Tema svolto di diritto penale: principio di offensività e delitti contro la fede pubblica

Principio di offensività e delitti contro la fede pubblica*

di Luigi Levita

*Estratto da Temi svolti per il concorso in magistratura 2010,Cierre Ediizoni, S. Ruscica,(a cura di).

Schema preliminare di svolgimento della traccia

–    ‑Inquadramento generale dei delitti contro la fede pubblica.

–    ‑Il principio di offensività.

–    ‑Gli enunciati performativi.

–    ‑Le considerazioni di Cass., Sez. Un., 24 settembre 2007, n. 35488.

–    ‑Il bene giuridico tutelato.

–    ‑Le considerazioni di Cass., Sez. Un., 18 dicembre 2007, n. 46982.

Dottrina

Angeli, L’affermarsi del diritto penale dell’offesa: la carica lesiva dei reati di falso, in Strumentario Avvocati – Rivista di Diritto e Procedura Penale, n. 5, 2009, 22.

Crimi, Falso (delitti di), in Digesto pen., Utet, Torino, tomo I, 293.

De Flammineis, La plurioffensività dei reati di falso tra normativa attuale e prospettive di riforma, in Dir. Pen. Proc., 2008, 1128.

Ferrari, La natura plurioffensiva dei reati di falso, tra esigenze di protezione degli interessi individuali ed immaterialità del bene giuridico prevalente, in Cass. Pen., 2008, 1291.

Giacona, Proliferazione delle fattispecie di falso ed esigenze di ne bis in idem sostanziale, in Foro It., 2008, II, 80.

Mongillo, Prospettive normative del principio di offensività, in Giust. Pen., 2003, II, 129.

Giurisprudenza

Cass. Pen., Sez. Un., 24 settembre 2007, n. 35488

Il delitto di falsa attestazione del privato può concorrere – quando la falsa dichiarazione del mentitore sia prevista di per sé come reato – con quello della falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell’atto al quale l’attestazione inerisca, sempreché la dichiarazione non veridica del privato concerna fatti dei quali l’atto del pubblico ufficiale è destinato a provare la verità

Cass. Pen., Sez. Un., 18 dicembre 2007, n. 46982

I delitti contro la fede pubblica tutelano anche il soggetto sulla cui concreta posizione giuridica l’atto incide direttamente, soggetto che, in tal caso, è legittimato a proporre opposizione contro la richiesta di archiviazione

Legislazione correlata

Costituzione, artt. 2, 13, 27

Codice Penale, artt. 48, 49, 453 ss.

SVOLGIMENTO

I delitti contro la fede pubblica, com’è noto, si caratterizzano per la difficoltà dottrinale e giurisprudenziale di individuare, in maniera sufficientemente chiara, la nozione di falso che consenta un corretto inquadramento della rilevanza penalistica del falso.

La prima difficoltà che si sconta in subiecta materia è del resto di ordine logico, giacché il concetto di falso è eminentemente relazionale, e si lega a filo doppio con la individuazione – complessa, dal punto di vista sia giuridico che filosofico – di ciò che è vero.

D’altronde, a complicare non poco il lavoro dell’interprete, non va obliterato che anche la nozione di fede pubblica risulta oltremodo ondivaga, oltre che correlata ad una accentuata valorizzazione del principio di offensività che, negli ultimi tempi, viene invocata dagli studiosi per consentire la punizione delle condotte lesive soltanto qualora le medesime cagionino una concreta lesione al bene giuridico tutelato.

Venendo alla nozione di verità dalla quale, per differenza, sembra possibile raggiungere qualche utile approdo ermeneutico per l’individuazione del falso penalmente rilevante, essa può essere la più varia, a seconda che si acceda ad una teoria naturalistica oppure ad un orientamento di tipo pragmatico.

