LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO NEI REATI DI BANCAROTTA PREFALLIMENTARI

 

LA DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO NEI REATI DI BANCAROTTA PREFALLIMENTARI

Pubblicato il 15/04/2015 autore Silvia Grasselli

Nell’ambito della disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali, contenuta nel regio decreto 267 del 1942, il legislatore ha attribuito rilievo penale ad una serie di condotte che possono essere tenute dal fallito o dal altri soggetti coinvolti nella gestione dell’impresa prima, durante o dopo la dichiarazione di fallimento.

Dal punto di vista ricostruttivo, riveste particolare importanza teorica il rapporto intercorrente fra i fatti di bancarotta posti in essere anteriormente all’accertamento dello stato di insolvenza (cosiddetta bancarotta prefallimentare) e la successiva sentenza dichiarativa di fallimento.

Per individuare i termini del problema, occorre premettere che il concetto di bancarotta, utilizzato dal legislatore negli artt. 216, 217 e 223 della legge fallimentare, può essere compreso solo avendo riguardo alla distinzione (descrittiva) fra bancarotta fraudolenta e bancarotta semplice. Nella bancarotta fraudolenta rientrano, infatti, le ipotesi di condotte distrattive e/o di occultamento di beni (cosiddetta bancarotta materiale), la fraudolenta tenuta dei registri contabili (bancarotta documentale) nonché le condotte in danno alla par condicio creditorum (cosiddetta bancarotta preferenziale). La bancarotta semplice, invece, è integrata da una serie di condotte di minore gravità (spese eccessive, operazioni di gravi imprudenza, aggravamento del dissesto, mancata tenuta dei libri contabili), puntualmente elencate nell’art. 217.

Tali condotte, ove poste in essere dall’imprenditore, sono punite se questi è dichiarato fallito. Se, invece, i fatti sono ascrivibili a amministratori, direttori generali, sindaci o liquidatori, si applica l’art. 223 legge fallimentare, il quale, come si chiarirà nel proseguo, richiede, talora, un quid pluris ai fini dell’irrogazione della sanzione penale.

In entrambi i casi, tuttavia, la sussistenza della sentenza dichiarativa di fallimento assurge a condicio sine qua non del rilievo penale del fatto. Ciò ha indotto, pertanto, dottrina e giurisprudenza a domandarsi quale sia, in primis, la ratio puniendi sottesa agli illeciti e, in secondo luogo, quale sia il corretto inquadramento giuridico dell’elemento suddetto nella struttura dei reati.

In realtà, in passato si riteneva che i reati fallimentari fossero posti a presidio dell’economia e del mercato: il legislatore sanzionava, infatti, quelle condotte che, provocando l’insolvenza e/o il dissesto di un’azienda, attentassero alla tenuta complessiva del sistema economico, menomando la fiducia degli acquirenti e dei creditori.

Tale inquadramento era del resto coerente con la cosiddetta dimensione pubblicistica del fallimento: la procedura concorsuale poteva essere, infatti, avviata d’ufficio e comportava un forte stigma sociale per la persona del fallito, il quale non solo veniva privato della sua capacità imprenditoriale ma subiva anche forti limitazioni alle libertà personali (si pensi alla libertà di movimento o alla segretezza della corrispondenza). Si riteneva, pertanto, congruo che, poiché in ambito civilistico si sanzionava il fallimento in sé, in ambito penalistico si potesse punire chi, con specifici atti, aveva provocato o concorso a provocare la situazione suddetta.

La coerenza di tale ricostruzione è stata, tuttavia, successivamente messa in discussione dalla dottrina civilistica, la quale ha posto in luce come, anche per effetto di successive riforme, la dimensione pubblicistica del fallimento sia in larga parte venuta meno. La procedura fallimentare, infatti, risponde anzitutto all’interesse dei creditori, i quali non solo sono legittimati a chiedere la dichiarazione di fallimento ma hanno poteri gestori relativi allo svolgersi della crisi, dialogando con la curatela fallimentare sia per quanto riguarda la soddisfazione delle proprie pretese sia per quanto concerne la prosecuzione dell’attività imprenditoriale.

Esistono, inoltre, una pluralità di procedure concorsuali e di istituti (si pensi all’esdebitazione o al concordato preventivo) funzionali proprio a evitare le conseguenze particolarmente gravose del fallimento e c’è una forte attenuazione delle conseguenze invalidanti della dichiarazione di fallimento sulla persona del fallito.

Ancorché, cioè, non venga del tutto meno l’interesse statuale al controllo dell’insolvenza e dello status decotionis, il fallimento non è più considerato un fatto in sé offensivo, potendo lo stesso dipendere anche da circostanze congiunturali sfavorevoli solo in parte ascrivibili alla condotta dell’imprenditore.

