Tema svolto di diritto penale: riserva di legge ed ordinamento comunitario

Si soffermi il candidato sui rapporti tra ordinamento sovranazionale e nazionale in materia penale, con particolare riguardo ai reati relativi alla gestione delle scommesse sportive.

Riserva di legge penale ed ordinamento comunitario

di Elena Gallizia

Nell’ambito della trattazione dedicata al principio di legalità in materia penale, con particolare riguardo alle problematiche riguardanti il principio di riserva di legge e il cd. sistema delle “fonti” del diritto penale, la tematica dei rapporti tra ordinamento sovranazionale e ordinamento nazionale in materia penale ha ormai assunto una posizione di assoluto rilievo, data la sempre maggiore influenza che le fonti sovranazionali svolgono nel diritto penale moderno.

Il tema che si va affrontando impone di indagare se sia consentito e, in caso positivo, quale ne sia l’ampiezza, un intervento, una incidenza delle fonti del diritto sovranazionale sul diritto penale interno. Come accennato tale indagine dovrà essere svolta assumendo quale parametro di valutazione il principio costituzionale di legalità e di riserva di legge in materia penale, solennemente sancito dall’art. 25, comma 2, Cost. in base al quale “Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.”

In sostanza, il quesito cui si cercherà di fornire una risposta attiene all’ampiezza della nozione di “legge” accolta dalla norma costituzionale citata, valutandosi in particolare se essa attenga soltanto alla legge statale oppure se sia compatibile con essa un qualche spazio di intervento delle fonti del diritto sovranazionale.

Una precisazione preliminare, per quanto scontata, pare doverosa: il tema che si affronta non riguarda le ipotesi nelle quali la fonte sovranazionale sia recepita nell’ordinamento interno attraverso un atto di normazione primaria (si pensi alle leggi di ratifica dei trattati internazionali), dal momento che, in tal caso, il principio di riserva di legge è pienamente rispettato, rimanendo in capo al legislatore nazionale il monopolio della legislazione penale.

La tematica che si analizza, invece, attiene alle ipotesi nelle quali la normativa sovranazionale incide direttamente sulle norme penali interne, senza che vi sia la mediazione dell’organo legislativo statale.

Tale “influenza diretta” della normativa nazionale sul diritto penale interno riguarda principalmente, nel nostro ordinamento, l’incidenza diretta delle norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e delle sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo nonché l’influsso delle fonti comunitarie.

Trattando delle norme contenute nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo deve darsi atto del superamento della tesi tradizionale che negava la loro immediata precettività nell’ordinamento degli Stati aderenti e richiedeva singoli e specifici atti interni di recepimento e specificazione dei principi enucleati dalla Convenzione. La tesi oggi assolutamente prevalente in dottrina e in giurisprudenza è quella della immediata precettività delle norme della CEDU all’interno del nostro ordinamento, fatta eccezione per quelle disposizioni così generiche e indeterminate da non risultare idonee a delineare con sufficiente precisione un precetto.

Secondo la tesi recentemente affermata dalla Consulta nelle sentenze 348 e 349 del 2008, alla luce del disposto dell’art. 117, comma 1, Cost., le norme della CEDU, come interpretate dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, assumono nel nostro ordinamento rango sub costituzionale, fungendo da parametro costituzionale di legittimità della normativa emanata dal legislatore nazionale; in altre parole, laddove il legislatore statale emanasse una normativa contrastante e violativa dei principi sanciti nella Convenzione, tale normativa sarebbe passibile di essere giudicata costituzionalmente illegittima per violazione dell’art. 117, comma1, Cost.: tale disposizione costituzionale, invero, esige che la potestà legislativa dello Stato e delle Regioni sia esercitata nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali e sarebbe indubbiamente violata in caso di contrasto della normativa interna con le norme della CEDU.

Non è chi non veda la dirompenza del fenomeno di integrazione-interferenza del diritto sovranazionale – con particolare riguardo alle disposizioni della CEDU – sull’ordinamento interno che si è appena descritto.

