Tema svolto di diritto penale: associazione a delinquere e concorso di persone nel reato.

CONTINUAZIONE TRA REATI e ASSOCIAZIONE A DELINQUERE

Premessi brevi cenni sull’istituto della continuazione tra reati, si analizzi l’ipotesi della compatibilità tra vincolo della continuazione e appartenenza a diverse associazioni a delinquere e la diversa ipotesi della possibile continuazione tra singoli reati scopo dell’associazione medesima.

Svolgimento

Quando si parla di continuazione tra reati si vuole fare riferimento alla nuova connotazione assunta dalla figura del reato continuato a seguito della riforma intervenuta con D. Lg. n. 99/1974 conv. Lg. 220/1974, nonché alle dispute insorte circa la natura plurima ovvero unitaria dell’istituto.

L’analisi di detta figura è indispensabile al fine di risolvere i quesiti proposti:

1)      se può esservi compatibilità tra vincolo della continuazione e appartenenza a diverse associazioni a delinquere;

2)      se può esservi continuazione tra più reati-scopo della medesima associazione.

Orbene, la genesi storica del reato continuato ha radici piuttosto profonde: si tratta infatti di un istituto introdotto nel 500/600 dai Pratici per mitigare la rigidità delle pene previste nei codici medioevali e per attenuare il regime del cumulo materiale delle sanzioni (la consumazione di tre delitti, tra cui il furto, dava infatti luogo all’applicazione della pena di morte). Più di recente l’istituto è stato recepito dal Codice Zanardelli nel 1889 e poi dal Codice Rocco nel 1930, ove è regolato ai sensi dell’art. 81 c.p.; tuttavia, nel tempo, ha perso la connotazione di obiettività che lo caratterizzava e ha assunto peculiarità soggettive, legate al requisito dell’unicità del disegno criminoso. L’art. 81 c.p., oltre a contenere la definizione del reato continuato (“più azioni od omissioni esecutive del medesimo disegno criminoso che, anche in tempi diversi – danno luogo – a più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di legge”), accomuna, quanto a trattamento sanzionatorio, tale istituto al concorso formale di reati. In entrambi i casi, infatti, la disciplina applicabile è quella del cumulo giuridico “pena prevista per il reato più grave aumentata fino al triplo” e non quella più rigida del cumulo matematico delle pene “tot crimina, tot poenae”, propria del concorso materiale di reati. Ciò è peculiare, in quanto il reato continuato non è altro che un’ipotesi specifica di concorso materiale (più azioni od omissioni che danno luogo alla commissione di più delitti), eppure gode di un trattamento sanzionatorio più mite. Ciò si giustifica sulla base dell’unicità del disegno criminoso, di cui i reati in continuazione sono esecutivi e che, secondo la migliore dottrina, costituisce sintomo di minore pericolosità sociale del reo rispetto a chi commette più azioni delittuose fine a se stesse (questa non è tuttavia un’opinione pacifica, difatti, secondo un altro orientamento, chi delinque in base ad un iter criminoso predisposto è più pericoloso di chi agisce occasionalmente e, per questo, dovrebbe soggiacere ad una pena più grave). Per quanto riguarda gli elementi costitutivi del reato continuato, la lettera dell’art. 81 c.p. ne suggerisce tre: 1) la pluralità di azioni od omissioni; 2) la pluralità di violazioni della medesima o di diverse disposizioni di legge; 3) l’identità del disegno criminoso. Quanto al primo requisito, le azioni od omissioni poste in essere dall’agente devono essere più di una e corrispondere ad altrettanti episodi criminosi autonomi. Come prevede la stessa disposizione, non è necessario che le condotte siano contestuali, ma possono intervenire anche a distanza di tempo l’una dall’altra: tuttavia maggiore è l’intervallo che intercorre tra i fatti di reato, più difficile sarà dimostrare che si tratta di azioni esecutive del medesimo piano delittuoso,dimostrazione peraltro ricadente sul soggetto che pone in essere le condotte (sul punto, la giurisprudenza si è chiesta se vicende processuali come la denuncia-querela, l’arresto, o ancora la sentenza irrevocabile di condanna, relative ai fatti commessi, possano spezzare il disegno criminoso ed impedire la continuazione: la conclusione è stata quella di estendere l’istituto anche oltre i suddetti atti processuali, a condizione che l’interessato riesca a dimostrare la persistenza dell’itercriminis).

