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LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE

 

LA VALIDITÀ DEL PRELIMINARE DI PRELIMINARE

Pubblicato il 26/02/2015 autore Silvia Grasselli

La questione della validità del preliminare di preliminare non può essere indagata se non muovendo dalla ricostruzione della funzione che l’ordinamento assegna al contratto preliminare.

Il contratto preliminare, infatti, è il contratto tipico con cui una parte (nel caso di preliminare unilaterale) o più parti (nel caso di preliminare bilaterale/plurilaterale) si obbligano a concludere un futuro contratto, cioè il cosiddetto contratto definitivo.

Nonostante l’importanza assunta dal contratto nell’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, il nostro ordinamento dedica all’istituto solamente tre disposizioni normative, l’art. 1351 c.c., l’art. 2932  c.c. e l’art. 2645 bis c.c., introdotto nel 1996. Tale scarsezza del dato normativo non deve, tuttavia, indurre in errore l’interprete: le norme suddette, infatti, pur collocate in ambiti diversi, consentono di individuare in maniera adeguata le peculiarità del contratto preliminare.

In particolare, la previsione della forma per relationem (art. 1351 c.c.), consente di evidenziare il collegamento genetico e unilaterale che sussiste fra contratto preliminare e contratto definitivo: il primo sorge, infatti, in funzione della stipulazione del secondo. Tradizionalmente, pertanto, si afferma che il contratto preliminare altro non è che un pactum de contraendo, cioè un accordo di contrarre.

L’art.2932 c.c. evidenzia, invece, l’efficacia meramente obbligatoria del contratto preliminare: l’inadempimento dell’ obbligo di addivenire alla successiva stipulazione è, infatti, suscettibile di esecuzione in forma specifica, con la conseguenza che la sentenza (costitutiva) del giudice tiene luogo del contratto non concluso. Come rilevato, tuttavia, dalla migliore dottrina un simile strumento di tutela è utile per il contraente che subisce l’inadempimento solo e soltanto quando l’effetto proprio del definitivo possa essere integralmente sostituito dalla sentenza giudiziale, il che avviene normalmente quando esso consiste in un dare (cioè nel trasferire la proprietà o altro diritto reale su di un bene). Laddove, infatti, il preliminare contenga l’obbligo di stipulare un contratto caratterizzato dal fare, la sentenza costitutiva appare inutile: in seguito ad essa, infatti, il contraente sarebbe nuovamente esposto all’inadempimento.

Una simile riflessione evidenzia l’importanza assunta dal preliminare cosiddetto immobiliare, cioè dal preliminare avente ad oggetto la conclusione di contratti traslativi su beni immobili: la trascrizione di tale negozio ex art. 2645 bis c.c. consente, infatti, di anticipare l’effetto di opponibilità ai terzi che deriverà, ex art. 2643 e 2644 c.c., dalla successiva trascrizione del definitivo.

Del resto, proprio nell’ambito del trasferimento di diritti su immobili, il contratto preliminare ha mostrato la sua ampia duttilità, venendo ad assumere, per volontà delle parti, contenuti ulteriori rispetto al mero obbligo di stipulare un successivo contratto. Come noto, infatti, dottrina e giurisprudenza hanno ammesso che il contratto preliminare possa essere ad effetti anticipati, cioè contenere obbligazioni ulteriori quali quelle di consegnare il bene o pagare il prezzo, da eseguirsi in tempi diversi rispetto all’obbligo di addivenire al definitivo.

Tale arricchimento del contenuto del contratto preliminare ha imposto una rivisitazione della tesi per cui esso sarebbe mero pactum de contraendo e ha consentito di valorizzare al massimo la libertà negoziale riconosciuta alle parti ex art. 1322 c.c.: anche nell’ambito del preliminare, le parti sono, infatti, libere di delineare l’assetto degli interessi nella maniera che ritengano più consona, fermo il limite della liceità e della meritevolezza.

Ciò ha condotto anche ad un ripensamento anche dei rapporti contratto preliminare/contratto definitivo: da un lato, infatti, si è ritenuto che, ferma la continuità fra i due negozi, sia possibile (per le parti e per il giudice adito ex art. 2932 c.c.) introdurre nel definitivo delle modificazioni rispetto all’assetto di interessi delineato nel preliminare onde adeguarlo al mutato contesto (si pensi all’adeguamento del prezzo in ragione dei riscontrati vizi dell’immobile); dall’altro lato si è ammesso che, in presenza di una volontà univoca, alcune obbligazioni assunte nel preliminare, ancorché non riprodotte testualmente nel definitivo, si conservino.