Una applicazione pratica di quanto si è finora affermato in tema di immediata precettività è influenza delle norme e dei principi della CEDU nel diritto interno si è avuta nel cd. caso Giuliani, laddove la Corte di Cassazione, sulla scorta del principio di immediata precettività delle norme CEDU ha effettuato una vera e propria integrazione normativa del diritto penale interno; incidendo sulla causa di giustificazione dell’uso legittimo delle armi (art. 53 c.p.) e facendovi rientrare l’ipotesi dell’uso della forza giustificato dall’esigenza di procedere ad un arresto regolare in applicazione dell’art. 2, comma 2, lett b) della Convenzione (in base al quale “La morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario …omissis…per eseguire un arresto regolare”).

Altro e diverso ambito nel quale si registra una possibile “contaminazione” tra diritto sovranazionale e diritto interno è quello che attiene all’incidenza del diritto comunitario sul diritto penale statale, laddove per diritto comunitario, secondo la ricostruzione unanimemente accolta dalla dottrina e dalla giurisprudenza nazionale, devono intendersi le fonti del diritto dell’Unione (regolamenti, direttive e decisioni) e i principi sanciti dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee.

Riflessione preliminare alla trattazione che si va affrontando è quella che attiene al cd. principio di primazia del diritto comunitario.

Secondo quanto pacificamente riconosciuto a seguito della lunga elaborazione effettuata in materia dalla Corte Costituzionale, il diritto interno non può essere in contrasto con i principi e i precetti stabiliti dal diritto contrario; nel caso in cui il giudice nazionale, nell’ambito di una controversia, dovesse ritenere che la soluzione del caso concreto possa essere fornita solo attraverso l’applicazione di una norma interna viziata per contrasto con il diritto comunitario, nel rispetto del principio di primazia dovrà disapplicare la norma interna viziata e fornire una soluzione del caso rispettosa del diritto dell’Unione.

Passando ad un maggiore livello di approfondimento della tematica oggetto di esame, occorre valutare quali siano gli spazi di contatto e interferenza tra il diritto comunitario e quello nazionale in materia penale, alla luce del citato principio di primazia del diritto comunitario e del principio costituzionale di riserva di legge in materia penale, principio garantista che, operando in un’ottica di favor rei, esige che il monopolio della normazione penale sia affidato alla legge.

Secondo uno schema spesso utilizzato nelle ricostruzioni dottrinali, le ipotesi di interferenza del diritto comunitario su quello nazionale si sviluppano in una triplice direzione.

La prima, più ampia, induce a indagare se sia conforme ai principi del diritto interno e del diritto comunitario, l’esistenza di un diritto penale comunitario, di diretta emanazione delle Istituzioni dell’Unione Europea; in altre parole si tratta di stabilire se l’ordinamento comunitario possa prevedere norme incriminatrici che operano direttamente all’interno degli Stati membri.

La risposta al quesito ora brevemente descritto non può che essere negativa, alla luce delle seguenti osservazioni.

In primo luogo deve sottolinearsi il deficit di democraticità che caratterizza gli atti normativi dell’Unione: il potere legislativo, all’interno dell’Unione, spetta prevalentemente al Consiglio, organo composto dai rappresentanti dei Governi degli Stati membri, mentre al Parlamento Europeo, unico organismo dotato di legittimazione democratica (in quanto i suoi membri sono eletti direttamente dai cittadini degli Stati membri), è devoluta una potestà normativa assolutamente residuale.

Come è noto il principio di legalità impone che il monopolio in materia di normazione penale sia devoluto all’organo parlamentare, unica istituzione idonea a garantire che le norme penali siano il frutto di una corretta dialettica tra maggioranza e opposizione e di un confronto legittimo che veda rappresentati gli interessi di tutti i cittadini, contro eventuali arbitri delle maggioranze di Governo.

Ammettere che un organo come il Consiglio UE abbia legittimazione ad emanare norme incriminatrici direttamente efficaci e, peraltro, destinate a prevalere sul diritto interno costituirebbe un inaccettabile vulnus al principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost., principio fondamentale del nostro ordinamento, che si pone come limite al principio di primazia del diritto comunitario.

In seconda battuta si rileva che in tutta la normativa comunitaria non è dato rinvenire alcun dato letterale che possa in qualche modo far ritenere l’esistenza di un potere di normazione diretta, in materia penale, delle Istituzioni comunitarie.

