Tema svolto di diritto civile: clausole di rinegoziazione e sopravvenienze contrattuali

Clausole di rinegoziazione e sopravvenienze contrattuali

Il termine “rinegoziazione” impone una prodromica riflessione. La sua lata accezione (che evoca l’ampia ed incrollabile figura del negozio giuridico) induce ad interrogarsi se si tratti di un fenomeno la cui vis espansiva travalichi l’ambito contrattuale o sia con quest’ultimo coincidente. Tuttavia il tema esulerebbe dal campo d’indagine delle sopravvenienze contrattuali, oggetto di questo lavoro. È dunque al contratto che dobbiamo guardare. Il nostro ordinamento manifesta una costante, direi indefettibile, attenzione non solo alla creazione e all’estinzione del vincolo contrattuale, ma anche alle vicende riguardanti la “vita” del contratto. È nella stessa nozione di contratto che l’ordinamento dichiara di interessarsi anche del profilo funzionale (il verbo regolare dell’art 1321 c.c.) e non solo di quello genetico ed estintivo del fenomeno contrattuale.  L’assetto di interessi, il sinalllagma che le parti hanno inteso cristallizzare nel contratto dovrebbe esser intangibile, alla stregua di una fotografia. Il contratto qui unico momento perficitur, quello ad esecuzione immediata realizza tendenzialmente questa utopia, poiché tra il momento perfezionativo e momento esecutivo non c’è alcuno iato. Sappiamo che così non è per i contratti esecuzione continuata o periodica, ovvero ad esecuzione differita. Le vicende della vita, circostanze empiriche e giuridiche (le cd. sopravvenienze), incidono inevitabilmente sul sinallagma rendendolo inidoneo a realizzare ciò per cui lo stesso viene ad esistenza: la volontà delle parti che lo hanno generato. Il contratto non è più quell’accordo delle parti che l’art 1321 c.c. scolpisce come cuore della negozialità. La creatura che i privati hanno generato, parto del contemperamento degli interessi, sfugge alle parti: non è più idonea a realizzare, per le più varie vicissitudini, ciò per cui è nata. Occorre dunque rinegoziare. Occorre cioè fare in modo che quel contratto che soffre uno scollamento dalla realtà, si avvicini di nuovo alla stessa per realizzare l’assetto di interessi in esso ab origine custodito. Il contratto, dunque, resta in vita. Questo fenomeno, allora, è diverso rispetto a quello novativo, o meglio rispetto al cd. negozio rinnovativo, che ha un duplice effetto: eliminativo e costitutivo. Nella fattispecie rinegoziativa l’effetto eliminativo del rapporto manca. Il rapporto resta in piedi.

  Spesso è l’ordinamento a porgere ai paciscenti e al giudice gli strumenti per riportare l’equilibrio perduto nel contratto, mantenendolo in vita. La reductio ad aequitatem dell’art 1467 comma 3 c.c. (mutatis mutandis quella in materia di rescissione art 1450, ove però lo squilibrio è ab origine) rivela questo spirito del legislatore. La stessa ratio di conservazione del contratto muove il comma 2 della norma. Il meccanismo operativo però è differente. L’ordinamento, senza passare attraverso la reductio ad aequitatem, tiene in vita il contratto “iniquo”, impedendone lo scioglimento (risoluzione) se la sopravvenuta onerosità rientra nell’alea normale dello stesso. Questo perché si tratta di una iniquità tollerata dal sistema. Species dell’art 1467 in materia di appalti è l’art 1664 c.c. La specialità della disciplina della revisione del prezzo ha la sua ratio nella consueta variabilità del costo dei materiali e della mano d’opera. Il legislatore ha dunque inteso apportare dei temperamenti al rischio della difficoltà dell’opera, posto a carico dell’appaltatore onde garantire l’equilibrio tra le reciproche prestazioni. Significativa è poi la possibilità per il committente di chiedere che la  difformità o i vizi siano eliminati a spese dell’appaltatore, oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell’appaltatore (art 1668 c.c.). La risoluzione del contratto di appalto è  l’estrema ratio. Un analogo congegno volto ad emendare iniquità superveniens (con la possibilità della parte lesa di chiedere la riduzione del prezzo) si rinviene negli art 1492 c.c. per la vendita, 1578 c.c. per la locazione, 1623 c.c.  in tema di affitto. Quest’ultima norma presenta, peraltro, una peculiarità: la sopravvenienza è rappresentata da un factum principis (una disposizione di legge, o di un provvedimento dell’autorità riguardanti la gestione produttiva). Altre volte è lo stesso legislatore che interviene con norme di interpretazione autentica (dunque retroattive) per escludere la rilevanza di fenomeni di ius superveniens sul sinallagma contrattuale. È quanto è avvenuto con il decreto-legge 29 dicembre 2000, n. 394 convertito in Legge 28 febbraio 2001, n. 24: nei contratti di mutuo e nelle ipotesi di usura penale non è più configurabile l’usurarietà sopravvenuta. In legislatore è intervenuto direttamente sull’assetto di interessi definito dalle parti, utilizzando un meccanismo di integrazione eteronoma del regolamento negoziale (il «tasso di sostituzione»), assimilabile a quello contemplato dall’art. 1339 cod. civ., che esclude peraltro ogni ipotesi di “rinegoziazione”.

