TEMA SVOLTO DI DIRITTO AMMINISTRATIVO SULL’L’ABUSO DEL POTERE REGOLAMENTARE DA PARTE DELLA P.A

LE FORME DI TUTELA ESPERIBILI AVVERSO L’ABUSO DEL POTERE REGOLAMENTARE DA PARTE DELLA P.A., CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AI REGOLAMENTI ADOTTATI IN VIOLAZIONE DEI PRINCIPI DI RIPARTO DELLE COMPETENZE TRA LO STATO E GLI ENTI LOCALI

di Giacomina Carla Squitieri

All’interno del nostro sistema Costituzionale, l’ambito delle fonti primarie è improntato a criteri piuttosto rigidi di tipicità e numero chiuso. Ciò non vale invece, per le fonti secondarie che rappresentano una categoria molto eterogenea anche se non svincolata dal rispetto di principi quali, quello di legalità e riserva di legge.

Tradizionalmente il regolamento viene definito come un atto formalmente amministrativo e sostanzialmente normativo, per cui anche la disciplina ad esso applicabile presenta un aspetto bipolare: ad esempio, si segue il procedimento amministrativo per la sua adozione, può presentare i vizi previsti per gli atti amministrativi, ma deve essere pubblicato, decorre il periodo della vacatio legis ed è necessaria l’adozione di un atto con caratteristiche peculiari per la sua esecuzione. Data la natura normativa del regolamento, poiché atto generale, astratto ed innovativo dell’ordinamento giuridico, viene pacificamente fatto rientrare nella categoria di fonte secondaria e quindi, subordinata alla legge, ma non è stato sempre così. Verso la fine dell’altro secolo infatti, con un sistema costituzionale flessibile, era prevista un’equiordinazione tra il Parlamento, titolare del potere legislativo, ed il Governo-Corona, titolare della podestà regolamentare. Tale ripartizione di competenze era dovuta alla necessità di garantire un equilibrio tra forze politiche popolari ed aristocratiche. Quando però, fu la classe borghese a prendere il sopravvento, questa sovvertì tale sistema imponendo il Parlamento, come rappresentante del popolo al Governo-Corona il quale deve necessariamente derivare la proprio legittimazione non più da se stesso, ma dalla legge quale atto espressione della volontà popolare.

Ecco perché fu emanata la legge n.100 del 1926. Sin da subito tale legge fu criticata perché troppo generica, nel senso che sostanzialmente attribuiva al Governo la potestà regolamentare in tutte quelle materia in cui già esso la esercitava prima della fine del primo ventennio del secolo scorso. Resta da dire che tale legge ebbe comunque il merito di individuare i soggetti investiti del potere regolamentare, cioè il Governo ed i singoli ministri, e le diverse categorie di regolamenti quali quelli esecutivi, indipendenti ed organizzativi. Il quadro così delineato fu messo a dura prova dal sopraggiungere della Costituzione del 1948 che stabilì numerose riserve di legge in materia prima costituenti oggetto del potere regolamentare di Governo, con ciò sollevando numerosi problemi a cui si è cercato di dare soluzione mediante l’emanazione della legge n. 400 del 1988, norma di riordino della Presidenza Del Consiglio Dei Ministri, la quale disciplina il potere regolamentare.

