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Tema svolto di diritto penale: il tentativo.

TENTATIVO, FURTO NEI SUPERMERCATI E OMISSIONE ATTI D’UFFICIO.

Premessi brevi cenni sugli elementi caratterizzanti il tentativo, se ne valuti l’ammissibilità in relazione alle ipotesi di furto nei supermercati e di omissione in atti d’ufficio.

Svolgimento

Il tentativo di reato è una particolare figura criminosa caratterizzata dalla mancata realizzazione della fattispecie di reato presa di mira dall’agente. La sua disciplina ed i suoi elementi costitutivi sono esplicati dall’art. 56 c.p. e la trattazione dei medesimi è in questa sede indispensabile al fine di analizzare il ruolo e la configurabilità del tentativo nelle ipotesi delittuose del furto nei supermercati e dell’omissione in atti d’ufficio.

Per comprendere appieno il fondamento e le caratteristiche del tentativo occorre anzitutto chiarire cosa non è tentativo. Ebbene, l’applicazione dell’art. 56 c.p. è esclusa in caso di consumazione del reato, che ricorre ove la fattispecie concreta, posta in essere dall’agente, integri tutti gli elementi costitutivi del modello legale di illecito. In altri termini, si ha consumazione quando l’iter criminis è portato a pieno compimento, nel senso che sono stati attuati i suoi tre momenti fondamentali: 1) l’ideazione del reato, che è fase in cui il programma criminoso rimane interno al soggetto. Essa si conclude con la risoluzione criminosa, da sola non punibile, nel rispetto del principio “cogitationis poenam nemo patitur” (cd. principio di materialità); 2) l’esecuzione del reato, che è momento pratico di esteriorizzazione della risoluzione delittuosa e si scinde in atti di mera preparazione e atti di esecuzione in senso stretto; 3) la consumazione vera e propria, che è il punto d’arrivo dell’esecuzione del comportamento tipico vietato e produce l’offesa attuale, o potenziale, del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. La consumazione è ancora diversa dalla perfezione del reato, che ricorre quando il delitto sia stato integrato nei suoi presupposti minimi. In sostanza se la perfezione è l’ordinaria (o minima) realizzazione dell’illecito penale, la consumazione presuppone invece un reato già perfetto, che abbia toccato il suo punto di massima gravità, intesa quale massima intensità della lesione al bene coinvolto (es. il reato di lesioni personali – 582 c.p.- provocato da più colpi di pistola, si perfeziona con il primo colpo, mentre si consuma con l’ultimo).  Il tentativo è invero figura diversa. In passato si riteneva fosse una sorta di “delitto imperfetto”, in quanto non giunto a consumazione, ma tale tesi è stata respinta ed è stato poi configurato come titolo autonomo di reato, dotato di un proprio nomen iuris e di una propria offensività, ma soprattutto plasmato sulle componenti essenziali del reato “perfetto”: fatto tipico, antigiuridicità e colpevolezza. Il tentativo non ricorre per delitti diversi da quelli tipizzati dal legislatore, ma si configura nelle medesime fattispecie, risultando dalla combinazione delle singole norme incriminatrici di parte speciale con la norma estensiva della punibilità ex art. 56 c.p. Quest’ultima individua gli elementi costitutivi del tentativo nell’idoneità e direzione univoca degli atti alla commissione del reato. L’istituto in esame ricorre pertanto in caso di mancata realizzazione del delitto preso di mira ove, però, gli atti parzialmente posti in essere manifestino l’intenzione criminosa dell’agente. Nello specifico, l’art. 56 c.p., collega l’esistenza del tentativo al mancato compimento dell’azione, ovvero alla non verificazione dell’evento delittuoso. Tale accenno richiama la tradizionale distinzione tra tentativo incompiuto e tentativo compiuto: il primo ricorre nei reati di mera condotta, ove questa non venga realizzata; il secondo attiene ai reati di evento e presuppone la mancata produzione di questo, nonostante il compimento dell’azione. Orbene, se tale distinzione era rilevante in passato, perché il codice Zanardelli collegava le due ipotesi a trattamenti sanzionatori