Simili considerazioni consentono di evidenziare che il contratto preliminare è essenzialmente un negozio preparatorio, al pari dell’opzione, della prelazione convenzionale e del contratto normativo.

Così come, infatti, le parti sono libere di condurre trattative, di fissare per iscritto lo stadio a cui essere sono pervenute (è la cosiddetta puntazione) e in generale di incidere sul contenuto del contratto già predisposto (si pensi alle clausole aggiunte ex art. 1342 c.c.), così esse hanno facoltà di cristallizzare in un negozio i vincoli (più o meno estesi) che intendono assumere con riguardo ad un futuro contratto.

In tal senso, appare di tutt’evidenza che il contratto preliminare è mosso dalla causa obligandi, cioè dall’intento di vincolarsi a stipulare un successivo contratto, già definito nei suoi elementi essenziali. Per questo, autorevole dottrina configura il successivo contratto definitivo come atto dovuto, posto in essere causa solvendi (cioè in ragione dell’obbligazione precedentemente assunta col preliminare), indicandolo quale esempio di adempimento per il tramite di atto negoziale, cioè di cosiddetto pagamento traslativo.

Anche non volendo aderire a tale tesi estrema e volendo conservare una certa autonomia del contratto definitivo (esso manifesta pur sempre la volontà di adempiere spontaneamente, talora adeguando il contenuto predisposto alle sopravvenienze), è chiaro che la causa concreta del preliminare è quella di assumere un vincolo forte circa la conclusione del successivo contratto.

Questo consente di differenziare il preliminare da altre figure. Mentre nelle trattative e nella puntazione le parti non si vincolano ad un futuro contratto ma debbono comportarsi secondo buona fede e quest’obbligo si fa più pervasivo man mano che cresce l’altrui affidamento, nel preliminare l’obbligo di stipulare diviene eseguibile in forma specifica.

A differenza di quanto avviene nel contratto normativo ove le parti delineano i contenuti di eventuali futuri contratti e diversamente da quanto previsto nella prelazione convenzionale, ove vi è libertà di decidere se contrarre, fermo l’obbligo di preferire un soggetto (il prelazionario) ad altri, nel preliminare il vincolo riguarda sia l’an sia il quid sia il quomodo.

L’unico negozio preparatorio atto a connotare un vincolo più pervasivo rispetto a quello assunto col preliminare è, in realtà, l’opzione, disciplinata dall’art. 1331 c.c.: in questo caso, infatti, una parte rimane vincolata alla propria dichiarazione e l’altra (l’opzionario) ha facoltà di accettarla o meno. Secondo la dottrina, infatti,  in questo caso si riscontra un vero e proprio diritto potestativo dell’opzionario cui corrisponde la soggezione del promittente. Ciò significa che l’opzionario, nel momento in cui decide di contrarre a quelle condizioni, può produrre da sé l’effetto, con un atto unilaterale di esercizio dell’opzione, senza che sia necessaria una nuova manifestazione di volontà delle parti o una sentenza costitutiva, come avviene invece nel preliminare.

In base alla natura del contratto preliminare e in ragione dell’esistenza di una pluralità di negozi preparatori, caratterizzati da un diverso atteggiarsi dei vincoli assunti dalle parti, è possibile dare una risposta al quesito sulla validità del preliminare di preliminare.

Quando ci si riferisce, infatti, al preliminare di preliminare si suole fare riferimento al negozio con cui le parti si obbligano a concludere un preliminare per la stipula di un successivo definitivo.

Tale figura, non essendo oggetto di espressa previsione normativa, ha indotto gli interpreti a domandarsi se essa sia riconducibile all’art. 1322 c.c. e soprattutto se, attraverso la stessa, le parti attuino un interesse meritevole di protezione giuridica.

È chiaro, infatti, che l’assunzione della stessa obbligazione di obbligarsi pare allontanare la contrattazione dalle normali regole per cui o ci si obbliga (a fare, a dare, a prestare il consenso) o si pone direttamente in essere l’effetto (il dare ad esempio). L’obbligarsi ad obbligarsi sembra, infatti, mascherare una scarsa serietà dell’impegno assunto.

Questa considerazione di taglio pratico è alla base dello generico sfavore con cui dottrina e giurisprudenza hanno sempre visto il cosiddetto preliminare di preliminare.

Tuttavia, volendo analizzare funditus la questione, è di particolare interesse la tesi dottrinale secondo cui, proprio dalle regole codicistiche, si evincerebbe l’idea per cui le parti possono ricorrere anche ad una pluralità di negozi preparatori, in sequenza fra loro, ma solo a condizione che vi sia un rafforzamento del vincolo assunto.