Da questo breve excursus storico si può facilmente evincere come sin dall’epoca prerepubblicana e pre-costituzionale si è sentita forte la necessità di mantenere una netta separazione tra i poteri dello Stato e soprattutto di prevedere degli strumenti volti a circoscrivere l’esercizio del potere regolamentare di Governo, per poterlo così controllare. In tal senso sono stati considerati il principio di legalità e quello di riserva di legge che in passato finivano con il coincidere, indicando semplicemente la necessità che il potere regolamentare dovesse essere esercitato solo nelle ipotesi in cui la legge delegava una data materia alla regolamentazione del Governo. Con il tempo il principio di legalità si è arricchito di non pochi aspetti, divenendo il principio cardine a cui i regolamenti sono sottoposti. E’ necessario distinguere il principio di legalità formale da quello sostanziale. Il primo, secondo cui il potere regolamentare deve essere attribuito mediante legge ed il secondo, in base al quale è quest’ultima che deve anche indirizzare gli organi deputati all’esercizio del potere regolamentare, stabilendo criteri e parametri utili a tal fine. In tal modo, il principio di legalità produce anche effetti unilaterali, per cui l’atto legislativo non si pone come mero atto autoritativo, e bilaterali, per cui è possibile per il consociato controllare che il potere venga esercitato nel rispetto delle direttive e dei limiti indicati. Quanto al rilievo di tale principio circa l’illegittimità dei regolamenti, non vi è uniformità in dottrina ed in giurisprudenza, si contrappongono infatti, due tesi: La prima, secondo cui esisterebbe solo il principio di riserva di legge perché è l’unico rinvenibile in articoli e quindi, solo questo può applicarsi ai regolamenti. Secondo la tesi opposto invece, il principio di legalità in tutte le sue forme è radicato nel nostro ordinamento. A ciò ci può facilmente obiettare che in tal modo non si riesce a spiegare come mai non vi è una norma specifica che preveda tale principio, né perché la legge n. 400/88 autorizza il Governo ad emanare un atto amministrativo al di fuori del principio di legalità nonché delle ipotesi di riserva di legge, quali i regolamenti indipendenti ex art. 17 della stessa legge.
Quanto alle forme di tutela esperibili contro l’abuso del potere regolamentare è rinvenibile, a livello costituzionale, la possibilità di un’impugnazione immediata o differita degli atti lesivi in virtù degli artt.24, 1° comma e 113 Cost.. Non può certo prendersi in considerazione in tal senso, il controllo cui i regolamenti sono sottoposti dalla Corte dei Conti, questo infatti, non ha finalità di tutela ma meramente contabili ed è volto alla registrazione dell’atto, la quale può anche essere ordinata con riserva dal Consiglio dei Ministri, quando vi sia un rifiuto della Corte.
Come già evidenziato, anche se non sempre, affinché il regolamento possa produrre degli effetti diretti alla generalità dei consociati, necessita di un atto di esecuzione e sarà solo a partire dall’adozione di quest’ultimo che colui che subisce una lesione della propria sfera giuridica soggettiva potrà impugnarlo insieme all’atto di esecuzione, mediante il sistema della doppia impugnativa. In dottrina questa ipotesi viene definita di regolamento volizione-preliminare, che si distingue dal regolamento volizione-azione che è direttamente produttivo di effetti lesivi per cui, non necessitando di un atto di esecuzione sarà impugnabile direttamente, nel termine di decadenza, dalla sua pubblicazione. Bisogna precisare che trattandosi di un atto ad efficacia generale, anche se impugnato da uno solo degli interessati, la sentenza del Giudice Amministrativo avrà portata generale e produrrà effetti ultrapartes e cioè, oltre i limiti soggettivi del giudicato eart.2909 del codice civile. Nelle ipotesi in cui l’atto non venga impugnato nei termini sorge il problema della possibile disapplicazione di tali atti da parte del Giudice Amministrativo: ciò ha prodotto una querellegiurisprudenziale di non poco conto e si è giunti a distinguere la sorte del regolamento in base al rapporto tra questo e l’atto di esecuzione. Si definisce infatti rapporto di simpatia, l’ipotesi in cui l’atto di esecuzione sia conforme al regolamento illegittimo ereditandone l’illegittimità: in tal caso il ricorso deve essere accolto perché entrambi gli altri sono contrari alla legge; Si definisce invece rapporto di antipatia, l’ipotesi in cui l’atto di esecuzione non sia conforme al regolamento illegittimo per cui non risulta tale: in questa eventualità il Giudice deve respingere il ricorso perché l’atto di esecuzione è conforme alla fonte sovraordinata. Sarà poi con una sentenza del Consiglio di Stato del 1992 che verrà risolto il problema. Il Consiglio Di Palazzo Spada infatti, afferma definitivamente la possibilità per il Giudice Amministrativo di disapplicare il regolamento illegittimo, facendo leva sul principio della gerarchia delle fonti e chiarendo che pur se l’atto non è stato impugnato nei termini resta comunque contra legem ed inoltre, precisa che nei casi in cui sussista un rapporto di simpatia tra il regolamento e l’atto esecutivo, la doppia impugnativa non è necessaria perché il T.A.R. verificherà in via incidentale il vizio del regolamento che in esso sia refluito e ciò non con la disapplicazione, ma mediante la tecnica definita dell’invalidazione. Quanto al Giudice Ordinario, in virtù degli artt. 4 e 5 della L.A.C., ha il potere di disapplicazione degli atti amministrativi e potrà quindi esercitarlo in un giudizio che ha ad oggetto non il regolamento illegittimo, ma un’altra controversia di cui però questo rappresenti un presupposto. Trattandosi di un atto definitivo inoltre, sarà sottoponibile a ricorso straordinario al Capo dello Stato e non sorgono particolari problemi circa l’ottenimento della sospensiva giurisdizionale purché si precisi che questa può riguardare l’atto di esecuzione e non il regolamento in sé considerato.
Può accadere che la Pubblica Amministrazione adotti dei regolamenti in violazione dei criteri di riparto delle competenze tra Stato ed Enti Locali. E’ chiaro che a tali atti si applica tutta la disciplina già analizzata, ma è necessario fare una breve premessa di natura storica oltre che delle piccole precisazioni.