Orbene, la rinegoziazione cui finora si è detto è ex lege: trova la sua fonte nella legge. Tuttavia, fonte della rinegoziazione è altresì la volontà delle parti (rinegoziazione ex voluntate). È  chiaro che l’autonomia contrattuale, incastonata ed imbrigliata nel regolamento contrattuale, possa incardinare nello stesso una clausola di rinegoziazione. In tal caso, le parti, un po’ come Prometeo, cercano di “vedere prima” i fatti che in futuro potrebbero turbare l’equilibrio appena raggiunto e scolpito nel contratto. Ed alla luce di quei fatti le parti fissano e calibrano la reazione del sinallagma. È evidente la differenza rispetto alla rinegoziazione che ha la sua fonte nella legge. In quest’ultima l’autonomia contrattuale è imprigionata nel contratto ed è la legge la chiave che la libera e che offre alle parti un armamentario (quello che in precedenza si è cercato per grandi linee di ricomporre) per ricucire lo strappo tra le stessa e la realtà. Con le clausole di rinegoziazione, invece, è la stessa autonomia a difendere se stessa: è l’autonomia a ricucire quello stesso strappo. In realtà, a ben vedere, di fonte legale di rinegoziazione pur sempre si tratta, essendo l’autonomia contrattuale riconosciuta dalla legge e nei limiti della legge.

Si tratta, dunque, di moduli convenzionali prognostici-preventivi attraverso i quali le parti cercano di porre rimedio ai suddetti rischi, afferenti al momento funzionale del sinallagma. Più precisamente si parla di clausole di rinegoziazione, e non di clausola. Il plurale è quanto mai opportuno. L’esperienza empirica dimostra come infiniti sono i turbamenti potenzialmente in grado di scalfire il contratto, infinite dunque le reazioni, i rimedi. Tuttavia si può tentare di ordinare dette clausole con un cero grado di approssimazione. In primo luogo viene in rilievo la clausola che prevede la libera facoltà dei paciscenti di avviare la trattativa rinegoziativa. È evidente che una clausola di tal fatta altro non è che mera esplicazione dell’autonomia contrattuale, che le parti già hanno ex art 1322 c.c. Non avrebbe dunque ragion d’essere, risultando anzi pleonastica ed inutiliter data. Non sono dunque i privati ad auto attribuirsi autonomia. È l’ordinamento che la conferisce.

C’è poi la clausola che obbliga (non facoltizza) a rinegoziare. Essa deve avere pur sempre presentare almeno l’obbligo di una proposta (di trattativa rinegoziativa) e di una risposta (rifiuto o accettazione).