Quanto al secondo requisito, questo è stato oggetto della novella legislativa del 1974, che ha mutato il volto del reato continuato. Difatti, il codice del 1930 reputava sussistente la continuazione solo tra reati omogenei, cioè dotati di caratteri fondamentali comuni e costituenti violazione della medesima disposizione penale: in tal senso, l’istituto era concepito in un’ottica unitaria ed era indicato con l’espressione “reato continuato”. In tale prospettiva, finiva però col diventare una figura criminosa legata all’elemento temporale, analoga al reato permanente e al reato abituale, oltre che con l’avere un’applicazione limitata (solo violazioni di norme omogenee). Ne derivava un’inevitabile frustrazione della ratio del favor rei, giustificativa dell’istituto. Per questo motivo, negli anni’70, il legislatore rimise mano alla definizione contenuta nell’art. 81 c.p. ed estese il reato continuato anche a violazioni di disposizioni penali tra loro eterogenee (il legislatore era partito, inizialmente, per rivedere in melius i limiti edittali di pena previsti dal codice, ma finì con l’accrescere il campo di applicazione del reato continuato): è in tale prospettiva che si è cominciato a parlare di “continuazione tra reati” ed a valutare la complessità della natura giuridica dell’istituto.

Non resta ora che analizzare il terzo requisito, quello del “medesimo disegno criminoso”. Si tratta dell’elemento “legante” della continuazione, nel senso che i vari episodi delittuosi commessi dall’agente non sono tra loro scollegati o avulsi da progettualità, ma sono avvinti da un piano delinquenziale unitario che muove l’individuo a violare la legge. Ebbene, molte discussioni sono sorte intorno al significato di tale requisito: alcuni autori lo hanno interpretato in senso intellettivo, come mera rappresentazione mentale, da parte dell’agente, dell’iter criminis nei suoi elementi essenziali; altri, invece, ne hanno svelato l’accezione finalistica, ritenendo che non si potrebbe parlare di progetto criminoso unitario senza un fine che giustifica la rappresentazione. La continuazione ricorrerebbe dunque solo tra reati funzionalmente collegati al perseguimento di uno scopo unitario (es. vendetta, ecc.). Tale vincolo, secondo la giurisprudenza, deve promanare da segni esteriormente riconoscibili e deve essere sorretto dalla volontà del soggetto agente (dolo), che intende commettere quei reati, in vista di quel determinato obiettivo. Ne consegue come la continuazione, secondo l’orientamento prevalente della Suprema Corte, non può riscontrarsi relativamente ai reati colposi, dove cioè l’elemento volitivo è assente o quasi (di recente la giurisprudenza di legittimità ha però dimostrato apertura verso forme peculiari di colpa, assistite da un coefficiente quasi-doloso, nello specifico la colpa arricchita dalla previsione dell’evento. Da sempre, invece, la dottrina ha ammesso la compatibilità tra colpa e reato continuato, ritenendo che il disegno criminoso riguardi le condotte e non gli eventi che possono verificarsi). Per quanto detto, la continuazione è stata esclusa anche in ulteriori ipotesi: 1- in presenza di un vincolo di occasionalità tra le condotte; 2- per reati espressione di un’abitualità del soggetto a violare le leggi come “modus vivendi”; 3- per delitti derivati da un momentaneo impulso sessuale del soggetto, oppure legati ad un particolare stato di bisogno di questi, es. tossicodipendenza. La medesimezza del disegno criminoso come unicità dell’obiettivo perseguito è dunque il solo elemento in grado di giustificare un collegamento funzionale tra reati eterogenei ed inconciliabili. Da tali considerazioni sorge tuttavia il problema di indagare la vera natura giuridica dell’istituto della continuazione. Ciò anche al fine di stabilire le modalità applicative di importanti istituti di diritto sostanziale quali la determinazione della pena da applicare, la prescrizione, l’amnistia e l’indulto, la dichiarazione di abitualità e professionalità nel reato, le circostanze ecc. In dottrina si fronteggiavano inizialmente due orientamenti: quello della finzione, secondo cui la continuazione (anche solo per la sua collocazione nel codice) è figura particolare di concorso tra reati, unificati solo quod poenam in favore del reo; e quello della realtà, secondo cui il fenomeno continuativo è dotato di propria autonomia ed è figura di reato unitaria. Dopo la novella del 1974, i riferimenti al reato unico hanno tuttavia iniziato a vacillare e gli orientamenti, anche giurisprudenziali, si sono attestati intorno a tre nuclei: 1- il reato continuato è la risultante di più reati, autonomi e unificati, solo a taluni effetti, dall’elemento ideativo; 2- il reato continuato è unico e la sua pena legale risulta dall’applicazione di varie disposizioni incidenti sul trattamento sanzionatorio; 3- la ratio stessa della continuazione impone di considerare la sua natura giuridica, ora come unitaria, ora come plurima, in base alla connotazione che produce effetti più favorevoli per il reo. A fronte di tale considerazione, ribadita anche da recente dalla giurisprudenza di legittimità, è ormai pacifica la natura unitaria dell’istituto quanto alla determinazione della pena principale (con ricorso al cumulo giuridico anche in caso di reati puniti con pene eterogenee), alla dichiarazione di abitualità e professionalità nel reato (la condanna per reati in continuazione viene considerata come provvedimento unico ai fini di tale dichiarazione) ed alla sospensione condizionale della pena (questa può infatti applicarsi solo se il reato, unitariamente considerato, consente il beneficio). Invero, la continuazione viene concepita come pluralità di reati ai seguenti effetti giuridici: 1- computo del termine di prescrizione (la novella intervenuta con Lg. 251/2005 ha eliminato dall’art. 158 c.p. il riferimento al “giorno in cui è cessata la continuazione” ed ha restituito autonomia alle singole fattispecie delittuose in essa comprese); 2- amnistia e indulto (i vari reati uniti dal vincolo della continuazione debbono essere vagliati separatamente per verificare la ricorrenza degli estremi dell’uno o dell’altro beneficio); 4- il regime di applicabilità delle circostanze aggravanti ed attenuanti (recentissima Cassazione ha ribadito che i reati in continuazione si considerano autonomi e distinti relativamente all’applicazione della circostanza aggravante della rilevanza economica del pregiudizio altrui, art. 61 n. 7 c.p., ed alle attenuanti della speciale tenuità del danno e dell’intervenuto risarcimento, di cui all’art. 62 c.p. nn. 4 e 6).