Negli anni il nostro ordinamento statale ha subito un’ampia evoluzione poiché questo nasceva come monoclasse a regime assolutista, per cui tutti i poteri erano accentrati nelle mani dello Stato, ed è poi divenuto man mano, soprattutto a seguito dell’entrata in vigore della Costituzione, un ordinamento statale pluriclasse a regime democratico, per cui la Pubblica Amministrazione diviene uno strumento di realizzazione di interessi e bisogni della collettività. In tale ottica e con la nascita della Comunità Europea da cui deriviamo i principi di sussidiarietà e del decentramento, muterà completamente anche il rapporto tra lo Stato e gli Enti Locali. L’assetto odierno delle competenze è infatti, il risultato di una lenta evoluzione del decentramento istituzionale, inizialmente molto debole e poi notevolmente rinforzato, soprattutto a seguito dell’emanazione della legge di riforma del Titolo V della Costituzione n.3 del 2001. Tale legge ha finalmente introdotto a livello Costituzionale il principio di sussidiarietà sia orizzontale che verticale ed ha modificato il vecchio riparto delle competenze, tra lo Stato e gli Enti Locali, non solo ampliando la potestà legislativa esclusiva regionale, che riguarda non più materie esplicitamente indicate all’art.117 Cost. ma viene ricavata in via negativo-residuale secondo la formula “spetta alle regioni la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”, ma ha anche stabilito in virtù del principio del parallelismo delle funzioni, già rispettato dalla legge Bassanini 1 e 2, che la potestà regolamentare spetta allo Stato nelle materie di legislazione esclusiva, salvo delega alle Regioni. Spetta a quest’ultima in ogni altra materia ed ai Comuni, alle Province e alle Città Metropolitane in ordine alla  disciplina dell’organizzazione e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite. Per cui è chiaro che hanno potestà normativa secondaria solo lo Stato, le Regioni e le Province autonome.

Nel sistema così prospettato, bisogna chiedersi cosa accade nel momento in cui venga adottato un regolamento che viola le disposizioni dell’art. 117 Cost. e quindi, il riparto delle competenze. Sul punto non vi è uniformità in giurisprudenza: si contrappongono la tesi della nullità del regolamento per incompetenza assoluta e quella maggioritaria, dell’annullabilità per illegittimità. Anche in questo caso bisogna domandarsi se è applicabile la disciplina della disapplicazione espressamente stabilita solo per Giudice Ordinario dalla Legge sul Contenzioso Amministrativo ( L.A.C.). In virtù di quanto già precisato è pacifico che anche il Giudice Amministrativo possa disapplicare tali regolamenti ed a favore di tale conclusione, sono state fatte due osservazioni: in primo luogo, si tratta di un rimedio previsto già nei rapporti tra il diritto comunitario ed il diritto nazionale, in secondo luogo, permette l’attuazione di principi comunitari in base ai quali, i rimedi di tutela devono essere effettivi e non meramente formali, palesando come il giudizio amministrativo non possa più qualificarsi come un giudizio sull’atto ma sul rapporto. Per di più è stato precisato che ammettendo la disapplicazione non si eludono né le regole sulla decadenza né la certezza dei rapporti giuridici perché l’atto non viene meno, ma è solo disapplicato  in relazione al singolo caso che si prospetta davanti al Giudice, per cui non ha portata ed efficacia generale. E’ fatto salvo inoltre, anche il principio del contraddittorio perché è vero che il Giudice Amministrativo decide inaudita altera parte ma si ritiene applicabile la disciplina del 4° comma dell’art.183 del codice di procedura civile.

E’ d’obbligo fare un’ ultima precisazione: tradizionalmente e prevalentemente si ritiene che i regolamenti non possono costituire oggetto di un giudizio di costituzionalità, salvo nell’ipotesi in cui venga sollevato un conflitto di attribuzione tra lo Stato e le Regioni per violazione degli artt.117 e 118 della Costituzione, relativi alle competenze di entrambi e alla loro ripartizione. In tale ipotesi il Presidente del Consiglio o il Presidente della Regione lamentano, sollevando il conflitto dinanzi alla Corte Costituzionale, un’interferenza nelle competenze di loro spettanza.

Un cenno va fatto infine, ad un’isolata tesi secondo cui, data l’importante funzione di vigilanza su rispetto della Costituzione svolta dalla Corte Costituzionale, questa può giudicare anche sul regolamento o sull’atto amministrativo intesi come strumenti per attuare quanto disposto dalla legge

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