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Tema svolto diritto amministrativo: responsabilità per violazione dell’art. 3 l.n. 241 del 1990.

La responsabilità civile della pubblica amministrazione per violazione dell’art. 3 della legge 241/1990.

  di  Eleonora Barbini (corsista justowin)

Prima ancora che la legge n. 241/1990 generalizzasse l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi, la giurisprudenza aveva valorizzato l’importanza di tale elemento provvedimentale, collocando il difetto di motivazione tra le figure sintomatiche dell’eccesso di potere. In via giurisprudenziale si era infatti riconosciuta l’impugnabilità del provvedimento amministrativo per eccesso di potere ove la motivazione fosse risultata assente, insufficiente e/o contraddittoria rispetto al procedimento e ciò, anche in assenza di una espressa previsione normativa che imponesse di motivare lo specifico provvedimento impugnato.

Con la legge 241/1990 l’obbligo di motivazione è stato esteso a tutti gli atti amministrativi (art. 3) fatta eccezione  per quelli normativi e per quelli di contenuto generale (art. 3 c. II) che risultano essere da un lato, ampiamente discrezionali e dall’altro, non immediatamente lesivi di posizioni giuridiche private stante la loro generalità e astrattezza.

La norma in esame individua inoltre la struttura della motivazione che deve indicare “i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione in relazione alle risultanze dell’istruttoria”. In altre parole la p.a. deve dar conto dei dati acquisiti durante l’istruttoria che sono stati oggetto di valutazione per l’adozione del provvedimento finale; deve altresì enunciare le norme e i principi giuridici ritenuti applicabili nel caso concreto e in conseguenza dei quali l’amministrazione ha scelto di emanare quel certo provvedimento. Tra gli elementi che la p.a. è chiamata a valutare “ove pertinenti all’oggetto del procedimento”, si collocano le memorie e i documenti prodotti dai soggetti che, potendo subire un pregiudizio dal provvedimento finale, hanno partecipato al procedimento esercitando i diritti di cui all’art. 10 lett. b).

In certe circostanze, la motivazione deve contenere elementi ulteriori per poter essere ritenuta esaustiva. Ciò accade, ad esempio, quando il provvedimento finale venga emesso da un soggetto diverso rispetto al responsabile del procedimento: in questo caso l’organo competente all’adozione del provvedimento finale “non può discostarsi dalle risultanze dell’istruttoria […] se non indicandone la motivazione nel provvedimento finale” ( art. 6, lett. e). Altra ipotesi è quella contemplata dall’art. 10bis. Nei procedimenti a istanza di parte la p.a., prima dell’adozione del provvedimento finale negativo, deve comunicare all’istante i motivi che precludono l’accoglimento della domanda. L’istante entro 10 giorni dalla suddetta comunicazione può presentare osservazioni scritte, eventualmente corredate di documenti, a sostegno dell’istanza stessa. Se malgrado tali elementi l’amministrazione ritiene di dover comunque adottare un provvedimento negativo, “del mancato accoglimento di tali osservazioni è data ragione nella motivazione del provvedimento finale”.

L’esigenza di offrire una completa motivazione del provvedimento, deve trovare un bilanciamento con il principio di non aggravamento del procedimento amministrativo, corollario dei principi di efficacia ed economicità dell’azione amministrativa enunciati dall’art. 1 della l. 241/1990. Di qui la previsione del comma 3 dell’art. 3 che ammette la cosiddetta motivazione per relationem: in base alla norma, se le ragioni della decisione sono contenute in altro atto dell’amministrazione, la p.a. potrà limitarsi a richiamare quest’ultimo rendendolo disponibile ai destinatari contestualmente alla comunicazione del provvedimento finale. Sempre al principio di non aggravamento del procedimento amministrativo si ispirano quegli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali che, nel caso di atti vincolati, reputano sufficiente la motivazione che si limiti a indicare i presupposti fattuali e le norme che prevedono l’obbligo di emanare il provvedimento. Allo stesso principio sono ispirate le pronunce che ritengono soddisfatto l’obbligo di motivazione delle prove concorsuali con il punteggio numerico e la previa formulazione dei criteri di valutazione che saranno applicati dalla commissione.