C’è infine la clausola che non solo obbliga alla trattativa rinegoziativa quanto all’an ma impone altresì il quomodo della trattativa. In tal caso l’auto vincolo che le parti istituiscono è dotato di maggior pervasività e pregnanza. Il sentiero della rinegoziazione ed i suoi confini sono più definiti e dettagliati nell’intento di limitare ab imis quanto più la sfera di discrezionalità, che altrimenti si dispiegherebbe con maggior forza ex post. Un congegno di tal fatta imbriglia maggiormente i paciscenti, per l’impossibilità di controllare e governare tutta la realtà. Ciò che essi non hanno minuziosamente previsto resta cristallizzato nel contratto, senza possibilità di modulare e calibrare il sinallagma sulle alterazioni della realtà circostante, proprio per l’estremo grado di dettaglio della concertazione. In altre parole clausole di rinegoziazione forgiate in modo rigoroso si atteggiano alla stregua di clausole tassative, la cui elasticità è soffocata a monte dalle parti.

Ex adverso, clausole generiche sono certamente in grado di plasmarsi sulla mutevolezza della realtà fenomenica e giuridica. Tuttavia, esse scontano la loro elasticità con un maggior dispendio di energie “a valle”, in executivis, per arginare la discrezionalità e conformare il pactum  al superveniens. Orbene, tanto più ampia è la clausola tanto più dubbia è la sua utilità ad emendare l’iniquità che in itinere infirma il contratto. Più labili e nebulosi si fanno i confini della clausola, più arduo sarà individuare specifici inadempimenti, anche ai fini risarcitori.

Viene allora in aiuto la clausola generale di buona fede, che, sotto il faro dell’art 2 Cost, illumina tutto l’ordinamento contrattuale, dalle trattative (art 1337 c.c.) si erge a canone ermeneutico (art 1366 c.c. punto di “sutura”, affermano gli ermellini, tra interpretazione soggettiva art 1362-1365 c.c. ed oggettiva art 1371 c.c.) ed accompagna il contratto fino alla sua esecuzione (art 1375 c.c. buona fede in executivis). Nel fenomeno rinegoziativo è la buona fede in executivis che viene in rilievo, nonchè la buona fede quale fonte di etero-integrazione del contratto (art 1374 e 1375 c.c. vanno letti in simbiosi). La buona fede assurge a vera e propria Grundnorm non solo delle condotte e delle volontà umane, che nel contratto si incontrano portando a compimento il percorso dell’autonomia contrattuale, ma diviene regola di validità del contratto stesso. La buona fede va dunque oltre, ed anche contro l’autonomia contrattuale. È questa la strada che di recente il nostro ordinamento sta percorrendo. Il grimaldello della clausola generale della buona fede sta man mano scardinando la “cittadella della volontà”. Cosicchè il dogma pacta sunt servanda, che costituisce il vero e proprio limite delle sopravvenienze, si infrange contro la clausola rebus sic stantibus che deve ritenersi inserita in ogni contratto in quanto figlia della ben più generale clausola di buona fede. Tale movimento ordinamentale che trova negli art 2 e 41 Cost. (che scolpisce l’utilità sociale   quale limite dell’iniziativa economica privata e, dunque, dell’autonomia contrattuale, secondo l’insegnamento della Corte Cost.) il suo più solido ancoraggio è incoraggiato dal diritto internazionale e dal diritto europeo dei contratti. Mi riferisco ai “Principi Unidroit” intesi a dettare le regole generali (impropriamente, nel nostro lessico giuridico, definiti “principi”) in materia di contratti commerciali internazionali e nei Principles of European Contract Law redatti dalla Commissione Lando, in materia di “hardship” (articolo 6:111), per il verificarsi di “eventi che alterano sostanzialmente l’equilibrio del contratto, o per l’accrescimento dei costi della prestazione di una delle parti, o per la diminuzione del valore della controprestazione”  (anche l’articolo 6.2.2 dei Principi Unidroit). I Principi Lando prevedono un comma di chiusura della regola, in cui si consente al giudice (“può”) di condannare al risarcimento dei danni cagionati dal rifiuto di una parte di avviare le trattative o dalla loro rottura in maniera contraria alla buona fede e alla correttezza.  Il Codice europeo dei contratti, d’altro canto, all’art 157 comma 5 prevede che il giudice, valutate le circostanze e tenuto conto degli interessi e delle richieste delle parti, può, ricorrendo eventualmente ad una consulenza tecnica, modificare o risolvere il contratto nel suo complesso o nella parte ineseguita, e, se del caso e ciò gli venga richiesto, ordinare le restituzioni dovute e condannare al risarcimento del danno.