differenti; oggi ha perso d’interesse, a fronte del regime sanzionatorio unitario che caratterizza il tentativo. Difatti, come emerge dalla lettura dell’art. 56 c.p., il legislatore non rinuncia alla sua punibilità, riconnettendo al tentativo la sanzione “stabilita per il delitto diminuita da un terzo a due terzi” (con reclusione non inferiore a dodici anni in caso di ergastolo). L’esigenza politico-criminale della punibilità del tentativo, originariamente ravvisata nella repressione della volontà ribelle e antisociale dell’agente (cd. teoria soggettiva del positivismo criminologico, secondo cui il tentativo manifestava la pericolosità criminale dell’individuo), ha attualmente inclinazioni di prevenzione dell’esposizione a pericolo degli interessi protetti. Detta concezione obiettiva, molto più coerente con il diritto penale del fatto, trova conferma nel principio di necessaria lesività (ex art. 49 comma 2 c.p.), secondo cui non esiste reato ove il fatto corrispondente alla fattispecie penale non leda o metta in pericolo beni giuridici. Da tale interpretazione emerge come, in realtà, il tentativo rappresenti un minus rispetto al delitto consumato, perchè mentre quest’ultimo realizza una lesione effettiva dell’interesse protetto, il tentativo ne integra una lesione solo potenziale, per questo sanzionata in modo meno grave. Rimane tuttavia di difficile individuazione l’inizio dell’attività punibile nel tentativo. Ciò poiché se si arretra troppo la soglia di punibilità si rischia di sanzionare comportamenti innocui o meri propositi delittuosi, se invece si avanza troppo, potrebbero risultarne frustrate le esigenze preventive dell’istituto. Ecco, su tale aspetto si sono appuntate numerose teorie. Il codice Zanardelli, che già contemplava la punibilità del tentativo, distingueva tra atti meramente preparatori ed atti esecutivi del delitto: i primi non erano punibili in quanto rientravano nella sfera della risoluzione criminosa interiore, mentre lo erano i secondi, attuativi dell’iter criminis. Tale criterio, tuttavia, era piuttosto generico ed, a volte, risultava difficile distinguere gli uni e gli altri atti (ad es. non si capiva se prendere la mira prima di sparare fosse atto preparatorio o esecutivo del reato di omicidio), perciò eminente dottrina escogitò i criteri dell’“univocità degli atti” e della “sfera giuridica del soggetto passivo”. In forza del primo, si ritenevano preparatori quegli atti che, seppure idonei alla commissione del delitto, si dimostravano equivoci rispetto ad esso. Erano invece esecutive le azioni univocamente dirette alla commissione del reato: solo queste potevano rientrare nell’ambito di punibilità tracciato dal legislatore. I fautori di tale tesi arrivarono in seguito a sostenere che gli atti preparatori andavano esenti da sanzione poiché operavano nella sfera giuridica dell’agente, ciò non valeva per gli atti esecutivi, che invadevano la sfera soggettiva della vittima (altra nota teoria era quella della condotta tipica, secondo cui erano esecutive le sole azioni che davano inizio alla condotta tipizzata dalla norma incriminatrice  – cd. teoria formale oggettiva –  tale criterio è stato poi ampliato fino a ricomprendere nell’esecutività tutte le condotte connesse, omogenee, coerenti con quelle attuative del fatto previsto dalla norma penale – cd. teoria materiale oggettiva). Con l’avvento del nuovo codice, la distinzione tra atti preparatori ed esecutivi è stata superata. Il legislatore del 1930 ha infatti optato per collocare la soglia di punibilità del tentativo in corrispondenza del “compimento di atti idonei e diretti in modo non equivoco alla commissione del reato” (ciò anche in considerazione della ratio ispiratrice dell’istituto). C’è da dire, però, che il criterio tradizionale non è venuto meno del tutto, tant’è che, di recente, la Corte di Cassazione ha riabilitato la tesi dell’impunità, a titolo di tentativo, degli atti meramente preparatori, sostenendo che seppure questi possano rivelarsi idonei, giammai saranno in grado di soddisfare il requisito della direzione univoca alla commissione del reato.