Del resto, non è mancato un indirizzo ermeneutico che, valorizzando il momento probatorio connesso alle dinamiche in tema di falso, ha evidenziato come proprio il processo e la prova, ossia l’attitudine probatoria di determinati fatti ed elementi, possano guidare l’operatore nell’individuazione di ciò che è vero e ciò che è falso: in particolare, gli studiosi si sono frequentemente interessati dell’attitudine probatoria degli atti dichiarativi, giungendo a precisare che il falso può ben definirsi in relazione alla distinzione tra i fatti e la loro rappresentazione. (cosiddetta teoria semantica del falso). Secondo tale corrente di pensiero, si registrerebbe quindi una falso qualora, presupposta l’attitudine probatoria di un documento, non sia dato riscontrare coincidenza tra un fatto e la sua rappresentazione giuridica.

Pertanto, secondo l’impostazione semantica, la rilevanza penalistica del falso è esclusivamente ipotizzabile in relazione alle dichiarazioni, ossia agli enunciati c.d. constatativi o dichiarativi, i quali si limitano a predicare l’esistenza o l’inesistenza di un fatto.

Questione spinosa, e non ancora compiutamente analizzata dagli studi di settore, attiene invece alla diversa categoria degli enunciati c.d. performativi, ossia quegli enunciati che realizzano nello stesso momento in cui vengono dichiarati lo scopo per i quali si enunciano (ad esempio: “La seduta è aperta”, “La riunione è sospesa”, etc.), e che rivestono la sola funzione di dare l’avvio ad una certa attività, senza potersi astrattamente inquadrare nel genus del vero o del falso.

Orbene, dal momento che l’attività della Pubblica Amministrazione è ricca di enunciati performativi, in giurisprudenza si è spesso affrontato il problema se da un enunciato performativo possa scaturire un falso in atto dispositivo della pubblica amministrazione.

Da ultimo la Suprema Corte, superando un precedente orientamento restrittivo, ha ritenuto che “è configurabile il delitto di falso ideologico in un atto pubblico a contenuto dispositivo nella cui parte descrittiva, che costituisce presupposto necessario alle susseguenti determinazioni, si afferma volutamente l’esistenza di una situazione di fatto contraria al vero, anche quando tale atto dispositivo sia un provvedimento giurisdizionale, purché la falsità della conclusione dispositiva assunta dal giudice dipenda non dalla invalidità delle argomentazioni, ma dalla falsità delle premesse fattuali dalle quali tali argomentazioni muovono” (così Corte di Cassazione, Sez. V, sentenza n. 20550 del 25 maggio 2007).

L’orientamento, ormai pacifico, costituisce il definitivo superamento dell’idea, seguita in tempi più risalenti, secondo cui “da un punto di vista naturalistico, il processo formativo della convinzione e della volontà umana non è necessariamente istantaneo ma è un processo che si sviluppa sovente in un lungo arco temporale. Ne consegue che anche la volontà di un collegio amministrativo, ancorché necessariamente espressa come a suo tempo posto in luce, in un momento appositamente individuato dalla legge che disciplina il procedimento, può essersi formata attraverso le elaborazioni psicologiche dei membri che lo compongono in un periodo di tempo antecedente rispetto alla data di effettiva assunzione della delibera, senza che ciò possa far ritenere che l’atto che attesti tale assunzione dia luogo ad un falso ideologico. Di qui la necessità di ribadire quanto già posto in luce in precedenza, in virtù dei principi già espressi da questa Corte, che il reato di falso ideologico non è ravvisabile negli atti a contenuto dispositivo in relazione ai quali, ove la volontà del pubblico ufficiale si sia illecitamente determinata sono semmai ravvisabili altri reati quali l’abuso d’ufficio, la corruzione, la concussione etc.” (così Corte di Cassazione, Sez. V, sentenza n. 9135 del 16 luglio 1999; conforme, Corte di Cassazione, Sez. V, sentenza n. 6385 del 3 maggio 1990).