La lettura delle norme in precedenza richiamate evidenzia come la motivazione costituisca una garanzia per il privato destinatario dell’atto amministrativo: quest’ultimo, infatti, potrà verificare la fondatezza delle ragioni per cui l’amministrazione ha ritenuto di non dover accogliere le sue richieste e osservazioni oggetto di memorie scritte. La motivazione, esprimendo l’iter logico seguito dalla p.a. per arrivare all’emanazione di un provvedimento avente quel certo contenuto, sarà capace di rivelare la correttezza dell’operato della p.a. e, dunque, sarà utile sia al fine di valutare l’opportunità di impugnare quell’atto in sede giurisdizionale sia al fine di consentire il successivo controllo giudiziario sullo stesso.

La motivazione, rendendo intellegibile le modalità con cui la p.a. ha operato, concretizza inoltre il principio di trasparenza dell’attività amministrativa. Al riguardo merita segnalare una recente sentenza del novembre 2010 in cui la Corte Costituzionale evidenzia come l’obbligo di motivare i provvedimenti trovi fondamento negli articoli 97 e 113 della Costituzione poiché, da un lato, costituisce corollario dei principi di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione, dall’altro, garantisce al destinatario del provvedimento, che ritenga lesa la propria situazione giuridica, di far valere la relativa tutela giurisdizionale. Con riferimento a quest’ultima funzione, la motivazione assolve un ruolo strumentale rispetto all’esercizio del diritto di difesa.

Se prima della legge 241/1990 il difetto di motivazione era ascrivibile al vizio di eccesso di potere, dopo la positivizzazione operata dalla normativa l’atto senza alcuna motivazione è divenuto annullabile per violazione di legge. Sono altresì annullabili per tale vizio: i provvedimenti che non indichino (o lo facciano in modo incompleto) i presupposti di fatto e/o le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione (art. 3, comma 1); i provvedimenti motivati per relationem che non specifichino gli atti da cui risultano le ragioni della decisione (art. 3, comma 3).

Il vizio di eccesso di potere ha dunque un rilievo residuale, essendo invocabile nelle ipotesi non espressamente contemplate dalla legge, come nei casi di illogicità e contraddittorietà della motivazione.

La rilevanza riconosciuta al difetto di motivazione e la sua assimilazione alla categoria delle violazioni di legge da un lato, la riforma della legge 241/1990 operata dalla l. 15/2005, dall’altro, hanno prodotto alcuni problemi interpretativi: in particolare, dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sulla possibilità di applicare al difetto di motivazione la disciplina dettata dall’art. 21septies o quella dell’art. 21octies.

La questione è di particolare interesse per i riflessi che la soluzione prescelta produce sul tema della responsabilità civile della p.a. per violazione dell’art. 3, oggetto della presente traccia.

L’art. 21septies ha introdotto nel diritto amministrativo, da sempre improntato sul regime di annullabilità dell’atto, la categoria della nullità già frutto di elaborazioni dottrinali e giurisprudenziali.

Il comma 1 della norma, riecheggiando il contenuto dell’art. 1418 comma 2 c.c., stabilisce che il provvedimento è nullo quando “ manca degli elementi essenziali”, senza tuttavia definire quali elementi dell’atto amministrativo hanno tale valenza.

Tra i molteplici interrogativi sollevati dalla disposizione, si registra anche quello concernente la riconducibilità del difetto di motivazione agli elementi essenziali del provvedimento.

Una parte minoritaria della dottrina, ponendo l’accento sul rilievo attribuito alla motivazione dalla legge 241/1990 e sulle funzioni fondamentali che alla stessa si ricollegano (funzione garantistica nei confronti del soggetto destinatario del provvedimento; finalità di trasparenza preordinata al controllo sulla correttezza dell’azione amministrativa), ha ritenuto che la motivazione fosse un elemento essenziale del provvedimento.

Se tale prospettazione fosse accolta, la violazione dell’art. 3 determinerebbe la nullità dell’atto impugnato e la pubblica amministrazione potrebbe essere agevolmente condannata al risarcimento del danno subito dal destinatario dell’atto nullo. L’azione risarcitoria potrebbe esser promossa davanti  al giudice amministrativo contestualmente all’azione di accertamento della nullità o in via autonoma, nel termine di centoventi giorni di cui all’art. 30, comma 3 c.p.a.