Tale nuova visione ha un’indubbia ricaduta penalistica. Si ritiene, infatti, doveroso che il legislatore punisca solo condotte aventi un disvalore penale intrinseco, non consistenti cioè in una mera mala gestio ma significative di un’intrinseca volontà di danneggiare i creditori o la propria impresa per perseguire interessi diversi e estranei alla logica imprenditoriale.

Una simile carica di disvalore, indubbiamente presente nella bancarotta fraudolenta documentale e materiale, si presenta, invece, in termini più sfumati nei casi di bancarotta preferenziale e soprattutto nella bancarotta semplice. In siffatte ipotesi, vi è il rischio che la pena si correli a mere imprudenze dell’imprenditore o a errori dello stesso nelle scelta delle operazioni da compiere e che si ricada in una responsabilità da posizione con conseguente volatilizzazione dell’elemento soggettivo.

Come la migliore dottrina ha rilevato, se i fatti di bancarotta finiscono per essere ricondotti a illeciti di mera trasgressione legislativa a causa del successivo fallimento, l’imprenditore rischia di subire la pena a prescindere dall’accertamento di un’effettiva imputabilità in senso causale e soggettivo del fatto nonché da una rimproverabilità a titolo di dolo della violazione perpetrata, con indubbio scivolamento verso forme di responsabilità oggettiva occulta.

In tale ottica, assume rilievo proprio la valorizzazione della natura giuridica della dichiarazione di fallimento.

La migliore dottrina, infatti, ha da tempo evidenziato come essa sia stata concepita dal legislatore in termini di condizione obiettiva di punibilità, sia per la formula usata sia per ragioni di tipo sostanziale e processuale.

L’art. 44 del codice penale, infatti, nel riferirsi alle condizioni obiettive di punibilità in generale, stabilisce che se la legge richiede il verificarsi di una condizione, il colpevole risponde del reato anche se l’evento da cui dipende la condizione non è da lui voluto.

Nel caso della dichiarazione di fallimento, la formula “se dichiarato fallito” degli artt. 216 e 217 l.f. sembra richiamare proprio l’esigenza che l’evento suddetto sia accertato dal giudice solo nella sua esistenza, senza gravare pertanto l’accusa dell’onere di dimostrare se l’imprenditore avesse preveduto e voluto tale esito. Ciò sia in ragione del fatto che la prova dei processi psicologici è particolarmente difficoltosa sia in ragione del fatto che il fallimento non dipende sempre e solo dalla condotta del fallito, essendo spesso la scelta sull’apertura e chiusura della procedura fallimentare rimessa ai creditori.

Si è rilevato, del resto, come tale logica possa conciliarsi con la nuova visione del fallimento: da un lato perché la pena è comminata solo quando il fatto offende effettivamente i creditori, dall’altro perché il legislatore non interferisce con la libertà di iniziativa economica privata del singolo, quanto meno finché non vi è un chiaro sentore che essa si è svolta in danno degli altri consociati e quindi dell’utilità sociale, come stabilito dall’art. 41 Cost..

In tal modo, si raggiunge altresì una finalità pratica non trascurabile: il processo penale, infatti, viene a incardinarsi solo quando i fatti di bancarotta sono già emersi per effetto delle verifiche sui libri contabili e sui beni dell’impresa ad opera del curatore fallimentare.

L’inquadramento della dichiarazione di fallimento nelle condizioni obiettive di punibilità, pur avendo indubbia coerenza logica, pone problemi di compatibilità dei reati di bancarotta prefallimenare coi principi di offensività e colpevolezza.

Secondo la dottrina tradizionale, infatti, la condizione obiettiva di punibilità si pone al di fuori della struttura del reato: sia che si accolga la teoria bipartita sia che si accolga la teoria tripartita, infatti, il reato si considera già perfetto anche quando la condizione (evento ulteriore) non si verifica.

Di qui, il fatto che accogliendo tale inquadramento, si dovrebbe necessariamente dire che i fatti di bancarotta, anche preferenziale o semplice, sono reato a prescindere dall’evento ulteriore del fallimento, con evidenti criticità sotto il profilo dell’offensività. È evidente, infatti, soprattutto le violazioni di minor rilievo, pur potendo essere stigmatizzate sul piano morale, non appaiano, alla luce della coscienza sociale, idonei a integrare effettivamente un illecito penalmente rilevante quando venga a mancare un effettivo dissesto dell’impresa.

Una simile considerazione è stata, però, superata o ricorrendo ad argomenti teorici o con valutazioni di taglio eminentemente pratico.