L’art. 1372 c.c., infatti, laddove si riferisce alla forza di legge fra le parti del contratto, impone di ritenere che il comportamento dei futuri contraenti dalle trattative fino all’assetto definitivo degli interessi sia improntato ad una progressiva riduzione dell’area della libertà contrattuale fino a zero, cioè fino al vincolo vero e proprio. Di qui la regola per cui il contratto, una volta stipulato, possa essere sciolto solo per mutuo dissenso o nei casi previsti dalla legge.

Applicando quest’ottica ai negozi preparatori, tale dottrina ammette che le parti abbiano un interesse ad assumere vincoli progressivi, man mano più incisivi. Così opinando si rileva, dunque, che la meritevolezza del succedersi di negozi preparatori dovrebbe essere valutata di caso in caso, avendo riguardo non solo agli effetti tipici del negozio ma anche alla posizione (reciproca) delle parti.

Seguendo tale criterio si è ritenuto, pertanto, che dopo un contratto di prelazione sia possibile ricorrere ad un contratto preliminare e infine addivenire al definitivo e che, analogamente, in seguito ad un contratto preliminare unilaterale sia possibile concludere un contratto di opzione. La ratio si rintraccia proprio nel rafforzamento del vincolo: mentre, infatti, nella prelazione non vi è obbligo a contrarre, tale obbligo è assunto col preliminare e  attuato col definitivo; ugualmente, mentre col preliminare un soggetto si obbliga, con la successiva opzione esso si pone in posizione di vera e propria soggezione.

A questo punto è agevole risolvere la questione del preliminare del preliminare: è indubbio, infatti, che in questo caso non si realizza alcun rafforzamento del vincolo. L’operazione, anzi, guardata nel suo complesso, tende ad attenuare la stessa volontà di obbligarsi che sarebbe propria del preliminare.

Quest’affermazione, invero, merita una precisazione: essa, infatti, conserva piena validità solo e soltanto nel momento in cui ci si intenda riferire al contratto preliminare bilaterale di contratto preliminare, cioè quando entrambe le parti si obblighino a concludere fra loro un successivo preliminare. Come ha osservato, infatti, attenta dottrina, laddove il primo preliminare sia unilaterale e il secondo, che ci si obbliga a concludere, bilaterale non sarebbe possibile escludere tout court un rafforzamento del vincolo. Inizialmente, infatti, è una sola parte ad obbligarsi, in seguito, invece, le parti si obbligano entrambe.

Invero, la giurisprudenza, rifuggendo da tali disquisizioni teoriche, ha negato qualsiasi validità al contratto preliminare di preliminare, ricorrendo ad altre argomentazioni.

Muovendo, infatti, dagli stessi requisiti necessari affinché vi possa essere un negozio e dall’art. 1322 c.c., le stesse Sezioni Unite, con sentenza risalente, cui si è conformata la giurisprudenza successiva, hanno affermato la nullità del preliminare di preliminare.

Infatti, nel nostro ordinamento l’utilizzo di uno schema negoziale (tipico o atipico) deve rispondere ad una funzione concreta, funzione che viene a mancare se col negozio non si produce alcun effetto rispetto all’assetto preesistente. L’obbligarsi di obbligarsi a concludere un contratto sarebbe di fatto un non obbligarsi. Se le parti volessero, infatti, effettivamente obbligarsi a concludere un contratto, lo farebbero col preliminare; ricorrere al preliminare di preliminare significa non manifestare alcuna volontà presente di volersi obbligare, cioè non obbligarsi.

Una siffatta impostazione valorizza due aspetti: da un lato, la causa in concreto del contratto, dall’altro, la meritevolezza degli interessi sottesa all’atipicità del negozio.

Sotto il primo profilo, infatti, la giurisprudenza è oramai concorde nel ritenere che sia privo di causa (intesa in concreto) quel contratto che non corrisponde ad alcuna funzione economico individuale per le parti. Nella pronuncia più interessante in materia, infatti, la Cassazione ha ritenuto che fosse nullo per mancanza della causa quel contratto di consulenza professionale stipulato fra un soggetto e una società in virtù del fatto che tutti i compiti affidati al consulente erano già  ricompresi nell’essere egli l’ amministratore delegato della società stessa.