La dottrina maggioritaria, tuttavia, esclude che il difetto di motivazione sia soggetto alla disciplina dell’art. 21septies comma 1, dal momento che la motivazione non è elemento essenziale dell’atto amministrativo. Secondo i fautori della tesi civilistica, che colmano le lacune del diritto amministrativo con le regole di diritto civile, la motivazione non è elemento essenziale in quanto non è contemplata nell’elencazione contenuta nell’art. 1325 c.c. Anche coloro che criticano tale impostazione, ritenendo che le norme civilistiche non possano integrare il diritto amministrativo in via automatica, escludono comunque che la motivazione sia un elemento indefettibile dell’atto amministrativo a differenza del contenuto dello stesso e della forma essenziale del provvedimento.

Inoltre, anche accogliendo la tesi della nullità, non ogni difetto di motivazione potrebbe assurgere a vizio di nullità: solo l’impossibilità di riconoscere la volontà espressa nel provvedimento stante l’intrinseca contraddittorietà dello stesso, potrebbe giustificare  l’applicazione dell’art. 21septies.

La posizione maggioritaria, dunque, ritiene che la motivazione sia un requisito strutturale di validità del provvedimento e che la violazione dell’art. 3 dia luogo all’annullabilità dello stesso.

Ben più dibattuto è infatti il problema dell’applicabilità dell’art. 21octies, comma 2, al difetto di motivazione.  In particolare dottrina e giurisprudenza si sono chieste se l’art. 3 sia  una “norma sul procedimento o sulla forma degli atti” e se, conseguentemente, il provvedimento affetto da vizio di motivazione non sia annullabile “qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato”.

A tale dibattito è strettamente correlato quello sulla possibilità o meno per la pubblica amministrazione di procedere a una integrazione della motivazione del provvedimento successiva all’impugnazione dell’atto stesso dinnanzi al giudice amministrativo ( cd. integrazione postuma del provvedimento). Ammettendo la suddetta integrazione, sarebbe ben possibile per l’amministrazione evitare la declaratoria di illegittimità del provvedimento dimostrando con la successiva esplicazione delle argomentazioni sottese al provvedimento, la sostanziale legittimità dello stesso.

Secondo il tradizionale orientamento della giurisprudenza amministrativa, antecedente alle innovazioni introdotte dalla l. 15/2005, l’integrazione postuma della motivazione non era ammissibile. La stessa risultava infatti lesiva del principio costituzionale di parità delle parti nel processo dal momento che permetteva alla p.a. di emendare il provvedimento dal vizio per cui era stato impugnato. Inoltre, l’integrazione postuma era esclusa per ragioni di ordine processuale: nell’ottica tradizionale del processo amministrativo di stampo caducatorio, il giudizio doveva essere incentrato sulla conformità alla legge dell’atto e non sulla fondatezza sostanziale delle richieste avanzate dal privato. Ravvisato dunque il difetto di motivazione, e accertato come lo stesso fosse riconducibile al vizio di eccesso di potere, il giudice doveva annullare l’atto e la p.a. rimaneva libera di adottare un nuovo provvedimento avente lo stesso contenuto del precedente ma adeguatamente motivato.

Tale orientamento escludeva la possibilità di integrare la motivazione partendo dall’assunto che questa non fosse un semplice elemento formale del provvedimento, avendo il ruolo essenziale di garantire la trasparenza dell’azione amministrativa.

La giurisprudenza minoritaria e parte della dottrina riconoscevano invece alla pubblica amministrazione la facoltà di integrare la motivazione dell’atto nel corso del giudizio concernente l’annullabilità di quello stesso provvedimento. In particolare con una autorevole pronuncia del 1993, il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia aveva escluso che l’integrazione postuma della motivazione potesse ledere il principio di parità delle parti e ridurre la tutela del ricorrente “afflitto” dal provvedimento impugnato. Infatti la pronuncia di annullamento del giudice non avrebbe comunque precluso alla p.a. di adottare un nuovo atto avente il medesimo contenuto del precedente ed emendato del suo difetto di motivazione, stante l’inesauribilità del potere amministrativo. Ciò avrebbe costretto il destinatario del provvedimento a impugnarlo nuovamente, con ulteriore aggravio di costi.

