo cui “quando una contestazione cade sopra un diritto che si pretende leso da un atto dell’autorità amministrativa, i tribunali si limiteranno a conoscere gli effetti dell’atto stesso in relazione all’oggetto dedotto in giudizio. L’atto amministrativo non potrà essere revocato o modificato se non dalle competenti autorità amministrative, le quali si conformeranno al giudicato  dei tribunali in quanto riguarda il caso deciso”. Ancora l’art. 5 L.A.C. prevede che “in questo, come in ogni altro caso, le autorità giudiziarie applicheranno gli atti amministrativi ed i regolamenti generali e locali in quanto siano conformi alle leggi”. Posto che le disposizioni richiamate, devono essere rilette alla luce dei mutamenti della giustizia amministrativa e della creazione di un giudice amministrativo, quello che interessa rilevare è che è attribuito al giudice ordinario solo un potere di cognizione incidentale in ordine a questioni inerenti la tutela del diritto soggettivo leso dall’atto amministrativo, laddove, invece all’autorità amministrativa è riconosciuto un potere di revoca o modifica. Una volta creato un giudice amministrativo, e riconosciuto anche a livello costituzionale, all’art. 103, co.1, Cost., il proprium della causa petendi  negli interessi legittimi e  diritti soggettivi lesi dall’attività amministrativa,  è stato riconosciuta al privato la possibilità di ottenere una tutela caducatoria dell’atto amministrativo espressivo di un potere autoritativo. Tale tutela trae ad oggi fondamento nell’art. 21 octies L. 241/90, secondo cui , l’annullamento può essere chiesto per vizi inerenti la violazione di legge, l’eccesso di potere o l’incompetenza. Su un piano normativo tali vizi si possono inquadrare come antinomie, giacchè il provvedimento amministrativo che è disposto a conclusione del procedimento amministrativo è un atto esecutivo, ma che in senso lato è anch’esso normativo, perché può porre una regola di comportamento, di comando, di divieto o di attribuzione di facoltà, che può configgere con un norma di rango superiore che o disciplina i requisiti strutturali del provvedimento, o i suoi presupposti, o l’iter per arrivare alla formazione del provvedimento stesso. Allo stesso modo anche il vizio di eccesso di potere può essere letto in questa chiave,  nel caso in cui si consideri che comunque questa figura di illegittimità dell’atto, ricostruita per figure sintomatiche dalla giurisprudenza, si fonda sulla violazione di principi cardine del diritto amministrativo, come la legalità, che hanno comunque un fondamento normativo. Salvo poi ritenere troppo avveniristica una lettura normativa del provvedimento, che essenzialmente è espressione di un potere, e manca di generalità, astrattezza e innovatività, è comunque opportuno constatare che l’antinomia che trova risposta nella tipica tutela caducatoria del giudice amministrativo, riguarda tradizionalmente le norme poste dal Regolamento in relazione alle norme poste dalla legge. Nel caso in cui il regolamento sia impugnato davanti al giudice amministrativo, l’interprete è chiamato a vagliare l’antinomia tra norma regolamentare, visto che il Regolamento è formalmente atto amministrativo, ma sostanzialmente è normativo, e norma di legge sovraordinata. Dunque l’antinomia va risolta in base al principio gerarchico e il giudice è chiamato a demolire il risultato dell’esercizio del potere. Peraltro non è detto che l’antinomia sorga immediatamente dall’adozione del Regolamento, come accade per i cosiddetti Regolamenti volizione- azione, ma può accadere che l’antinomia coinvolga anche l’atto di attuazione del Regolamento, di natura provvedimentale. Dunque per poterla risolvere il giudice sarà chiamato ad indagare i rapporti tra provvedimento, Regolamento e legge. Il privato che lamenti una lesione indiretta dal Regolamento, è tenuto a contestarne l’invalidità, in quanto atto presupposto dal provvedimento che concretamente colpisce la sua sfera giuridica. Questo vuol dire che nelle forme proprie del processo amministrativo dovrà essere portata davanti al giudice amministrativo l’antinomia tra il provvedimento e il Regolamento e il Regolamento e la legge. Se poi il Regolamento è conforme alla Legge e  tuttavia il provvedimento è ritenuto illegittimo, dovrà essere individuata un’ulteriore norma che fonda la tutela dell’interesse leso e che si contrappone alla norma di legge, o regolamentare che attribuisce e regola  il potere. Inoltre, se la norma che fonda l’interesse leso ha rango costituzionale, ed è anche un principio, è possibile che l’antinomia approdi alla Corte Costituzionale, chiamata a sindacare della legittimità costituzionale non già del Regolamento, ma dell’atto normativo primario, sulla cui base è stato emanato