IL RECESSO DAGLI ACCORDI STIPULATI TRA P.P. A.A.

 

 

IL RECESSO DAGLI ACCORDI STIPULATI TRA P.P. A.A.

Pubblicato il 16/04/2015 autore Elvira Pianese

Il tema della “stabilità” dei rapporti giuridici di genesi consensuale, intercorrenti tra due (o più) pubbliche amministrazioni e riconducibile, sotto il profilo della natura giuridica, all’ambito del diritto pubblico, è da annoverare tra i punti di domanda rispetto ai quali la dottrina amministrativa non è ancora pacifica. Le riflessioni dottrinali condotte sulla dibattuta tematica muovono tutte, o quasi, dalla comune evidenziazione di un dato legislativo omissivo riscontrabile nella legge generale sul provvedimento amministrativo (legge n. 241/90), il cui art. 15 ha canonizzato in via generale l’eventualità che due o più pubbliche amministrazioni stipulino accordi fra loro (di diritto pubblico), al fine di disciplinare lo svolgimento in collaborazione di attività d’interesse comune. A ben vedere, non sembra errato qualificare la disciplina contenuta nell’art. 15 come fonte normativa di una generalizzata legittimazione all’uso di strumenti convenzionali di organizzazione e di azione amministrativa, attraverso i quali le Pubbliche Amministrazioni auto-coordinano, consensualmente e in forma collaborativa, l’esercizio di poteri amministrativi di cui sono rispettivamente detentrici, al fine di raggiungere uno o più fini alternativi non perseguibili in via unilaterale. Le esigenze che hanno indotto il Legislatore ad intervenire, prima con l’introduzione di fattispecie consensuali “ad operatività settoriale” e, poi, con l’immissione nell’ordinamento della vasta previsione contenuta nell’art. 15 legge n. 241/90, sono state oggetto di studio da parte di autorevoli autori. La stessa dottrina amministrativistica italiana già da tempo ha evidenziato gli aspetti propriamente strutturali oltre che funzionali, della eterogenea categoria degli accordi fra pubbliche amministrazioni, delineando i tratti essenziali del relativo regime giuridico. Un percorso argomentativo che trae origine proprio dalla constatazione secondo cui nell’ordinamento giuridico italiano non  dato rinvenire una norma di relazione che attribuisca espressamente e in via generale ad una P.A., che abbia stipulato un “accordo (amministrativo) di collaborazione” con altra (o altre) P.A., il potere di svincolarsi unilateralmente dagli impegni presi, per il caso in cui intervengono sopravvenienze di pubblico rilievo che, non fronteggiabili facendo uso delle norme e dei principi civilistici propri della materia delle obbligazioni e dei contratti, né tantomeno, della disciplina convenzionalmente statuita e confluita nel testo dell’accordo, rendano la permanenza del rapporto giuridico a base consensuale sorto tra P.P. A.A., pregiudizievole per uno o più interessi pubblici affidati alle cure di una delle parti.

Fatta questa considerazione di base, quasi certamente ciò che ha indotto gli studiosi ed interpreti a dare valenza normativa al silenzio osservato dal legislatore sul tema, origina dalla tecnica legislativa utilizzata per delineare il regime giuridico applicabile alle fattispecie consensuali riconducibili entro la figura degli accordi tra due o più soggetti pubblici ex art. 15 legge n. 241/90. Il legislatore nella formulazione dell’articolo richiamato ha espressamente assoggettato gli accordi tra le Pubbliche Amministrazioni alle norme contenute nei commi 2, 3 e 5 dell’art. 11 della stessa legge. E così facendo, dunque, il legislatore ha prescritto “per rinvio” che, anche in relazione agli accordi di collaborazione tra P.P. A.A. si osservano, se e in quanto applicabili, le disposizioni di cui al richiamato art. 11 legge 241/90, riguardanti l’uso della forma ad substantiam, l’applicabilità dei principi del codice civile, ove non diversamente previsto e salvo clausola di compatibilità, la soggezione dell’accordo a tutti i controlli prescritti in relazione alla singola fattispecie, la riconduzione di ogni controversia che origini dalle fasi di formazione, conclusione ed esecuzione dell’accordo, entro l’ambito di giurisdizione esclusivo del giudice amministrativo. Queste, dunque, le norme espressamente richiamate.