Ammettendo invece l’integrazione postuma, la legittimità della nuova motivazione offerta dalla p.a. veniva valutata entro un unico processo, in ossequio ai principi di economicità e ragionevole durata e il ricorrente poteva così comprendere in via definitiva se allo stesso spettava il bene della vita cui aspirava. La sentenza recepiva una nuova visione del processo amministrativo come giudizio improntato non più sulla legittimità di un provvedimento cristallizzato, ma sulla fondatezza della pretesa sostanziale del ricorrente e dunque sul rapporto sostanziale intercorrente tra questi e l’amministrazione.

La sentenza, in via implicita, riconosceva al difetto di motivazione una valenza esclusivamente formale: solo una violazione di carattere formale, incapace di alterare la “bontà” del dispositivo del provvedimento poteva infatti giustificare il mantenimento in vita del provvedimento originario .

Negli ultimi anni le riforme hanno dato attuazione alla visione di un processo amministrativo come giudizio incentrato sulla spettanza del bene della vita sotteso all’atto amministrativo.

Tra tali riforme si inserisce indubbiamente quella apportata dalla l. 15/2005 che, pur essendo relativa alle norme sul procedimento amministrativo, è ricca di risvolti processuali.

Precludendo al giudice amministrativo la possibilità di annullare il provvedimento che, pur se illegittimo per vizi di natura formale, non avrebbe potuto avere un contenuto diverso, il legislatore, infatti, ha voluto spostare l’oggetto del processo dall’atto al rapporto, garantendo la conservazione di un provvedimento invalido ma comunque capace di raggiungere il suo scopo, avendo stabilito correttamente se il privato ha o non ha diritto all’utilità sperata.

Alla luce delle suddette valutazioni, si potrebbe dunque ritenere attuale l’orientamento espresso dal Consiglio di Giustizia Amministrativa nel 1993. Partendo dall’assunto che la motivazione sia un requisito meramente formale dell’atto si potrebbe ammettere l’integrazione postuma della motivazione ed escludere l’annullamento del provvedimento affetto da vizio di legge per violazione dell’art. 3 della l. 241/1990, essendo stato accertato dal g.a. che, anche in assenza del difetto di motivazione, il contenuto dispositivo dell’atto impugnato non avrebbe potuto essere diverso.

E’ opportuno tener presente che, a fronte dell’integrazione postuma della motivazione, il privato potrebbe addurre ulteriori profili di illegittimità dell’atto servendosi del meccanismo dei motivi aggiunti di cui all’art. 43 c.p.a. integrando il contraddittorio sulle deduzioni dell’amministrazione e ampliando l’oggetto del processo.

Assimilando il difetto di motivazione a un vizio formale dell’atto amministrativo sanabile ex art. 21octies comma 2, il privato non potrebbe dunque ottenere l’annullamento dell’atto: occorre chiedersi se l’illegittimità del provvedimento, potrebbe tuttavia determinare la responsabilità civile dell’amministrazione con conseguente diritto al risarcimento del danno per il privato.

Per dare soluzione a tale quesito è fondamentale considerare quanto sancito dalla Corte di Cassazione con la sentenza, resa a Sezioni Unite, n. 500 del 1999.

Con tale storica pronuncia la Corte aveva superato il dogma dell’irrisarcibilità degli interessi legittimi e, al contempo, aveva ricondotto la responsabilità dell’amministrazione per attività provvedimentale illegittima al modello della responsabilità aquiliana di cui all’art. 2043 c.c. In ragione di ciò il cittadino, per accedere alla tutela risarcitoria, doveva provare: l’esistenza di un danno ingiusto, ovvero lesivo di un interesse giuridicamente rilevante; la sussistenza di un nesso di causalità tra danno ingiusto e condotta attiva o omissiva della p.a.; l’attribuibilità alla p.a. del danno ingiusto a titolo di dolo o colpa. Il risarcimento del danno, inoltre, andava parametrato al mancato godimento del bene della vita che il titolare di un interesse legittimo, mirava a conseguire o mantenere.