In generale, il primo requisito per la configurabilità del tentativo è appunto l’idoneità degli atti alla realizzazione del reato. Differentemente dal codice dal 1889, in cui l’idoneità era riferita ai soli mezzi usati per compiere il delitto, il legislatore moderno collega tale requisito agli atti, da intendere come impiego dei mezzi, con conseguente ampliamento dell’ambito delittuoso. Un atto può essere infatti idoneo alla realizzazione del reato, anche se compiuto con un mezzo inidoneo (si pensi all’impiego di uno spillo per pungere un emofiliaco). Inizialmente, buona parte di dottrina e giurisprudenza ha qualificato l’idoneità come efficienza causale degli atti alla produzione dell’evento. Tale tesi è stata tuttavia opposta per tre ordini di ragioni: – tiene conto dei soli reati di evento e non anche di quelli di mera condotta; – presuppone che il giudice si metta sempre in un’ottica ex post rispetto alla condotta e ciò lo fa concludere inevitabilmente per l’inidoneità degli atti (infatti, in caso di tentativo, l’evento non si verifica); – non può trattarsi di un vero nesso causale perché viene a mancare il parametro collegato alla condotta: cioè la realizzazione dell’evento. Il requisito dell’idoneità è stato dunque rivalutato alla luce della ratio della punibilità del tentativo ed è attualmente inteso come potenziale capacità, attitudine, congruità delle azioni poste in essere a provocare l’offesa al bene giuridico. L’accertamento della sua sussistenza va compiuto in base al cd. “criterio della prognosi postuma”: l’interprete cioè, dopo che i fatti sono avvenuti, deve collocarsi con la mente nell’istante precedente il compimento dell’azione e valutare l’idoneità di questa: 1) in riferimento ad ogni singolo atto; 2) tenendo conto delle circostanze concrete conosciute o conoscibili dall’agente “avveduto” al momento dell’azione (e non anche delle circostanze non conoscibili, altrimenti si rischierebbe di entrare in conflitto col principio di offensività). La dottrina maggioritaria ritiene altresì che il grado o livello di idoneità necessario al compimento del delitto, debba essere più vicino alla probabilità che alla non impossibilità (con tacitazione delle altre tesi incentrate sulla possibilità -semplice o ragionevole- dell’evento criminoso, o sull’adeguatezza dell’azione). Ciò detto, occorre evidenziare che il requisito trattato non è da solo sufficiente a configurare il tentativo di reato, perché atti idonei a produrre il delitto potrebbero tuttavia far trapelare un’equivoca direzione criminosa. Il criterio dell’univocità degli atti stempera dunque quello dell’idoneità e restringe l’ambito applicativo dell’istituto. Le teorie relative alla ratio dell’univocità sono due: a) quella soggettiva, che definisce la direzione non equivoca degli atti quale criterio di prova, richiedendo che si dia sempre dimostrazione dell’intenzione finalistica delle azioni rispetto al reato (prova che può provenire anche aliunde, grazie agli ordinari canoni probatori dell’elemento soggettivo – es. confessione, personalità dell’agente, ecc.); b) quella oggettiva, per cui l’univocità è criterio di essenza, inteso come carattere oggettivo, intrinseco della condotta, che manifesta con chiarezza il proposito criminoso perseguito (in tal senso se la prova dell’univocità del fine criminoso è raggiuta aliunde, va poi verificata alla luce degli atti compiuti). Tra le due tesi, prevale attualmente la seconda. Recente giurisprudenza ha infatti evidenziato come la teoria soggettiva frustri troppo il requisito dell’univocità (interpretatio abrogans di tale criterio), fondandosi sulle sole regole generali dell’elemento soggettivo del reato.