Infine si richiama l’art. 117, comma 2, lett. l) Cost., nella parte in cui sancisce la potestà legislativa esclusiva dello Stato (nazionale) in materia di “ordinamento penale.”

La seconda ipotesi che occorre esaminare attiene ai rapporti tra legislatore comunitario e legislatore nazionale e impone di valutare se il legislatore comunitario possa “imporre” a quello nazionale di introdurre norme incriminatrici che tutelino beni di rango comunitario, o se comunque possa in qualche modo demandare al legislatore nazionale l’adozione di norme sanzionatorie di beni e valori attinenti al diritto dell’Unione.

E’ evidente che ove si accordasse al legislatore comunitario il potere di imporre a quello nazionale alcune scelte di criminalizzazione, tale meccanismo non costituirebbe altro che il mezzo per realizzare ciò che si è appena stigmatizzato come configgente con il principio costituzionale di legalità; pertanto si deve negare un tale potere in capo al legislatore comunitario.

Più complesso è il discorso che attiene alla facoltà del legislatore comunitario di richiedere l’intervento della normazione statale, allo scopo di prevedere, in una data materia, sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, lasciando tuttavia al legislatore nazionale la scelta definitiva sul livello di afflittività della sanzione in concreto comminata.

In questo caso, invero, il principio di legalità pare rispettato, dal momento che il potere di scegliere quale sanzione in concreto comminare (e quindi se ricorrere alla sanziona penale) è lasciato in capo al legislatore nazionale; occorre tuttavia sottolineare che la scelta demandata al legislatore nazionale non è del tutto libera, dal momento che la norma comunitaria richiede che esse risponda a determinate caratteristiche.

In materia deve inoltre ricordarsi che la Corte di Giustizia delle Comunità Europee ha elaborato il cd. principio di assimilazione o di non discriminazione, che stabilisce un vero e proprio obbligo degli Stati membri di sanzionare le violazioni del diritto comunitario in condizioni sostanziali e processuali analoghe a quelle previste per la violazione del diritto interno di beni di natura ed importanza similari, se del caso anche prevedendo sanzioni penali.

In applicazione del principio ora descritto il legislatore nazionale ha previsto numerose fattispecie penali interne, tra le quali, in via meramente esemplificativa, possono annoverarsi quelle previste dagli artt. 316 bis e ter c.p., il reato di cui all’art. 640 bis c.p. e, più esplicitamente, la norma di cui all’art. 322 bis c.p. che sancisce l’applicazione delle sanzioni previste dagli artt. 314, 316, da 317 a 320 e 322 c.p. alle ipotesi di peculato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi delle comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri.

Il terzo ambito di indagine attiene al cd. incidenza riflessa del diritto comunitario su quello interno, dal momento che, come già accennato, il diritto comunitario tende a regolare settori sempre maggiori della vita e delle varie attività dei consociati e tale fenomeno crea spazi sempre maggiori di interferenza tra i due ordinamenti, anche nel campo della normazione penale.

Nell’affrontare tale tematica è necessaria una preliminare distinzione, dal momento che l’incidenza del diritto comunitario su quello nazionale può astrattamente operare in una duplice direzione, determinando effetti sfavorevoli al reo (incidenza in malam partem), oppure in bonam partem.

Deve escludersi che il diritto comunitario possa comportare, attraverso la sua applicazione diretta e il principio di primazia che lo caratterizza, effetti sfavorevoli per il reo.

Ciò discende dalle osservazioni precedentemente svolte in tema di contrasto con il principio di legalità e con lo stesso sistema comunitario che non prevede un potere di normazione penale incriminatrice da parte delle Istituzioni dell’Unione: evidentemente se è precluso al legislatore comunitario di emanare norme penali incriminatrici, allora inevitabilmente deve essere escluso che egli possa ampliare la sfera di operatività di una norma incriminatrice già esistente o comportare l’aggravamento della disciplina penale di una fattispecie.

In caso di contrasto tra una norma interna e una norma comunitaria che incide in malam partemsulla disciplina applicabile al reo, il principio di primazia del diritto comunitario troverà un limite nel rispetto del principio di legalità e di riserva di legge, principio annoverato tra i principi generali dell’Unione, riconosciuti e tutelati da tutti gli ordinamenti degli Stati membri.