Tuttavia, dottrina e giurisprudenza hanno impropriamente ritenuto che il legislatore abbia disciplinato la figura giuridica degli accordi tra Pubbliche Amministrazioni non soltanto “per rinvio”, bensì anche “per omesso rinvio”. Il riferimento è al mancato richiamo, da parte dell’art. 15, comma 2 legge n. 241/90, della disposizione di cui al comma 4 dell’art. 11 della stessa legge, contenente la disciplina dell’esercizio del potere, posto in capo alla P.A., di sciogliersi in modo unilaterale dal vincolo giuridico derivante dalla stipulazione di un accordo con una “controparte” privata, per il caso in cui sopraggiungano motivi di pubblico interesse. Si è sostenuto che il legislatore, omettendo il richiamo di questa norma, abbia in sostanza introdotto nell’ordinamento giuridico una chiara disposizione legislativa, la quale (per alcuni) sarebbe poi valsa ad escludere l’ammissibilità di un potere amministrativo di recesso unilaterale degli accordi stipulati ex art. 15 legge n. 241/90 e (per altri) ad indicare, invece, l’inoperatività dei presupposti e delle conseguenze giuridico-patrimoniali contemplati dalla norma non richiamata, a fronte dell’esercizio di un potere – quello di recesso (rectius revoca) – di per sé sussistente in capo a ciascuna Amministrazione. Ora, a prescindere dalla verifica della fondatezza delle opposte tesi sviluppatesi, preme innanzitutto evidenziare come una simile impostazione risulti viziata dalla sopravvalutazione interpretativa di una scelta legislativa che, in realtà, non è stata compiuta. Anzi sempre più lecito ritenere che proprio a fronte della riscontrata difficoltà di assumere una posizione netta in ordine alla configurabilità di un potere (pubblicistico) di recesso dagli accordi tra soggetti pubblici (autonomi ed equiordinati), il legislatore abbia deciso di rimettere la quaestio iuris alla dottrina e alla giurisprudenza. Una parte della dottrina ha utilizzato l’omesso rinvio alla norma sul recesso quale presupposto a partire dal quale argomentare la tesi sulla “intangibilità unilaterale dei rapporti giuridici consensuali derivanti dalla stipulazione di un accordo tra due o più P.P. A.A. Secondo questa impostazione, il mancato richiamo, da parte dell’art. 15, della disposizione del comma 4 dell’art. 11, rappresenterebbe una indicazione normativa volta a porre in essere un “divieto implicito di recesso” per sopraggiunte ragioni di interesse pubblico. Altra dottrina, seppur minoritaria, ha interpretato questa “circostanza” normativa come disposizione implicita volta ad escludere non la sussistenza in capo alla P.A. di un potere pubblicistico di recesso, bensì l’indennizzabilità degli eventuali pregiudizi economici patiti dalle P.P. A.A. che si sono trovate a subire l’esercizio in concreto di questo potere.

Illustrate le teorie avvicendatesi in materia, è d’uopo tener presente che la disposizione dell’art. 11, co. 4, legge n. 241/90, al pari della revoca, abbia una connotazione propriamente pubblicistica, evidenziando come il recesso unilaterale dagli accordi amministrativi si ponga in un rapporto di species a genus rispetto al potere amministrativo di revoca. Dunque, si è sostenuto che il recesso unilaterale trovi la sua ratio nell’esigenza di garantire la stabile sussistenza del nesso teleologico tra esercizio del pubblico potere e perseguimento dell’interesse pubblico. Pare, quindi, opportuno affermare che il fondamento giuridico dell’istituto del recesso de quo risieda (come per la revoca) nel tratto più tipico e innato del potere amministrativo: la sua inesauribilità.