Un discorso a parte merita, in conclusione, la clausola di rinegoziazione nei contratti con la pubblica amministrazione. L’art 1-bis. L 241/90 dispone che La pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente. E la legge dispone diversamente nell’ambito dell’attività di evidenza pubblica. Orbene, posto che dalle norme di diritto privato, lo si è visto, è dato scorgere il favor del legislatore del 42’ per il riesame delle posizioni contrattuali squilibrate, resta da indagare proprio la sfera dell’evidenza pubblica.

Senz’altro l’esigenza di custodire l’equilibrio contrattuale non è estranea ai contratti della P.A., poiché un regolamento non rispondente a tutti gli interessi rappresentati nel contratto, o non più tale per effetto di circostanze sopravvenute, rappresenta un momento patologico dell’attività amministrativa. I principi di efficienza, economicità dell’azione amministrativa (art 1 l. 241/90) e soprattutto il principio del buon andamento (art 97 Cost.) impongono il ricorso allo strumento rinegoziativo. Il contratto squilibrato è infatti il contratto inefficiente per antonomasia ed in quanto tale esso mina ab imis il buon andamento dell’agere pubblico. Senonchè  altri principi, baluardo delle regole della concorrenza sembrano porsi in antitesi con il meccanismo della rinegoziazione, al punto tale da consentire alle istituzioni comunitarie e nazionali di costruire il principio del divieto di rinegoziazione delle offerte sia nella fase connotata dalla cd evidenza pubblica (endiadi che risale a Giannini), quella dell’affidamento del contratto, sia in quella successiva alla stipula del contratto, quella della sua esecuzione.  Si tratta dei principi di libera concorrenza, par condicio, non discriminazione,  trasparenza (art 2 comma 1Dlgs. 12 aprile 2006, n. 163 Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE) che connotano la sola fase dell’affidamento. Tali principi non consentirebbero l’ingresso del congegno rinegoziativo nell’area dei contratti pubblici. In tale campo diviene prevalente è infatti l’esigenza di salvaguardare la par condicio fra i concorrenti di una procedura ormai definitivamente conclusa e, pertanto, intangibile. Tuttavia, tale esigenza deve essere pure contemperata con i predetti principi di efficienza, economicità dell’azione amministrativa e soprattutto il principio del buon andamento, quegli stessi principi cioè che pretendono, mercè la rinegoziazione, un equilibrato bilanciamento tra gli interessi coinvolti . Tra i principi che reggono la fase di evidenza pubblica non bisogna poi dimenticare il principio di matrice comunitaria di proporzionalità, a presidio del quale proprio la rinegoziazione sembra essere forgiata. La dialettica tra i suddetti principi conduce ad accordare alla rinegoziazione una diversa dignità e consente di configurare i meccanismi di adeguamento contrattuale, in presenza di sopravvenienze, come rispondenti ad esigenze legittime sia dell’amministrazione, sia dell’aggiudicatario. Non sembra esatto ritenere che la rinegoziazione comporti inevitabilmente una violazione dei principi di trasparenza e concorrenza. La scrupolosa perimetrazione dell’operatività della rinegoziazione nei contratti ad evidenza pubblica alle sole sopravvenienze, con il fine di ripristinare status quo ante, esistente al momento della stipulazione del contratto consente di superare la principale obiezione mossa all’impiego degli strumenti manutentivi, rappresentata dalla lesione delle regole della concorrenza, e costruisce un equilibrato bilanciamento tra gli interessi coinvolti. La poliedrica clausola generale di buona fede, poi, di cui la rinegoziazione è una delle possibili declinazioni, è dotata di straordinaria pervasività ergendosi a regola non solo del regolamento tra privati, ma come stella polare dei rapporti tra privati e P.A. atta a preservare la conservazione dell’equilibrio economico-giuridico fissato nel contratto.

Caterina De Mutiis

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