Di siffatto principio, come si vedrà di qui ad un momento, hanno fatto giusto governo le Sezioni Unite nella pronuncia n. 35488 del 24 settembre 2007, nella quale occorreva risolvere la questione, che aveva dato adito a contrasti in giurisprudenza, se oltre al falso ideologico del privato ex art. 483 c.p., la condotta del pubblico ufficiale abbia dato luogo o meno ad un atto pubblico ideologicamente falso nei termini di cui all’art. 479 c.p. (e quindi rimproverabile al privato ex art. 48 c.p.), allo scopo di stabilire se il delitto relativo alla falsa attestazione del privato concorra con il delitto di falsità per induzione in errore del pubblico ufficiale nella redazione dell’atto pubblico al quale l’attestazione inerisca e quali siano le condizioni per la configurazione di questo secondo reato.

La giurisprudenza di legittimità, in fattispecie analoga, aveva del resto evidenziato che “integra il reato di falso ideologico in atto pubblico la falsa attestazione – contenuta nella delibera comunale di approvazione del Peep – sull’esistenza, nelle costruzioni oggetto della deliberazione, dei requisiti richiesti dalla legge per poter essere considerate di edilizia economica popolare, in quanto – pur costituendo l’approvazione del suddetto piano atto dispositivo, caratterizzato dalla discrezionalità della P.A. – la suddetta falsità costituisce il presupposto necessario dell’atto deliberativo” (Corte di Cassazione, Sez. V, sentenza n. 49017 del 21 settembre 2004; per un precedente similare, cfr. Corte di Cassazione, Sez. V, sentenza n. 4325 del 20 gennaio 1998). Pertanto le Sezioni Unite, valorizzando il precedente già reso nel 1995 dal Supremo Collegio nella sua più autorevole composizione, hanno ritenuto di dover propendere per il concorso dei due reati, sulla base dell’assunto secondo cui “autore mediato, responsabile ex art. 48 c.p., è chi con inganno determina in altri l’errore sul fatto costituente reato fatto che l’autore immediato commette in buona fede. Ad integrare la responsabilità ex art. 48 c.p. è quindi necessario e sufficiente che venga posta in essere una condotta causalmente e consapevolmente correlata all’induzione in errore di chi dovrà commettere il fatto costituente reato” (così le Sezioni Unite, sentenza n. 1827 del 24 febbraio 1995), partendo dal pacifico presupposto dell’avvenuta integrazione, nel caso in esame, dell’art. 483 c.p., non essendo stata contestata la redazione di false dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà.

Le conclusioni tracciate dalle Sezioni Unite, le quali scaturiscono dall’assunto di fondo in base al quale il pubblico ufficiale, che riceve le dichiarazioni mendaci dei privati, si appropria del contenuto dei documenti prodotti, avevano trovato un’anticipazione dogmaticamente esaustiva in una quasi coeva sentenza resa dalle sezioni semplici: “Non integra gli estremi del delitto di falso ideologico in atto pubblico commesso dal pubblico ufficiale indotto in errore dal privato, ma quello di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico la condotta di colui che attesti falsamente al conservatore del registro delle imprese il possesso dei requisiti necessari per l’iscrizione nel registro delle imprese, considerato che il privato è autore mediato del delitto di falso di cui agli art. 48 e 479 c.p., a condizione che egli induca in errore il pubblico ufficiale, con la conseguenza che, ove l’attività del pubblico ufficiale non si limiti a recepire le dichiarazioni del privato ma sia preordinata ad accertarne la reale conformità ai dati richiesti dalla legge, come nella specie, in cui il controllo del conservatore ha escluso l’evento della richiesta iscrizione, non sussiste il falso per induzione in errore, pur restando ferma la falsità dell’attestazione del privato ai fini dell’art. 483 c.p.” (così Corte di Cassazione, sez. V, sentenza n. 7664 del 31 gennaio 2007).

Nel porre come alternativa la concretizzazione delle due figure delittuose, la Suprema Corte ha consentito alle Sezioni Unite, ragionando a contrario di affermare decisamente che l’attività del pubblico ufficiale che si limiti ad un mero recepimento delle affermazioni dei privati (come si è verificato nell’ipotesi qui commentata) può configurare entrambi i delitti contro la fede pubblica.