La tesi della natura extracontrattuale della responsabilità dell’amministrazione, ha trovato una conferma normativa con la legge n. 69/2009 che ha inserito l’art. 2bis nella l. 241/1990. Tale norma al comma 1 (tuttora vigente), utilizzando una terminologia chiaramente inspirata all’art. 2043 c.c., stabilisce l’obbligo per le pubbliche amministrazioni di risarcire il “danno ingiusto cagionato in conseguenza dell’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento”. Anche nel nuovo Codice del Processo Amministrativo sono individuabili riferimenti letterali alla responsabilità aquiliana. Nel dettare la disciplina dell’azione di condanna l’art. 30, da un lato, richiama il concetto di “danno ingiusto derivante dall’illegittimo esercizio dell’attività amministrativa o dal mancato esercizio di quella obbligatoria”; dall’altro, ammette il risarcimento in forma specifica, sussistendo i presupposti di cui all’art. 2058 c.c. (comma 2). Infine, riproponendo la formulazione già usata dall’art. 2bis della l. 241/1990, fa riferimento all’inosservanza dolosa o colposa del termine di conclusione del procedimento da parte della p.a., individuando così i requisiti soggettivi che devono sussistere (ed essere provati) affinché il soggetto leso possa accedere alla tutela risarcitoria (comma 4).

Possiamo quindi concludere circa la riconducibilità della responsabilità amministrativa al modello extracontrattuale di cui all’art. 2043 c.c.

In conformità a questo modello, la giurisprudenza ha più volte evidenziato come, ai fini della tutela risarcitoria, non sia sufficiente dimostrare l’illegittimità del provvedimento amministrativo e, dunque, non sia sufficiente che vi sia la lesione dell’interesse legittimo. Sulla scorta della sentenza 500/1999, è stato infatti affermato che il risarcimento del danno è ammesso in caso di esito positivo sulla spettanza del bene della vita cui il soggetto aspira (chiedendo ad esempio un provvedimento autorizzatorio alla p.a.) o che intende conservare (impugnando, per esempio, il provvedimento di revoca di una precedente autorizzazione). Il giudice, in sostanza, sarebbe chiamato a valutare se, in assenza del vizio che inficia il provvedimento, quest’ultimo avrebbe avuto contenuto diverso assegnando il bene della vita all’amministrato o, comunque, consentendogli di mantenerlo. La suddetta valutazione prognostica è funzionale alla verifica del nesso di causalità tra provvedimento illegittimo e danno lamentato: se infatti il provvedimento avrebbe comunque escluso l’attribuibilità del bene al soggetto, anche in assenza di quel vizio, l’atto della p.a. non può essere ritenuto fonte del danno lamentato. Ciò in piena conformità alla nuova strutturazione del giudizio amministrativo come giudizio sul rapporto e non più sull’atto.

Applicando tali principi alla violazione dell’obbligo di motivazione inteso come requisito meramente formale del provvedimento, si dovrebbe escludere la responsabilità civile della pubblica amministrazione per lesione dell’art. 3 della l. 241/1990. Infatti, se si accerta nel corso del giudizio che il contenuto dispositivo dell’atto impugnato non avrebbe potuto essere diverso anche in assenza del difetto di motivazione lamentato dal ricorrente, si finisce per provare anche che il provvedimento amministrativo illegittimo non ha cagionato alcuna lesione al ricorrente, dal momento che questi non avrebbe comunque potuto ottenere il bene della vita cui aspirava. Insomma, l’atto invalido per violazione dell’art. 3 della legge 241/1990 ma non annullabile ai sensi dell’art. 21octies, non potrebbe neppure essere “sanzionato” imponendo all’amministrazione di risarcire il danno sofferto dal privato in ragione di quella violazione. L’accertamento dell’illegittimità non invalidante di cui all’art. 21octies sarebbe sufficiente ad escludere il risarcimento.

Interpretando la motivazione come vizio meramente formale – e aderendo alla tesi delle S.U. in tema di risarcimento – si finirebbe per precludere qualunque tutela al cittadino leso dal provvedimento affetto da vizio di motivazione. Questi, inconsapevole delle ragioni poste alla base del provvedimento, sarebbe costretto a impugnarlo per violazione dell’art. 3, salvo poi scoprire in giudizio che le ragioni non esplicitate dalla pubblica amministrazione erano valide ed esaustive, che dunque il provvedimento è efficace e che l’illegittimità non può esser dunque sanzionata neppure in via risarcitoria. Tale impostazione, a ben vedere, rischierebbe di concretizzare una violazione del principio di effettività della tutela giurisdizionale incardinato nell’art. 24 della Costituzione e potrebbe privare di valore l’obbligo di motivazione stante l’assenza nell’ordinamento di un meccanismo (caducatorio o risarcitorio) capace di colpire la violazione dell’art. 3.