Ultimo aspetto da considerare in tema di tentativo è quello attinente l’elemento psicologico. Ebbene, quanto fin’ora detto depone a favore della configurabilità del solo tentativo retto da dolo. L’idoneità e l’univocità degli atti rispetto al reato evidenziano la necessità di condotte intenzionalmente dirette ad uno scopo, tanto materialmente, quanto psicologicamente (per questo dolose). Va pertanto esclusa ogni compatibilità strutturale tra tentativo e delitti colposi, in primo luogo per l’assenza di norme che tipizzano simili figure (le ipotesi colpose, ex art. 42 co. 2 c.p., devono essere previste dal legislatore), in secondo luogo per l’inammissibilità di un tentativo involontario. Per ragioni analoghe, si è discusso molto anche della conciliabilità tra tentativo e dolo eventuale. Sul punto, parte della dottrina propende per la compatibilità, sostenendo che nessuna norma espressa distingue tra dolo del tentativo e dolo della consumazione: ne consegue che il primo dovrebbe configurarsi nelle medesime forme del secondo, compresa quella eventuale. Giurisprudenza ormai consolidata opta invece per l’inconciliabilità, imputando tale soluzione al requisito della direzione univoca degli atti nel tentativo. La chiara direzione criminosa dell’azione non si accorda, infatti, con l’accettazione del rischio di verificazione dell’evento delittuoso (propria del dolo eventuale), ma postula almeno un dolo diretto (rappresentazione certa degli elementi costitutivi del reato quale conseguenza della condotta diretta ad altri scopi delittuosi).

Gli aspetti fin’ora descritti, valgono anche in sede di esame del tentativo applicato all’ipotesi specifica del furto nei supermercati. In generale, il reato di furto è uno tra i più importanti delitti contro il patrimonio (titolo XIII c.p.). Per questo il codice gli dedica numerosi articoli (624 c.p.- 627 c.p.), tipizzandone con accuratezza tutte le possibili manifestazioni (es. furto in abitazione, furto con strappo ecc.), nonché le molteplici aggravanti e le attenuanti. Dalla lettura dell’art. 624 c.p. emerge evidente come l’oggetto materiale del reato sia costituito da cose mobili di proprietà altrui, mentre il fatto tipico sia integrato dall’impossessamento del bene con sottrazione di questo a colui che lo detiene. Il furto è altresì un reato a dolo specifico nel senso che l’agente non deve agire con la sola coscienza e volontà di impossessarsi della cosa, bensì con il fine ulteriore di trarne guadagno, per sé o per altri. In ordine al fatto tipico, sono state enucleate varie definizioni di “impossessamento”: alcuni l’hanno riferito all’avere la padronanza della cosa, altri alla cd. amotio o spostamento del bene dal luogo dove si trova, altri ancora alla ablatio (asportazione e trasferimento fuori dalla sfera di custodia del detentore) o alla cd. illazione (trasferimento del bene al sicuro, in un luogo prestabilito). In realtà l’impossessamento non può essere scisso dall’aspetto della sottrazione. Per la giurisprudenza prevalente si tratterebbe infatti di due momenti distinti che, nella maggior parte dei casi, si verificano contestualmente o quasi (altra parte della giurisprudenza ritiene invece tali concetti come due facce della stessa medaglia, che rivelano l’una il punto di vista dell’agente e l’altra quello della vittima del reato). La soluzione del problema deriva dall’analisi del concetto di possesso. Poiché questo equivale ad autonoma disponibilità della cosa, ne deriva che impossessamento significa acquisto di tale disponibilità: non è dunque sufficiente ad integrarlo la sottrazione del bene al detentore, essendo necessario acquisire una signoria autonoma ed indipendente sulla cosa. Il furto si consuma quindi quando l’oggetto è uscito dalla sfera di vigilanza del precedente possessore, dando vita ad un nuovo possesso in capo all’agente.