Difatti, è configurabile la fattispecie descritta dall’art. 483 c.p. esclusivamente nel caso in cui il pubblico ufficiale si limiti a riportare, nell’atto destinato a provarne la verità, le dichiarazioni provenienti dal privato, in quanto, in una simile evenienza, a carico dello stesso pubblico ufficiale non è ipotizzabile, neanche dal punto di vista oggettivo, alcuna falsità; qualora invece la falsa dichiarazione sia solo uno degli elementi dell’inganno, determinandosi, il pubblico ufficiale, per effetto della fraudolenta rappresentazione, non semplicemente a riprodurre nell’atto le dichiarazioni resegli, ma a una diretta attestazione di verità del fatto, viene a concretizzarsi la previsione di falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale, conseguente a induzione in errore dello stesso.

Non va tuttavia conclusivamente sottaciuto che i primi commentatori delle Sezioni Unite – ai quali chi scrive sente di aderire –, seppur elogiando la sistematicità della ricostruzione ivi fornita, hanno criticato l’approccio eccessivamente rigoristico scaturente dall’acclarata configurabilità del concorso formale dei due reati di cui all’art. 479 e 483 c.p., all’uopo sostenendo che l’indirizzo repressivo della giurisprudenza risulterebbe contrastante con il frammentario metodo casistico che ha orientato il legislatore del codice Rocco nella classificazione delle fattispecie delittuose in tema di falso e che, se spinto alle estreme conseguenze in chiave esegetica, tale criterio possa condurre ad un ingiustificato aggravio del carico sanzionatorio, in violazione del canone della consunzione (o della sua sottospecie dell’assorbimento).

Nel medesimo torno temporale, è poi una questione di stampo processuale (precisamente, in tema di richiesta di archiviazione) a fornire alle Sezioni Unite (con la sentenza n. 46982 del 18 dicembre 2007) l’occasione per raggiungere un essenziale punto fermo sul tema, da sempre dibattuto in dottrina e foriero di perenni oscillazioni giurisprudenziali, del bene giuridico tutelato dalle molteplici incriminazioni di falso presenti nel corpo del codice penale e nella legislazione speciale.

Tuttavia, per affrontare con cognizione di causa la disamina degli orientamenti in campo, sui quali peraltro le Sezioni Unite si soffermano con dovizia di particolari redigendo una pronuncia assolutamente didascalica, occorre spendere qualche breve considerazione di teoria generale, e soprattutto rammentare la canonica distinzione, profondamente scandagliata in dottrina, fra la concezione formale del reato (secondo cui il reato viola le norme di obbedienza e va sanzionato per la contrarietà che il reo manifesta nei riguardi dei consociati) e la concezione sostanziale del reato (che valorizza la lesione del bene giuridico e l’offesa ad esso arrecata dal reo).

I fautori del principio di offensività guardano quindi alla predetta concezione sostanziale, argomentando come da molteplici disposizioni costituzionali (si pensi agli articoli 2, 3, 13, 25 e 27) sia possibile desumere l’esistenza in nuce nel nostro ordinamento di un moderno canone di offensività; opzione vieppiù confermata dall’articolo 49 c.p. che, interpretato difformemente dal disposto dell’articolo 56 c.p., costituirebbe un aggancio normativo indiscutibile per l’espressione del canone suddetto.

Le critiche dottrinali tese a smentire una ratio giustificatrice dell’art. 49 c.p. sono, com’è noto, numerose e spesso pertinenti, ma nella materia dei reati di falso il riferimento al bene giuridico tutelato va opportunamente integrato con le nozioni generali in materia di offensività, al fine di cogliere l’essenza fattuale dei reati di falso per come pluralisticamente ricostruiti nell’armamentario sanzionatorio vigente.