Qualcuno ha proposto di aderire alla teoria (assolutamente minoritaria ma autorevole) quadripartita del reato: in tale ottica, non vi potrebbe essere reato se non in presenza di un fatto tipico, antigiuridico, colpevole e punibile. La bancarotta sarebbe, dunque, illecito penalmente rilevante solo ove ricorra la dichiarazione di fallimento, con la conseguenza che non si porrebbe alcun problema in termini di necessaria offensività del fatto commesso.

Altri hanno, invece, rilevato lo scarso valore pratico dell’obiezione: la condizione obiettiva di punibilità, infatti, anche se esterna al reato, realizzerebbe pur sempre una restrizione dell’area del punibile, in tal modo consentendo un rispetto effettivo del principio del nullum crimen sine iniuria.

Molto più interessanti sono, invece, le critiche mosse alla ricostruzione sotto il profilo del rispetto del principio di colpevolezza. Nella logica dell’art. 44 c.p., infatti, la condizione obiettiva di punibilità dovrebbe essere imputata sempre oggettivamente all’agente, anche quando particolarmente significativa sul piano dell’offesa al bene giuridico protetto .

La dottrina tradizionale rileva, in realtà, che all’interno delle condizioni obiettive di punibilità debbono essere distinte quelle estrinseche da quelle intrinseche: mentre quelle estrinseche consistono in eventi privi di qualsivoglia collegamento col fatto commesso (si pensi alla presenza sul territorio dello stato ex art.9 c.p.), quelle intrinseche rappresentano un aggravamento della lesione o messa in pericolo al bene giuridico tutelato dalla norma.

Proprio con riguardo a queste ultime, la stessa Corte Costituzionale, nella sentenza 1085/1988, ha rilevato come le stesse presentino una dubbia compatibilità con il principio di colpevolezza:  l’elemento psicologico, infatti, deve riscontrarsi non solo con riguardo agli elementi significativi del fatto (come affermato nella sentenza 364/1988) ma con riguardo a tutti gli elementi che concorrono a determinarne il disvalore penale e quindi anche riguardo all’evento ulteriore che aggravi l’offesa recata.

Tale affermazione è particolarmente significativa per la dichiarazione di fallimento: se, infatti, essa è inquadrata nelle condizioni di punibilità, essa non può che essere una condizione di punibilità intrinseca e, pertanto, dovrebbe essere imputata quanto meno per colpa, in apparente contrasto con la regola di cui all’art. 44 c.p.

Parte della dottrina, per risolvere in linea generale il problema, ha rilevato che sarebbe praticabile un’interpretazione ortopedica dell’art. 44 c.p.: l’affermazione secondo cui l’evento condizionante sarebbe imputabile anche se non voluto dovrebbe leggersi nel senso che non sia richiesto l’elemento volontaristico del dolo ma dovrebbe quanto meno verificarsi, in caso di condizioni di punibilità intrinseche, la sussistenza della colpa e cioè la prevedibilità per l’agente del verificarsi della condizione medesima.

Nel caso della bancarotta prefallimentare, pertanto, si dovrebbe verificare la possibilità per l’agente di prevedere che, dalle condotte tenute, potessero derivare danni al patrimonio sociale e alle ragioni creditorie tali da condurre all’apertura della procedura concorsuale.

Invero, una simile impostazione dottrinale non è mai stata oggetto di accoglimento ad opera della giurisprudenza, la quale, fin dal finire degli anni ’50, ha preferito inquadrare la sentenza dichiarativa di fallimento negli elementi costitutivi del fatto di reato, senza mai, tuttavia, precisare congruamente la sua collocazione.

Con riguardo ai delitti contestuali o successivi al fallimento, infatti, molte sentenze hanno affermato che la dichiarazione suddetta costituirebbe mero presupposto del reato e, pertanto, dovrebbe essere oggetto di mera rappresentazione da parte dell’agente; con riferimento, invece, ai reati prefallimentari, si è ritenuto di non poter inquadrare la sentenza dichiarativa di fallimento né nell’alveo della condotta né nell’evento. Nella maggior parte dei casi, pertanto, il giudice si è limitato a verificare l’esistenza della pronuncia giudiziale, senza accertare né il nesso causale fra le condotte di bancarotta e il successivo fallimento né la sussistenza di un coefficiente di partecipazione psichica in capo all’agente.

Per giustificare un simile orientamento, si è molto spesso rilevato che il giudice penale non può in alcun modo sindacare la valutazione effettuata dal giudice civile in ordine al verificarsi dei presupposti legittimanti la dichiarazione di fallimento.