Orbene, nel caso di  furto commesso in un supermercato, ci si chiede quando si possa parlare di tentativo e quando di consumazione del reato. Applicando le concezioni tradizionali sull’impossessamento, il furto sarebbe consumato con condotta del ladro che sottrae gli oggetti messi in bella vista nel negozio, infilandoli in una sacca che porta con sé. Si avrebbe invece tentativo di furto nell’ipotesi in cui il ladro venisse sorpreso dal titolare nell’atto di introdurre nella borsa gli oggetti in questione. Tuttavia, occorrerebbe comunque valutare se tale condotta dell’agente soddisfi in concreto i requisiti essenziali del tentativo ex art. 56 c.p.

Seguendo l’orientamento dominante, notiamo invece come lo spostamento della merce, dal bancone alla borsa dell’agente, non è sufficiente ad integrare il furto, perché i beni non sono ancora usciti dalla sfera di vigilanza e controllo del soggetto passivo (sfera comprensiva dello spazio del negozio e di quello ulteriore – ad esempio il magazzino o il piazzale antistante – in cui la condotta rimane sotto la percezione di sistemi di controllo del supermercato o del personale addetto). Pertanto, se il ladro acquisisce autonoma disponibilità della merce portandola fuori dalla predetta sfera di vigilanza, il delitto sarà consumato, altrimenti si configurerà un tentativo di furto. La sussistenza di tale fattispecie delittuosa è confermata altresì dal fatto che la condotta di occultamento della merce e di sottrazione di essa al pagamento del prezzo, presenta i requisiti tipici del tentativo, quali l’idoneità e la direzione univoca degli atti alla commissione del furto (la Corte di Cassazione, di recente, ha configurato come tentativo di furto la condotta di un soggetto che dopo aver occultato la merce era stato fermato alla cassa dal personale addetto, insospettito dal suo comportamento).

Orbene, la figura criminosa del furto nei supermercati coglie l’istituto del tentativo anche sotto un altro aspetto, peraltro non ancora analizzato, quello della desistenza volontaria ex art. 56 co. 3 c.p. Occorre a tal fine precisare che, per aversi tentativo, l’azione esecutiva deve essersi interrotta per il verificarsi di un fatto esterno. In altri termini, il mancato compimento dell’azione (tentativo incompiuto), o il mancato verificarsi dell’evento (tentativo compiuto) debbono essere dipesi dall’arresto dell’iter criminis per circostanze indipendenti dalla volontà dell’agente. Tali circostanze possono essere umane, naturali, consapevoli o fortuite, ma mai equivalenti ad un recesso dalla volontà del soggetto attivo, altrimenti si non si verserebbe più in un tentativo di reato, ma nelle diverse ipotesi di desistenza volontaria (art. 56 co. 3 c.p.) o di recesso attivo (art. 56 co. 4 c.p.). Tali fattispecie, apparentemente analoghe tra loro, si differenziano invece in base al criterio  dell’esaurimento dell’iter criminoso, da valutare “ex post”. Nel recesso attivo (o pentimento operoso) l’agente conclude l’azione delittuosa, ma si adopera impedendo che l’evento dannoso si verifichi (Tizio investe un uomo e poi lo soccorre salvandogli la vita). Nella desistenza volontaria, al contrario, l’agente arresta l’iter criminis prima che questo sia giunto ad esaurimento (Tizio apre una cassaforte per rubare dei gioielli e poi, inaspettatamente, li lascia lì). Ne consegue che il recesso attivo è valutato dal legislatore mediante l’applicazione di una circostanza attenuante, mentre la desistenza volontaria comporta l’esclusione della punibilità dell’agente, salvo che gli atti da questi intrapresi integrino un diverso reato. Ebbene, la ratio di entrambe le figure è stata inizialmente ricondotta alla teoria dei “ponti d’oro al nemico che fugge”, secondo la quale il legislatore premia l’agente che desiste o recede dal reato con l’impunità, oppure con un’attenuazione di pena: ciò fa da “controspinta” al suo proposito criminoso (la suddetta teoria è stata però criticata sotto vari aspetti: anzitutto non opererebbe alcuna controspinta al delitto, perché è difficile che il reo conosca la norma premiale; inoltre, è raro che il soggetto, mosso dall’intento criminoso, riesca a vagliare le alternative lecite all’azione intrapresa). Attualmente, però, la giurisprudenza tende sempre più a condurre l’istituto della desistenza volontaria entro l’ottica della prevenzione generale (incentivo generale all’abbandono di iniziative criminose) e speciale (chi desiste volontariamente dimostra una minore volontà criminale ed è difficile che in futuro torni a delinquere). Sulla natura giuridica della desistenza, si contendono invece tre teorie: 1- è circostanza di non punibilità diretta a premiare il ravvedimento del reo; 2- è un’ipotesi di esclusione della tipicità dell’azione, poiché fa venir meno il dolo come elemento costitutivo del reato; 3 – è causa di estinzione del delitto tentato e ciò giustifica la punibilità dell’eventuale reato diverso commesso dal desistente.