Da quanto detto, emerge un quadro complessivo dell’istituto della continuazione totalmente permeato dal principio del favor rei, o meglio dall’esigenza di attenuazione del carico sanzionatorio nei confronti dell’individuo che compie una pluralità di azioni delittuose, mosso da un disegno criminoso unitario (ciò stante la minore gravità dei fatti commessi tanto sotto il profilo psicologico, tanto sotto quello della pericolosità sociale dell’agente).

Orbene, se si guarda alle finalità perseguite dal legislatore, non c’è nulla di più distante giuridicamente delle fattispecie del reato continuato e dell’associazione a delinquere. Quest’ultima è difatti figura delittuosa “regina” tra i reati contro l’ordine pubblico, disciplinata ai sensi dell’art. 416 c.p. Ricorre quando “tre o più soggetti si associano allo scopo di commettere più delitti”: si servono cioè dell’accordo e della forza del gruppo per dare vita ad un programma delinquenziale più o meno determinato. La norma dispone che tali individui vengano puniti per il solo fatto della promozione, costituzione, organizzazione dell’associazione, od anche per la sola partecipazione ad essa (commi 1 e 2). È dunque evidente come la figura criminosa in questione sia contrassegnata da due fondamentali finalità: fornire una tutela anticipata rispetto alla realizzazione del programma criminoso (si tratta infatti di un reato a pericolo presunto in cui l’anticipazione delle soglia di punibilità risponde alla necessità di tutelare un bene giuridico di particolare rilevanza) e aggravare il carico sanzionatorio nei confronti di chi, associatosi, realizza i reati oggetto del programma. Si tratta cioè di un istituto che risponde a finalità squisitamente repressive. L’art. 416 c.p. non è tuttavia l’unica fattispecie ove il nucleo centrale dell’incriminazione è rappresentato dall’esistenza di un’associazione dotata di un programma criminoso. L’ordinamento giuridico italiano ne prevede infatti anche altre ipotesi: le c.d. fattispecie associative (a titolo meramente esemplificativo, può rinviarsi alle figure di reato ex artt. 270, 270bis, 305, 306, 416-bis c.p., nonché all’art. 74 D.P.R. 309/1990 sull’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti).