Sul punto si può allora concordare con chi sostiene che la concezione realistica, escludendo la punibilità di comportamenti conformi al tipo legale ma inoffensivi, fornisce un valido appiglio dogmatico per la risoluzione di alcuni casi pratici. Si esclude così la punibilità nelle ipotesi di falso grossolano, innocuo od inutile; di accuse calunniose paradossali od incredibili; di spaccio di sostanze prive di effetto drogante per insufficienza di principio attivo in esse contenuto; di furto su cose di insignificante valore; di truffa commessa con artifici e raggiri talmente palesi da essere avvertiti anche dalla persona più ingenua; di detenzione di un solo giocattolo pirico o di un quantitativo minimo di esplosivo.

In particolare, l’esclusione della punibilità del falso “inutile” trova la sua ragion d’essere nella particolare struttura di tale fattispecie di falso, caratterizzata da una produzione documentale alterata in maniera irrilevante o ininfluente ai fini della situazione giuridica che il documento stesso regola in via astratta.

Siffatta accezione, costruita dalla dottrina e dalla giurisprudenza maggioritarie, consente di distinguere l’istituto dalle categorie affini del “falso grossolano”, ossia eseguito in una maniera talmente approssimativa da non ingannare alcuno, e del “falso “innocuo”, orchestrato sì da non aggredire effettivamente gli interessi posti a tutela della norma incriminatrice. Differenti – per completezza – i risultati cui la giurisprudenza è pervenuta in tema di falso c.d. consentito, cioè quel particolare falso compiuto dal pubblico ufficiale nonostante il consenso alla lesione del titolare dell’atto o del rapporto cui l’attività falsificatrice inerisce.

Su tutte queste categorie, del resto, le Sezioni Unite si soffermano con peculiare esaustività, sposando conclusivamente il principio patrocinato dalle sezioni semplici secondo cui “in tema di delitti contro la fede pubblica, la facoltà di proporre opposizione alla richiesta di archiviazione può competere anche al denunziante. Tale categoria di reati infatti, essendo idonea a ledere anche la sfera giuridica dei soggetti nei cui confronti l’atto, il documento o la falsa dichiarazione vengono fatti valere, ha carattere plurioffensivo, che li rende non assimilabili, sotto tale profilo, ai delitti contro la amministrazione della giustizia. Questi ultimi, integrano fattispecie lesive dell’interesse della collettività al corretto procedere della giurisdizione, con la conseguenza che l’interesse del privato può assumere rilievo solo riflesso e mediato” (così, testualmente, Cass. Pen., sez. V, sent. n. 25143 del 20 giugno 2001; cfr. sul punto anche Cass. Pen., sez. V, sent. n. 43703 del 30 dicembre 2002; Cass. Pen., sez. V, sent. n. 7562 del 23 febbraio 2004).

Con il principio di diritto enucleato a fine 2007, il Supremo Collegio finisce per accentuare le perplessità che già nel 2005 (sent. n. 45706 del 16 dicembre 2005) erano state manifestate da un interessante arresto della Sezione Quinta. La Sezione, nel caso in esame, aveva infatti esordito affermando che “in via immediata e diretta, il bene giuridico protetto dai reati di falso in atto pubblico va difatti individuato nella fede pubblica, e cioè “nella fiducia che la collettività ripone nella verità e genuinità di determinati documenti e nella correlativa speditezza e certezza della loro circolazione” (Sez. V, Sentenza n. 43703 del 5 novembre 2002) “non potendosi qualificare persona offesa, avente diritto all’avviso, il mero danneggiato da reati di falso che offendono direttamente e specificamente l’interesse pubblico e solo indirettamente di riflesso ledono l’interesse del singolo (Cass., sez. V, n. 40484/02 e 28608/01)”, (Sez. V, Sentenza n. 7562 del 15 gennaio 2004)”.