L’aspetto più importante della desistenza è, in ogni caso, quello della volontarietà ed è proprio su questo che si è soffermata la giurisprudenza negli ultimi anni, anche in relazione alla fattispecie del furto nei supermercati. Ci si è chiesti cioè se il ladro che interrompa l’azione criminosa perché non riesce a superare i meccanismi di difesa approntati dai titolari del supermercato (es. impossibilità o difficoltà di rimozione del dispositivo antitaccheggio applicato sulla merce) commetta un tentativo di furto, punibile in quanto tale, ovvero una fattispecie di volontaria desistenza, sottoposta al trattamento premiale ex art. 56 co. 3 c.p. Ebbene, per rispondere a tale domanda occorre chiarire che cosa s’intende per volontarietà del ravvedimento. Parte della dottrina ritiene che tale concetto debba essere inteso come spontanea determinazione del soggetto (per motivi interni) a non concludere l’azione criminosa. Altri ancora rifiutano il riferimento alla spontaneità, appuntando il significato della figura sulla ragionevole possibilità di scelta tra due condotte (prosecuzione o interruzione) entrambe possibili. La giurisprudenza è invece piuttosto unanime nel ritenere che la desistenza volontaria, pur non coincidendo necessariamente con la spontaneità, presuppone comunque che il soggetto deliberi in uno stato di libertà interiore, indipendente da fattori esterni (questi, difatti, possono sempre interferire con la scelta da adottare). Ne consegue che l’agente che rinuncia al furto perché non riesce a superare i dispositivi di difesa (es. l’antitaccheggio), non desiste volontariamente dall’azione, ma è influenzato dal timore di essere scoperto. Egli commette dunque un tentativo di furto punibile ai sensi degli artt. 624 e 56 c.p.

Diverse considerazioni valgono invece per il rapporto tra tentativo e reato di omissione in atti di ufficio ex art. 328 c.p. Qui la problematica s’incentra soprattutto sulla compatibilità del tentativo con i reati omissivi. La fattispecie ex art. 56 c.p. non è infatti indistintamente applicabile a tutte le figure criminose previste dal legislatore: rispetto a talune, come ad esempio per le fattispecie contravvenzionali, l’incompatibilità è dettata da esigenze di politica criminale (le contravvenzioni sono infatti ipotesi meno gravi dei delitti e non avrebbe senso punirne il semplice tentativo); per altre invece l’inconciliabilità è proprio intrinseca, strutturale (questo vale per i delitti di attentato, o a consumazione anticipata, in cui il comportamento minimo che integra il tentativo, realizza anche la consumazione del reato: ciò in quanto i beni tutelati sono talmente rilevanti da determinare una notevole anticipazione della soglia di punibilità). Ebbene, molto si discute sull’ammissibilità del tentativo nei reati omissivi. Per i delitti commissivi mediante omissione (o omissivi impropri) non si pongono particolari problemi di compatibilità, perché l’omissione dell’agente è in sé scindibile e si può dunque ipotizzare che un fattore esterno determini l’interruzione del processo realizzativo del reato (esempio tipico è quello del tentato omicidio commesso dalla madre che omette di allattare il neonato per provocarne la morte, ma non riesce nell’intento perché il figlio viene nutrito da un’altra donna). Più complessa è invece l’analisi inerente i reati omissivi propri, ove la condotta omissiva è specificamente tipizzata dal legislatore. Tra questi v’è il delitto di omissione in atti d’ufficio.