Ebbene, il primo problema da risolvere è capire se possa esservi compatibilità applicativa tra l’istituto della continuazione e più fattispecie associative tra quelle enunciate.

Inizialmente dottrina e giurisprudenza hanno escluso che un individuo appartenente a diverse associazioni a delinquere possa beneficiare del trattamento più mite previsto dall’art. 81, comma 2 c.p. Ciò per alcune fondamentali ragioni: 1) la totale divergenza tra la ratio repressiva e di reato di pericolo del delitto ex art. 416 c.p. (nonché delle altre fattispecie associative) e la ratio della continuazione, ispirata al favor rei. E’ stato infatti sostenuto che non vi è ragione per punire meno gravemente un soggetto che allo stesso tempo viene incriminato per la sola lesione potenziale del bene giuridico protetto dalla norma penale. 2)  la circostanza che le associazioni criminali cui il soggetto aderisce sono diverse, nel senso che hanno finalità ed organizzazioni differenti (es. associazione mafiosa e associazione terroristica), esclude a priori la sussistenza e la rappresentazione del “medesimo disegno criminoso” che è presupposto della continuazione tra reati (sul punto, negli anni ’90, la giurisprudenza di legittimità precisava che l’art. 81 c.p. era inapplicabile a più associazioni a delinquere formatesi in relazione a situazioni nuove o impreviste essendo tale circostanza del tutto inconciliabile con il requisito dell’unicità dell’iter criminis). Ne consegue che al fine di radicare il vincolo della continuazione non è sufficiente un generico piano di attività delinquenziale che si manifesta nell’adesione a sodalizi di futura costituzione.

A tali orientamenti si sono tuttavia contrapposte posizioni favorevoli all’applicazione della continuazione. Difatti, anche a causa di una maggiore diffusione della criminalità organizzata, nella prassi si è assistito a fenomeni associativi sorti con il consenso di organizzazioni già esistenti, oppure a situazioni di controllo tra associazioni. Indi, si è cominciato ad esaminare tali ipotesi come fattispecie di concorso materiale tra più reati associativi eterogenei, unificati dal vincolo della continuazione. Finché la stessa giurisprudenza di legittimità non è giunta ad ammettere la continuazione tra il reato di associazione mafiosa ex art. 416bis e quello di associazione per il traffico illecito di stupefacenti ex art. 74 del D.P.R. 309/1990. Ancora, è stato riconosciuto il vincolo ex art. 81, comma 2 c.p. tra l’appartenenza ad organizzazioni territoriali minori e la costituzione, da parte dei massimi esponenti di queste, di un’associazione criminale diretta al coordinamento e al «governo» delle attività delle altre associazioni, con estensione del loro campo d’influenza (ciò a fronte tanto della diversità dei fatti, che dell’astratta possibilità logica e giuridica di una contemporanea adesione del soggetto a due diverse organizzazioni criminali).

È dunque evidente come in presenza di tutti i presupposti del reato continuato, questo possa ricorrere anche nelle ipotesi di adesione a diverse associazioni criminali.

Diverso e più annoso è il quesito relativo alla configurabilità della continuazione tra i diversi reati-scopo di una medesima associazione a delinquere. In primis occorre sgombrare il campo da possibili equivoci definitori: il termine reati-scopo o reati-fine indica quel complesso indeterminato di delitti che l’organizzazione si prefigge di realizzare e che sono espressione dei suoi principali obiettivi. Si tratta in sostanza di fattispecie criminose che danno esecuzione al programma scellerato dell’associazione (in questo si differenziano dai reati-mezzo, ovvero quei delitti eterogenei che gli appartenenti al sodalizio possono attuare per fronteggiare esigenze momentanee, contingenti e che sono solo lo strumento per conseguire i fini dell’organizzazione). Orbene, in merito alla compatibilità tra tali delitti inerenti la compagine associativa ed il reato continuato, occorre distinguere due problematiche:

1)      se è configurabile una continuazione “verticale” tra reato associativo e delitti-scopo;

2)      se è possibile unificare in una continuazione “orizzontale” i vari delitti-scopo programmati ed eseguiti dall’ associazione.