il Regolamento. Anche in questa eventualità l’antinomia si deve risolvere in base al principio gerarchico. Ugualmente nel caso in cui l’antinomia emerga al cospetto del giudice ordinario l’interprete è chiamato a invalidare la norma che si ritiene gerarchicamente subordinata, sennonché non rientra tra i poteri del giudice ordinario quello di annullamento dell’atto amministrativo invalido. Come ricordato, gli artt. 4 e 5 LAC riconoscono al giudice ordinario esplicitamente l’uno, implicitamente l’altro, un potere di disapplicazione dell’atto, che occorre esercitare nel caso in cui nel decidere di diritti sia chiamato a conoscere incidentalmente di un atto amministrativo, i cui effetti incidano sui diritti. Peraltro le fattispecie di cui all’art. 4 e 5  LAC sono tradizionalmente distinte. Per la fattispecie di cui all’art. 4 LAC, si parla di disapplicazione impropria, che è a titolo principale, e il giudice ordinario deve conoscere degli effetti dell’atto amministrativo all’interno della fattispecie costitutiva del diritto azionato, per qualificare la condotta della P.A. come illecita, in quanto lesiva del diritto del privato. Per la fattispecie di cui all’art. 5 LAC , si parla di disapplicazione propria e incidentale, perché il provvedimento non interferisce sulla qualificazione della posizione azionata. In generale comunque l’accertamento del giudice ordinario sull’atto non produce effetti oltre il caso deciso. Molto discusso è stata invece la possibilità di riconoscere un potere di disapplicazione al giudice amministrativo, prospettato nei casi in cui non sia più possibile annullare l’atto amministrativo invalido, o comunque si richieda il solo risarcimento del danno. A tal proposito, si segnala che l’art. 34 , c.p.a. ha statuito ai co. 2 e 3., che “ salvo quanto previsto dal comma 3 e dall’articolo 30, comma 3, il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento di cui all’articolo 29. Quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”. Il legislatore del 2010 ha escluso che esista un potere generale di disapplicazione provvedimentale del giudice amministrativo, giacchè è previsto che quel giudice “non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe potuto impugnare con l’azione di annullamento”, ma può accertarla accidentalmente a fini risarcitori. Con riferimento al principio gerarchico, si deve aggiungere si deve aggiungere che la complessità dell’ordinamento, ha comportato l’emersione dei suoi limiti, e l’affermazione di un principio prima esplicativo e poi anche precettivo, che talvolta sembra confondersi con il principio di specialità. Il riferimento è al principio di competenza, per il quale nell’antinomia deve trovare applicazione la norma competente.  Tale principio è scolpito nell’art. 117 Cost in relazione alle riparto delle materie tra legislazione statale e regionale, ma può essere utilizzato anche per comprendere i rapporti tra norme statali e comunitarie. Tuttavia quest’ultima ipotesi merita un’analisi specifica perché riguarda anche il presupposto e il fondamento stesso del principio di gerarchia, ovverosia la sovranità dello Stato e la sua affermata esclusività. Infatti in caso di antinomia tra norma comunitaria e norma interna, l’interprete è chiamato a individuare una soluzione al conflitto, con maggior difficoltà, perché preliminarmente si deve porre una questione relativa al rapporto tra ordinamento comunitario e ordinamento nazionale. Invero si discute se l’Unione Europea costituisca una confederazione tra Stati o una Federazione, giacchè nel primo caso si avrebbe una pluralità di ordinamenti giuridici, nel secondo invece si avrebbe un  ordinamento federale. In realtà la risposta dovrebbe essere a favore dell’unicità dell’ordinamento, tenuto conto che è vero che i Trattati istitutivi e quelli modificativi sono essenzialmente atti di diritto internazionale pattizio, ma tali Trattati hanno mostrato una peculiarità, perché sono stati il fondamento per la creazione di un’organizzazione e un ordinamento vero e proprio, caratterizzato dal principio di esclusività. In particolare nei Trattati sono previste disposizioni sulla produzione normativa che garantiscono la presenza di norme di riconoscimento delle fonti di produzione. Alcune di queste fonti, ovverosia i Regolamenti e le Direttive self-executing, sulla produzione addirittura prevedono che determinate fonti di produzione siano di diretta applicabilità, senza che occorra un riconoscimento da parte delle fonti statali. Sennonchè le fonti costituzionali del nostro ordinamento non prevedevano reciprocamente il riconoscimento di un rango costituzionale o superiore alla Costituzione dei Trattati istitutivi della Comunità e dell’Unione. Inizialmente il fondamento del