Si tratta, in tal caso, di un delitto contro la pubblica amministrazione, plurioffensivo, in cui cioè i beni protetti dalla norma sono tanto il buon andamento della cosa pubblica, quanto il concorrente interesse del privato leso dal ritardo o dall’omissione dell’atto dovuto. Si tratta altresì di un reato proprio, che può essere commesso soltanto dal soggetto qualificato: il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio. In ordine a tale reato, l’art. 328 c.p. tipizza due distinte ipotesi: nella prima il delitto si perfeziona con la semplice omissione del provvedimento di cui si sollecita la tempestiva adozione, incidente su beni di primario valore (sanità, igiene, giustizia ecc.); nella seconda (residuale) la consumazione richiede il concorso tra due condotte omissive: la mancata adozione dell’atto entro trenta giorni dalla richiesta scritta dell’interessato e la mancata risposta sulle ragioni del ritardo. Orbene, in riferimento a tali ipotesi, (come per i reati omissivi propri in generale), la dottrina tradizionale negava l’ammissibilità del tentativo, dal momento che la condotta illecita si esauriva nel momento in cui l’atto doveva essere compiuto. Ne conseguiva che se il momento utile non era ancora sopraggiunto, l’agente avrebbe ancora potuto compiere l’atto ed evitare l’evento criminoso; se tale momento era passato, si sarebbe avuta la consumazione del reato. Dunque non residuavano spazi per il tentativo. L’incompatibilità era altresì confermata dalla natura di reato di pericolo dell’omissione in atti di ufficio (in quanto fattispecie posta a tutela di beni particolarmente importanti, protetti mediante anticipazione della tutela penale): anche questa tipologia criminosa è infatti molto discussa in rapporto al tentativo. Invero, dottrina e giurisprudenza più recenti hanno superato l’orientamento tradizionale sostenendo che se il reato non si consuma prima della scadenza del termine utile per il compimento dell’azione doverosa, non è detto che nel frattempo l’agente non possa compiere atti idonei e diretti in modo non equivoco a commettere il reato (integranti un tentativo di omissione in atti d’ufficio, ex artt. 328 e 56 c.p.). Ciò vuol dire, che il tentativo può configurarsi anche nei reati omissivi propri, a condizione che in essi si possa individuare un iter criminis frazionabile. Questo può accadere, ad esempio, quando l’agente si sia posto, con atti intermedi, nell’impossibilità di adempiere i propri obblighi (la Corte di Cassazione ha infatti ritenuto responsabile per tentata omissione in atti d’ufficio il pubblico ufficiale sorpreso mentre stava per recarsi all’estero rendendo così inattuabile il compimento di un atto dovuto). Buona parte della dottrina concorda con tale concezione, ritenendo che nei reati omissivi propri si assiste ad un’anticipazione della soglia di tipicità dell’azione, nel senso che la realizzazione di tali delitti può iniziare anche prima della scadenza del termine per l’esecuzione dell’atto, in cui il reato si consuma. Perciò se l’agente rende impossibile l’adempimento al momento (o  poco prima) della scadenza, pone in essere atti sicuramente idonei e univocamente diretti al compimento del delitto.

Avv. Patrizia Mattei

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