A fortiori, la nullità è imposta quando il contratto atipico cui le parti pervengono non sia idoneo a realizzare interessi meritevoli di tutela: con tale nozione, infatti, si suole fare riferimento non solo al contratto futile (cioè caratterizzato dall’assenza di utilità sociale) ma anche a quel contratto che non appresti uno schema giuridico tale da essere suscettibile di adozione da parte di altri contraenti per realizzare un risultato che non sarebbe raggiungibile attraverso contratti tipici.

In questo caso, si osserva, il preliminare di preliminare non aggiunge alcunché alle normali dinamiche dalla contrattazione.

Invero, tali considerazioni sono state recentemente sottoposte ad un vaglio critico ad opera di una sezione della Corte di Cassazione, la quale, muovendo dalla disamina di un caso concreto di preliminare di preliminare, ha rimesso la questione al primo presidente per provocare una nuova pronuncia delle Sezioni Unite.

Nel caso esaminato, due coniugi e  l’impresa costruttrice si obbligavano a stipulare un preliminare di compravendita di immobile laddove il bene fosse stato integralmente liberato dall’ipoteca di cui era gravato. In esito alla cancellazione dell’ipoteca, tuttavia, i coniugi si rifiutavano di stipulare sia il preliminare sia il definitivo e insorgeva la controversia, risolta con esiti diversi in primo e secondo grado proprio in ragione della validità o meno del contratto stipulato.

In sede di legittimità si è affermato, invero, che la tradizionale nullità del preliminare di preliminare possa essere superata in tutti i casi in cui sia comunque possibile riconoscere un’utilità pratica al negozio concluso: si osserva, infatti, che nel caso concreto il negozio ha una sua funzione, cioè quella di vincolare i coniugi a riprodurre quel contratto (preliminare di vendita) in un momento successivo, cioè quando sia venuta meno l’ipoteca sul bene. I contraenti, pertanto, avrebbero assunto non tanto l’obbligo di addivenire al preliminare quanto quello di concludere il definitivo, dopo il passaggio intermedio di un ulteriore preliminare (incondizionato).

Invero, questa opinione non pare pienamente convincente. In primis, perché una seria volontà di obbligarsi a concludere il definitivo si sarebbe potuta esprimere direttamente attraverso un preliminare di vendita condizionato alla cancellazione dell’ipoteca; secondariamente, perché nell’ordinanza la sezione pare confondere l’obbligo di obbligarsi a stipulare il definitivo con il mero obbligo di riproduzione del contenuto del preliminare in atto diverso e successivo.

Tale seconda considerazione è, in realtà, avvalorata dalle elaborazioni di illustre dottrina con riguardo all’ art. 2720 c.c., il quale ammette gli atti ricognitivi e le rinnovazioni delle dichiarazioni contenute in un precedente documento. Mentre la funzione della ricognizione è di tipo meramente probatorio (si pensi al caso dell’art. 969 c.c.), la rinnovazione postula che le parti, con una nuova manifestazione di volontà, vadano a colmare un deficit insito nell’atto originario (si pensi alla mancanza di una clausola contrattuale o ad un difetto di sottoscrizione). Su un piano distinto viene collocata poi la mera riproduzione di un atto, che altro non è se non la trasposizione del medesimo contenuto di un atto già stipulato in un documento diverso (ad esempio perché l’originale è stato smarrito) o in una forma diversa (da scrittura privata ad atto pubblico).

Muovendo da tali categorie, si ritiene che non sia possibile di per sé escludere che le parti con successivi atti vadano a realizzare talune funzioni ritenute meritevoli di protezione dall’ordinamento giuridico.

Tuttavia un conto è dire che atti siffatti possono avere una loro causa, un conto è desumere la meritevolezza dell’atto a monte dalla sua ricognizione, rinnovazione o riproduzione successiva.

Illustre dottrina ha, infatti, magistralmente osservato che la mera riproduzione di un atto non incide in concreto sul contenuto della volontà originariamente manifestata né sugli effetti. Facendo riferimento proprio al compromesso immobiliare, cioè al contratto di alienazione dell’immobile stipulato per iscritto fra le parti con l’ obbligo di riprodurlo in una scrittura privata autenticata o in un atto pubblico, al fine di poterlo trascrivere, si è osservato che esso già realizza l’effetto traslativo.

È, pertanto, fuorviante trarre dall’esistenza di un obbligo di riproduzione  la validità del preliminare di preliminare: o esso cioè vale ex se, perché ritenuto munito di causa e meritevole di tutela (anche a prescindere da un’ottica di rafforzamento dei vincoli obbligatori) o esso non assume rilievo nell’ordinamento (a prescindere dall’esistenza di qualsivoglia obbligo di riproduzione).

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