riconoscimento del rango sovraordinato delle norme comunitarie rispetto a quelle interne si è cercato nell’art. 10 Cost, che però era stato pensato per limitazioni della sovranità volte alla creazione di organizzazioni internazionali per la pace, come l’ONU. Successivamente, con la riforma del T V, l’art. 117, co.1 Cost ha previsto che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”A questo proposito si può osservare però che l’art. 117 Cost richiama prima la Cost. e dopo i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, per cui si potrebbe ritenere che tra i due esista una relazione o di subordinazione o di equiparazione, ma in base al dato letterale parrebbe necessario escludere una prevalenza dei vincoli comunitari sulla Costituzione. Su punto è indispensabile considerare come si sono orientate la Corte Costituzionale e la Corte di Giustizia, anche considerando che le sentenze della Corte di Giustizia sono fonti del diritto. In particolare, la Corte di Giustizia ha disposto che la capacità di alcune  norme europee di produrre effetti direttamente in capo ai cittadini, diversamente da ciò che è il proprium delle norme poste dai Trattati internazionali e dai sistemi che generano, comporta la prevalenza del diritto comunitario su quello interno. Il problema però è che sul piano dell’ordinamento interno non si ha un riconoscimento delle fonti dell’ordinamento comunitario, se non con l’ordine di esecuzione della legge di autorizzazione alla ratifica del Trattato istitutivo della Comunità. Sul punto poi, anche con la riforma del T V della Cost. persistono dubbi, data la genericità dell’espressione “vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”. Tuttavia, se si considera la questione delle antinomie tra norme comunitarie e norme nazionali , e in particolare tra leggi e Regolamenti, la soluzione si deve sempre cercare applicando i principi ordinari : cronologico, gerarchico o di competenza.  Di tali principi è stata fatta una diversa applicazione dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Giustizia, perché, come già ricordato, sono diverse le concezioni in ordine al valore dell’ordinamento comunitario. In un primo momento la Corte Costituzionale ha ritenuto che sussistesse equiordinazione tra fonte comunitaria e legge nazionale : considerato che il Trattato istitutivo era stato recepito con una legge ordinaria, le fonti derivate avevano per l’ordinamento nazionale lo stesso effetto. Dunque la relazione tra legge nazionale e fonte comunitaria era regolata dal principio cronologico e l’effetto che poteva realizzarsi era abrogativo, secondo la successione delle leggi nel tempo. Diametralmente opposta la posizione della Corte di Giustizia che sanciva la prevalenza del diritto comunitario, che è sovraordinato rispetto all’ordinamento statale, il cui ambito si è ristretto per una libera e volontaria cessione della sovranità. Il fondamento normativo era nell’art. 5 TUE e comunque in una concezione monista dell’ordinamento comunitario, a cui gli ordinamenti interni si dovevano adeguare per assicurarne effettiva e uniforme attuazione. In questa prospettiva la possibilità che una norma nazionale potesse abrogare una norma comunitaria era vista come infrazione del diritto comunitario. Successivamente la Corte Costituzionale ha ritenuto che l’antinomia dovesse essere risolta sulla base del criterio gerarchico, giacchè la violazione di un Regolamento da parte di una legge italiana comportava la violazione indiretta dell’art. 11 Cost, posto a fondamento della limitazione della sovranità statale conseguente alla ratifica del Trattato. In questo caso la Corte di Giustizia ha obiettato che un controllo di conformità al diritto comunitario accentrato nelle mani della Corte Costituzionale snaturava il reale significato della prevalenza, che comportava l’applicabilità del diritto comunitario per forza propria al momento della sua entrata in vigore. La Corte Costituzionale ha cambiato la sua impostazione ritenendo che il principio risolutore delle antinomie tra ordinamento nazionale e ordinamento comunitario debba essere quello della competenza. Il presupposto di questa interpretazione è nella teoria dualista degli ordinamenti, secondo la quale l’ordinamento comunitario e quello nazionale sono autonomi e separati. In questa prospettiva però non esisterebbe neppure una vera e propria antinomia, perché ciascuna norma sarebbe valida ed efficace nel suo ambito, ma non sempre applicabile. Il limite all’applicabilità sarebbe dato dalla competenza stabilita nel Trattato, cui è stata data attuazione tramite una legge ordinaria. Se la norma interna non è competente, non occorre che sia abrogata, e non la si ritiene abrogata neppure implicitamente o tacitamente, né occorre