Per superare tali profili di illegittimità che emergono con riferimento a tutte le violazione formali sanabili ex art. 21octies comma 2, un’autorevole dottrina ritiene opportuno estendere la nozione di danno ingiusto fino a ricomprendervi la lesione di interessi procedimentali aventi una portata non meramente strumentale ma sostanziale. In base a tale impostazione la violazione di norme procedimentali non comporterebbe sempre e necessariamente una tutela risarcitoria ma questa dovrebbe essere comunque esperibile nel caso in cui la norma violata sia posta a tutela di interessi di natura sostanziale, come quello alla tempestiva definizione del procedimento.

L’obbligo di motivazione, secondo la recente pronuncia della Corte Costituzionale sopra richiamata, costituisce corollario dei principi di buon andamento e di imparzialità dell’amministrazione e garantisce al destinatario del provvedimento che ritenga lesa la propria situazione giuridica di far valere la relativa tutela giurisdizionale. Come corollario del principio di cui all’art. 113 Cost., l’art. 3 è dunque norma che tutela un interesse di natura sostanziale; in base alla dottrina sopra richiamata, la sua violazione sarebbe dunque tale da configurare un danno ingiusto, indipendentemente dall’esito del giudizio prognostico sulla spettanza del bene della vita.

A conferma della portata sostanziale dell’obbligo di motivazione possiamo citare quella giurisprudenza recente che esclude l’assimilabilità del difetto di motivazione ad un vizio formale negando così l’applicabilità dell’art. 21octies, comma 2 e precludendo alla p.a. di ricorrere all’integrazione postuma del provvedimento. Al riguardo possiamo segnalare la sentenza del Consiglio di Stato del marzo 2010 che, richiamando espressamente il regime processuale attuale segnato dalla irrilevanza delle invalidità procedimentali sanabili ai sensi dell’art. 21octies, ha escluso la possibilità di ricorrere alla integrazione postuma della motivazione allo scopo di dimostrare in via di eccezione la sostanziale correttezza del provvedimento impugnato. E questo in ragione del fatto che l’obbligo di motivazione è un presidio essenziale del diritto di difesa costituzionalmente garantito, che risulterebbe leso ove fosse ammessa l’integrazione della motivazione dopo la proposizione del ricorso avverso lo stesso (in senso conforme anche Tar Calabria del novembre 2010). Inoltre assegnando al difetto di motivazione una valenza solo formale si rischierebbe di trasformare il processo instaurato con l’impugnazione del provvedimento viziato ex art. 3, in una sorta di procedimento di riesame nel corso del quale, per la prima volta, la p.a. indicherebbe le ragioni sottese al provvedimento. Anche la giurisprudenza comunitaria suggerisce di qualificare il difetto di omessa motivazione come vizio di natura sostanziale e non  formale: in particolare l’omessa motivazione, al pari dell’omessa istruttoria, costituirebbe una violazione delle forme sostanziali rilevabili d’ufficio dal giudice comunitario.

Occorre comunque rilevare che la stessa giurisprudenza che nega una valenza formale al vizio di motivazione, afferma tuttavia che se le ragioni del provvedimento sono immediatamente intuibili sulla base del dispositivo, le chiarificazioni offerte dalla p.a. nel corso del giudizio non violano il divieto di integrazione postuma e sono dunque ammissibili. Non sempre, dunque, potrebbe essere agevole distinguere la sussistenza di un’effettiva violazione dell’art. 3.

Alla luce dei principi di cui agli articoli 97, 24 e 113 della Costituzione, di cui la motivazione del provvedimento costituisce corollario, possiamo concludere affermando che:

a)      il difetto di motivazione non è vizio meramente formale avendo una portata di carattere sostanziale;

b)      allo stesso non è dunque applicabile la disciplina dell’art. 21octies comma 2 primo periodo della legge 241/1990;

c)       accertata la sussistenza della violazione colposa dell’obbligo di motivazione da parte della p.a., dovrebbe essere riconosciuta la tutela risarcitoria al soggetto leso dal provvedimento viziato. L’entità del risarcimento dovrebbe essere ridotta ma non esclusa nel caso in cui il contenuto dispositivo del provvedimento risultasse essere corretto. Ciò perché la violazione dell’obbligo di motivazione sarebbe tale da configurare comunque una lesione del diritto di difesa del ricorrente, suscettibile di tutela risarcitoria.

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