Subito dopo, tuttavia, la stessa Corte si premurava di dare conto di diversa opzione ricostruttiva: “È ben vero che è stato altresì affermato, in via di mera ipotesi, che “il falso in atto pubblico, a seconda del suo tenore, può ledere la certezza di diritti soggettivi, oltre che l’interesse pubblico. Pertanto, se l’attestazione contraria al vero concerne un fatto che si connette direttamente ad un diritto soggettivo o al suo esercizio, il titolare del diritto è persona direttamente offesa dal reato cui spettano, quale denunciante, le facoltà riconosciutegli nel procedimento penale a fronte della richiesta di archiviazione del p.m.”. (Sentenza n. 7562 del 15.1.2004 citata). E che perciò alla luce di tale decisione la qualità di persona offesa potrebbe essere rivestita anche dal privato denunziante la cui posizione giuridica sia oggetto della pubblica attestazione e sia perciò direttamente incisa dalla sua falsità. Nella specie, tuttavia, la denunciata falsità dell’ordinanza di sgombero dei locali occupati dai denuncianti non concerneva né investiva direttamente la situazione giuridica di costoro e neppure il “titolo” della occupazione dei locali, ma atteneva alla (presunta, secondo i ricorrenti) esistenza di un pericolo di crollo. Sicché anche alla luce della, peraltro isolata, decisione sopra richiamata in relazione al falso prospettato in denuncia i ricorrenti potevano lamentare di essere danneggiati, ma non rivendicare la veste di persone offese. Le diverse circostanze di fatto della situazione venuta all’interesse della Corte nel 2005 avevano quindi precluso di saltare il guado già in quell’occasione (cfr. altresì conforme Cass. Pen., sez. V, sent. n. 11669 del 24 marzo 2005) ma, per fortuna, l’arcaica opinione della natura monoffensiva dei reati di falso è stata da ultimo messa in soffitta.

Nondimeno l’autorevole pronuncia delle Sezioni Unite, seppur destinata ad avere notevole incidenza nella regolazione delle controversie, non sembra – allo stato – idonea a sovvertire un consolidato orientamento interpretativo della Sezione Quinta (cfr. sent. n. 11240 del 13 marzo 2008; conformi Cass. Pen., sez. V, sent. n. 31482 del 2 agosto 2007; Cass. Pen., sez. V, sent. n. 3028 del 5 marzo 1999 e Cass. Pen., sez. II, sent. n. 13031 del 14 dicembre 2000) la quale, ponendosi nel solco di consolidata opzione e disattendendo la precedente statuizione del Supremo Collegio, espressamente sostiene che “secondo insegnamento ormai assolutamente costante di questa Corte ciò che rileva ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 474 c.p., il quale si propone di tutelare la fede pubblica (intesa come affidamento nei marchi o nei segni distintivi che individuano le opere dell’ingegno o i prodotti industriali) e non gli acquirenti, è esclusivamente la possibilità di confusione tra i marchi, rimanendo indifferente che il compratore stante le diversità riscontrate in dati estranei agli stessi – quali la qualità del prodotto, il prezzo, il luogo dell’esposizione, la figura del venditore – sia in grado di escludere la genuinità del prodotto. Al contempo va puntualizzato che si ha contraffazione in senso stretto quando v’è riproduzione integrale, in tutta la sua configurazione emblematica e denominativa, di un marchio, mentre si realizza alterazione quando v’è imitazione fraudolenta o falsificazione parziale, ma tale da creare confusione con il segno distintivo originario: al fine di individuare una siffatta situazione è sufficiente, ma imprescindibile un raffronto tra i segni in sè considerati, posto che nell’ambito del reato di cui sopra ciò che incide è la possibilità di confusione del marchio e non del prodotto”. Per cui, anche se con precipuo riferimento al delitto di cui all’art. 474 c.p., la Suprema Corte mostra di non avere ancora cementato un orientamento univoco, ragion per cui il dibattito, anche in considerazione della frequente emersione statistica del reato di vendita di commercio di prodotti con segni falsi, può dirsi lungi dall’essere sopito.

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