dichiararla illegittima, ma non si applica. Dunque la stessa norma continua ad essere valida ed efficace e potrà essere applicata dall’interprete in altri casi, in cui non confligga con la norma comunitaria. A questo proposito si potrebbe verificare se la non applicazione della norma interna configgente con la norma comunitaria equivalga alla disapplicazione di cui si è detto in relazione alle antinomie tra norma regolamentare e norma legislativa nell’ordinamento nazionale. Invero i due fenomeni non sono davvero uguali, anche se lo sembrano, infatti, se è vero che in entrambi i casi si riscontra da parte dell’interprete un comportamento che consiste in un non facere, in realtà in caso di disapplicazione si ha un effetto che discende dall’invalidità dell’atto, in caso di non applicazione l’effetto è l’applicazione delle norme competenti. Poiché la disapplicazione comporterebbe un giudizio di validità, possibile per il giudice solo ove espressamente previsto, data la sua soggezione alla legge, in caso di contrasto tra norma interna e norma comunitaria rientrerebbe nei suoi poteri la non applicazione, in virtù del principio di attribuzione. Pertanto le norme in contrasto con quelle comunitarie non sarebbero applicate, ma rimarrebbero valide ed efficaci, dunque potrebbero trovare applicazione in altri casi. Tale impostazione è avversata dalla Corte di Giustizia che è contraria a soluzioni ambigue delle antinomie  e afferma l’obbligo degli Stati di eliminare disposizioni incompatibili col diritto europeo, preminente e direttamente efficace. Nel caso in cui l’antinomia coinvolga una norma europea non self-executing, secondo la Corte Costituzionale si dovrà investire il giudice delle leggi della questione di legittimità relativa alla norma interna per violazione dell’art. 117 Cost. Invece l’impostazione del problema, da parte della Corte di Giustizia è diversa, infatti,  nel caso in cui si ponga un contrasto che coinvolga una norma europea non self-executing, ma espressione di un principio, il giudice italiano dovrà verificare se la norma interna da applicare in attesa dell’attuazione della norma comunitaria sia o meno conforme ai principi comunitari. Per farlo dovrà sollevare questione pregiudiziale di interpretazione, ovverosia non chiederà che la Corte si occupi della norma interna, per cui non ha potere di sindacato, ma che interpreti la disposizione europea. Il risultato potrebbe essere che la norma non self- executing abbia a seguito dell’interpretazione della Corte di Giustizia un effetto diretto, ad esempio perché un determinato meccanismo dell’ordinamento interno risulti incompatibile con un principio comunitario. Il giudice interno allora deve disapplicare la norma interna e applicare quella comunitaria come reinterpretata dalla Corte. Parallelamente a quanto sostenuto in ordine all’invalidità provvedimentale nell’ordinamento interno, si ripropone ugualmente un problema di disapplicazione dell’atto normativo secondario nel caso di atto anticomunitario. Tuttavia, a ben vedere, i termini della questione si complicano, perché, a prescindere dal problema relativo alla distinzione tra disapplicazione normativa e disapplicazione provvedimentale, le norme che devono essere coordinate dall’interprete sono di tre ordini : le norme che disciplinano l’attività provvedimentale della P.A., le norme che regolano il rapporto tra leggi e regolamenti amministrativi e le norme comunitarie. Dunque se le norme comunitarie producono direttamente effetti nell’ordinamento italiano le eventuali antinonie che si possono prospettare si regolano secondo lo stesso rapporto che esiste tra legge, regolamento e provvedimento, alla luce di un principio gerarchico, che tiene conto del principio di competenza e attribuzione, salvo poi trovare difficoltà a inquadrare il tema nell’invalidità per violazione di legge ex art. 21 octies L.241/90. Se invece le norme comunitarie non sono self-executing, la relazione che genera antinomie coinvolge la Direttiva, la legge ( posto che la Direttiva trovi attuazione), il regolamento amministrativo e il provvedimento.  Il criterio guida per l’interprete, ancora una volta dovrebbe essere quello gerarchico, salvo poi che il regolamento sia conforme alla direttiva, ma difforme alla legge, che non attua bene la Direttiva stessa. Anche in questo caso la via dovrebbe essere quella della disapplicazione, perché pur considerando esigenze di certezza dell’amministrazione e di separazione dei poteri, la prevalenza del diritto comunitario deve essere garantita. È  pur vero però che in questo caso verrebbe meno la norma attributiva del potere e l’atto dal punto di vista dell’ordinamento interno sarebbe nullo.

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