E se così è, allora, non sembra residuino dubbi circa la natura della disposizione del co. 4 dell’art. 11: non è una norma attributiva di un potere, trovando la propria fonte nei principi generali del diritto amministrativo. Peraltro, la più accorta dottrina ha anche posto l’accento su altro dato inconfutabile: la giurisprudenza amministrativa ha da sempre riconosciuto alla P.A. il potere di recedere unilateralmente da un accordo di diritto pubblico stipulato con un privato – per sopravvenute esigenze di diritto pubblico – anche aldilà dei casi previsti ex lege e dalle clausole convenzionali. Ciò detto, quindi, la finalità della norma contenuta nel comma 4 dell’art. 11 è limitare, in funzione di garanzia dei privati, il potere amministrativo di rimozione unilaterale degli effetti del consenso prestato dalla P.A. in sede di stipulazione degli accordi. Detto potere viene plasmato dalla norma de qua  in senso restrittivo, essendone il suo esercizio da essa legato al sopravvenire di motivi di pubblico interesse e, come conseguenza, all’insorgere, in capo alla P.A. recedente, dell’obbligo di corrispondere un indennizzo in favore del soggetto privato che si sia trovato a subire il recesso. Sul punto deve anche osservarsi che, seppur il legislatore del 1990 avesse omesso di contemplare espressamente il potere di recesso in capo alla P.A., questo stesso potere avrebbe in ogni caso cittadinanza nella sua configurazione ordinaria, quale esplicazione del generale principio di autotutela amministrativa. Il legislatore, inoltre, attraverso l’introduzione nella legge n. 241/90 del Capo IV bis ha conferito copertura legislativa generalizzata al potere di revoca della P.A., provvedendo a disciplinare espressamente non solo i presupposti di un suo legittimo esercizio, bensì anche gli effetti patrimoniali ad esso consequenziali. L’art. 21 –quinquies ha riconosciuto in via generale un nesso di consequenzialità tra l’attivazione del potere di revoca di precedenti determinazioni amministrative e l’insorgenza, in capo alle P.P. A.A. agenti, dell’obbligo di liquidare un indennizzo volto a compensare le eventuali situazioni di pregiudizio economico verificatesi in danno dei soggetti direttamente interessati dal provvedimento amministrativo di secondo grado. Detto riconoscimento, a ben vedere, ha delle immediate ripercussioni sul tema oggetto di traccia, perché elimina dallo scenario dottrinale, contraddicendola expressis verbis, la tesi della “non indenniazzabilità” delle conseguenze patrimoniali negative subite dalla P.A. a seguito dello scioglimento unilaterale di un accordo stipulato con altro soggetto pubblico che decida, sussistendone i presupposti, di svincolarsi dall’assetto concordato degli interessi. Stando, infatti, l’evidenziata riconducibilità del potere di cc.dd. recesso dall’accordo entro l’ambito dell’autotutela amministrativa, nonché la sostanziale equivalenza tra questo potere e quello di revoca, non vi è ragione per cui non si possa ritenere applicabile anche alla figura degli accordi orizzontali la regula iuris di cui all’art. 21 –quinquies. Da ciò discenderebbe l’obbligo, posto in capo alla P.A. recedente, di ristorare le pregiudizievoli conseguenze economiche verificatesi nella sfera patrimoniale delle P.P. A.A. che hanno subito lo scioglimento unilaterale del rapporto giuridico in precedenza consensualmente instaurato. Ora, facendo un passo indietro nell’analisi, la ratio posta alla base della previsione del co. 4 dell’art. 11 legge n. 241/90 si sostanzia nella necessità di mantenere un margine di recesso a disposizione della P.A. parte dell’accordo, in considerazione della rilevanza degli interessi pubblici facenti capo alla stessa, in modo tale che il soggetto pubblico non possa essere del tutto condizionato dagli interessi altrui. Come si evince dalla discussione giurisprudenziale, tende a prevalere la teoria pubblicistica fondata sul principio di inesauribilità del potere amministrativo. L’indennizzo non rappresenta un corrispettivo economico in previsione dell’esercizio del diritto di recesso, ma piuttosto un ristoro a carattere reintegrativo, per limitare il pregiudizio sùbito dal privato, entro limiti accettabili dalla P.A. Secondo poi una teoria mediana, ammettendo la commistione tra aspetti pubblici e aspetti privati, il potere di recesso unilaterale ex art. 11 deve essere considerato un istituto a sé stante. Secondo questo orientamento, il recesso non può agevolmente essere ricondotto tout court né all’ambito del diritto civile (perché la disciplina civilistica lì limita il recesso ai soli motivi di interesse pubblico mentre l’art. 1373 c.c. considera il recesso come una facoltà attribuita a una delle parti) né allo schema dell’autotutela, perché l’oggetto della revoca è un provvedimento unilaterale, mentre il recesso è una fattispecie bilaterale. Utilizzando questo stesso ragionamento ma nella prospettiva prevista dall’art. 15 legge n. 241/90 e con un occhio rivolto anche alla previsione dell’art. 34 D.Lgs. n. 267/00, che prevede una forma di accordo particolare concernente la programmazione di determinate iniziative, è possibile affermare che la caratteristica principale sia un’autolimitazione a monte rispetto alla successiva attività amministrativa di esecuzione dell’accordo (fonte di regole che, pur essendo il frutto di una sequenza procedimentale, possiede come elemento caratterizzante quello del consenso). Dunque, in riferimento alla mancata menzione nell’art. 15 della previsione del co. 4 dell’art.11 legge n. 241/90, se la dottrina ha variamente interpretato e risolto il dubbio ora premendo sui principi generale dell’azione amministrativa ora rifacendosi al carattere civilistico della previsione (mutuo dissenso o ricorso al giudice per vizi d’illegittimità); la giurisprudenza nel 2010 ha posto il primo punto fermo. Si mette in evidenza che nel caso in cui il Legislatore ha previsto un accordo di programma, l’attribuzione ad una delle parti pubbliche di un ruolo preminente è del tutto incompatibile con il regime dell’intesa, caratterizzata dalla prioritaria codeterminazione dell’atto. Pertanto, il superamento di eventuali situazioni di stallo deve essere realizzato attraverso la previsione di idonee procedure perché possano aver luogo reiterate trattative volte a superare le divergenze che ostacolano il raggiungimento di un accordo. Sulla base di queste argomentazioni si è poi stratificata la giurisprudenza successiva, affermando nel 2014 che la previsione dell’art. 11, co. 4 è confermativa della regola generale in quanto il potere di recedere dagli accordi amministrativi non rappresenterebbe altro se non la particolare configurazione che la potestà di revoca assume quando il potere amministrativo è stato esercitato mediante un accordo iniziale anziché in forma unilaterale.

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