Come rilevato, però, dalla migliore dottrina, l’accoglimento di tale impostazione, che pure colloca la dichiarazione di fallimento all’interno del fatto tipico, non è foriera di maggiori garanzie per il reo rispetto all’inquadramento quale condizione di punibilità (intrinseca).

È chiaro, infatti, che l’affermata natura di elemento costitutivo viene svuotata di fatto di contenuto nel momento in cui si preclude qualsiasi verifica circa il collegamento causale e psichico con la condotta posta in essere.

Proprio con l’intento di contrastare una simile ricostruzione teorica, una sentenza della Cassazione del 2012, in controtendenza con l’orientamento maggioritario, ha ritenuto che la dichiarazione di fallimento costituisca l’evento del reato di bancarotta fraudolenta o semplice.

Tale pronuncia osserva che la formula usata dal legislatore non è sul punto significativa, dovendo l’interprete ricostruire la voluntas legis attraverso una disamina più ampia dei reati fallimentari, anche alla luce del bene giuridico protetto.

Si osserva, pertanto, che il bene giuridico protetto, anche alla luce del principio di offensività, non potrebbe consistere in altro se non in un’effettiva offesa alle ragioni creditorie. In tale ottica, si valorizza, dunque, il parallelismo fra l’art. 216 l.f. e l’art. 223 l.f.: quest’ultima previsione, infatti, nel riferirsi alle condotte di soggetti diversi dall’imprenditore, fa riferimento, nel comma 2, all’aver cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il fallimento.

Si sostiene, dunque, che il reato di bancarotta è reato di danno e di evento e non può ritenersi integrato né in assenza del nesso condizionalistico fra condotta e evento né in mancanza di  rappresentazione e volizione da parte dell’agente circa la successiva decozione dell’impresa.

Invero, nonostante lo sforzo profuso dalla pronuncia nel tentativo di recuperare il valore della dichiarazione di fallimento anche alla luce dei principi generali del diritto penale, la dottrina e la giurisprudenza successiva si sono mostrate fortemente critiche verso tale ricostruzione.

Dal punto di vista teorico, infatti, si è evidenziato come la pronuncia snaturi i reati di bancarotta prefallimentare. Essi sono stati sempre considerati reati di condotta e di pericolo (astratto), in coerenza con la previsione legislativa.

Alla luce del principio di offensività, infatti, il giudice potrà sicuramente valorizzare in termini di maggiore concretezza le distrazioni, le falsità, le frodi e le condotte imprudenti per evitare che si sia puniti per fatti di scarso rilievo nell’ottica complessiva della gestione imprenditoriale ma non potrà mai richiedere in capo all’agente la specifica causazione dell’evento fallimento.

Un’interpretazione siffatta è, infatti, contraria alla lettera della legge: gli artt.  216 e 217 l.f. richiedono, infatti, la sola dichiarazione di fallimento non l’aver cagionato il fallimento, come fa l’art. 223 l.f. La differenza terminologia non è trascurabile in quanto evidenzia la necessità che solo in specifiche ipotesi il giudice operi una puntuale verifica circa la causazione dell’evento, cioè solo quando soggetti attivi siano i soggetti preposti all’amministrazione, al controllo o alla gestione dell’impresa.

Dal punto di vista pratico, si osserva, poi, che la decisione risulta fortemente modellata sulle peculiarità del caso posto all’attenzione del collegio. Si trattava, infatti, di fatti di distrazione posti in essere dalla  famiglia originariamente proprietaria di una società calcistica, molti anni prima della dichiarazione di fallimento: dopo i fatti suddetti, peraltro di modesta entità, si erano verificati molteplici cambi nella governance della società e solo in esito a lunghe vicende giudiziarie e societarie si era addivenuti al processo penale per bancarotta.

In tal caso, pertanto, risultava particolarmente evidente come mancasse quel doveroso collegamento (soggettivo e oggettivo) fra le condotte tenute all’epoca e la successiva dichiarazione di fallimento.

Tuttavia, affermare, per ciò solo, che la dichiarazione di fallimento rappresenti l’evento del reato, significa ragionare a contrario, partendo dal caso specifico per arrivare all’inquadramento generale dell’istituto.

In tale ottica, la dottrina ha dunque rilevato che, alla medesima soluzione, si sarebbe potuti pervenire anche ritenendo la dichiarazione di fallimento quale condizione di punibilità intrinseca. Per configurare, infatti, la punibilità, in ossequio ai principi di offensività e colpevolezza, si sarebbe dovuto comunque riscontrare un nesso fra l’evento ulteriore condizionante e il fatto di reato  nonché verificare la prevedibilità del fallimento in capo agli agenti, circostanze non ravvisabili nel caso de quo.

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