In passato, dottrina e giurisprudenza hanno categoricamente negato che potesse esservi compatibilità tra reati associativi in generale e reato continuato: l’associazione a delinquere, infatti, presuppone un accordo programmatico tra i sodali per la commissione di una serie indeterminata di delitti-scopo (il reato associativo si differenziava a sua volta dal concorso di persone nel reato, caratterizzato dalla contingenza del vincolo tra i correi), mentre il fenomeno della continuazione è contraddistinto dalla programmazione dell’attività criminosa, prevista ab inizio nelle sue linee essenziali, non essendo sufficiente un generico programma di attività delinquenziale. Più di recente, la Corte di Cassazione, sostenendo che non si deve confondere l’unicità del disegno criminoso, exart. 81 c.p., con il programma astratto e generico dell’associazione a delinquere, ha riconosciuto l’ipotizzabilità di una continuazione “verticale” tra reato associativo e singoli reati-fine purché, sin dall’inizio, il programma criminoso dell’associazione concepisca uno o più reati-fine individuati nelle loro linee essenziali (criterio della sufficiente determinatezza del programma criminoso). Solo così tra questi ultimi ed il delitto ex art. 416 c.p. potranno ravvisarsi i presupposti della continuazione (secondo altro orientamento la continuazione verticale non sarebbe comunque possibile, attesa la totale autonomia, anche sanzionatoria, del primo reato rispetto ai secondi). La dottrina prevalente ritiene invece che ove il medesimo piano criminoso copra tutti o alcuni dei delitti-scopo, si avrà un concorso del delitto associativo col reato continuato relativo ai singoli reati-fine, mentre se il disegno criminoso unitario ricomprende tanto questi ultimi, che la struttura associativa, vi sarà un fenomeno di continuazione verticale tra reato associativo e reati-scopo. Tale orientamento si attesta oggi come più coerente con le esigenze di espansione dell’istituto di cui all’art. 81, comma 2 c.p. ed è stato accolto anche dalla Corte di Cassazione.

Per quanto concerne infine la continuazione orizzontale tra i singoli reati-scopo, l’iniziale presa di posizione negativa di dottrina e giurisprudenza è stata superata da valutazioni di tipo casistico, dirette a verificare che il singolo delitto sia stato ideato e programmato all’atto di costituzione dell’associazione (non essendo sufficiente la generica riconducibilità del fatto al generico programma delittuoso del sodalizio). Ne consegue come la partecipazione ad un’organizzazione criminale non è in grado di costituire, da sola, prova dell’unicità del disegno criminoso tra i vari reati-scopo dell’associazione stessa. Tuttavia, la Suprema Corte ha escluso che per aversi continuazione tra singoli reati-fine sia necessaria la concreta rappresentazione e volizione di tutti gli episodi oggetto del programma criminoso, altrimenti si avrebbe un’ingiusta ed illegale dilatazione della responsabilità concorsuale di tutti gli associati per la generalità dei delitti realizzati in costanza di rapporto associativo. Pertanto, per l’attribuzione di una responsabilità individuale sarà necessario un momento di verifica probatoria soggettiva diretto ad accertare che gli eventi delittuosi specifici siano per modalità, genesi e obiettivi strategici concretamente espressivi di un momento progettuale unitario e sufficientemente determinato (nel caso di specie i giudici hanno ravvisato una continuazione orizzontale tra più omicidi di soggetti-chiave riscontrando una linea volitiva e deliberativa comune diretta a sovvertire i precedenti assetti di vertice dell’associazione e ad assicurare un immediato controllo sul territorio). Da ultimo, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che per aversi continuazione orizzontale tra i vari delitti-scopo realizzati dai membri del sodalizio si deve avere anche la certezza che, dopo la loro consumazione, il vincolo associativo sia rimasto in vita. Si deve invece escludere la continuazione quando risulti evidente che i reati sono attuazione di accordi presi di volta in volta ovvero quando, successivamente all’ esecuzione dei reati-scopo, sia cessato ogni rapporto in atto tra i compartecipi.

Avv. Patrizia Mattei

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