Senza entrare nel merito, giacchè la trattazione specifica di tale questione esulerebbe dall’ambito del presente tema, si segnala una recente applicazione dei principi appena esposti da parte della Corte di Giustizia delle Comunità europee in materia di false comunicazioni sociali. Chiamata ad esprimersi sulla compatibilità della nuova disciplina del reato di false comunicazioni sociali di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c. con le direttive emanate in materia di diritto societario dall’Unione, la Corte ha chiarito che l’applicazione della normativa comunitaria non può mai avere – di per sé, senza l’intermediazione di una norma interna di attuazione –l’effetto di determinare o aggravare la responsabilità penale del soggetto che ha agito in violazione della detta disposizione.

Escluso quindi che la normativa comunitaria possa comportare effetti sfavorevoli per il reo, deve valutarsi la possibile incidenza in bonam partem della normativa comunitaria.

Secondo la dottrina e la giurisprudenza dominanti l’operatività della normativa comunitaria in favor rei non pone problemi di compatibilità con il principio di riserva di legge, esprimendo e assecondando la ratio garantista che lo caratterizza, senza incidere sull’assenza di potestà normativa incriminatrice degli organi comunitari.

Numerose sono le ipotesi nelle quali si può ravvisare, ed è stata anche concretamente ravvisata dal giudice nazionale, l’efficacia diretta in bonam partem del diritto comunitario in ambito penale; si pensi alle ipotesi di colpa specifica, con particolare riguardo al caso in cui la normativa comunitaria preveda una regola cautelare meno restrittiva di quella imposta dal diritto nazionale: un soggetto che abbia tenuto una condotta connotata da profili di colpa secondo il diritto interno e tuttavia rispettosa dei canoni cautelari richiesti dalla regola comunitaria non potrà essere considerato in colpa, data la piena operatività, nel caso in esame, del principio di primazia del diritto comunitario; si pensi ancora alla possibile incidenza del diritto comunitario sull’ampiezza della scriminante di cui all’art. 51 c.p., che prevede l’esimente dell’esercizio del diritto: la questione è stata affrontata in relazione al reato di cui all’art. 348 c.p. che sanziona l’esercizio abusivo di una professione ed ha coinvolto un caso nel quale, in applicazione del principio di primazia del diritto, il giudice nazionale ha disapplicato la normativa nazionale che prevedeva restrizioni al libero esercizio della professione di avvocato in territorio nazionale, per contrasto con il diritto comunitario, che invece tutela il libero esercizio della professione di avvocato all’interno degli Stati membri.

La tematica finora analizzata, che attiene ai rapporti tra diritto nazionale e diritto comunitario e all’incidenza in bonam partem del diritto comunitario sul diritto interno degli stati membri, è stata oggetto di approfondita analisi da parte della dottrina e di numerose – a volte contrastanti – pronunce della giurisprudenza nazionale e comunitaria con riguardo alla compatibilità comunitaria della disciplina nazionale che regola e sanziona l’esercizio dell’attività di raccolta e gestione delle scommesse sportive.

Il sistema delineato dalla normativa nazionale prevede che l’attività di raccolta del gioco e delle scommesse, possa essere esercitata alle seguenti condizioni: 1) ottenimento di una concessione da parte dello Stato; 2) tale concessione può essere ottenuta – entro i limiti quantitativi previsti dal legislatore – all’esito della partecipazione ad una gara; 3) prima della modifica legislativa avvenuta nel 2002 alla detta gara non potevano partecipare le società con azioni quotate in mercati regolamentati, dal momento che non garantivano la riconoscibilità e l’individuazione dei soci; a seguito di tale modifica tutte le società, senza alcuna limitazione di forma, possono partecipare alla gara, ma la limitazione imposta dal regime previgente rischia di continuare a produrre effetti a causa del regime delle rinnovazioni; 4) ottenimento di una licenza di polizia, ai sensi dell’art. 88 T.U. Leggi di Pubblica Sicurezza (che peraltro può essere concessa soltanto a coloro che hanno già ottenuto la concessione).

A presidio del sistema ora descritto sono previste sanzioni penali, in particolare si allude all’art. 4, legge n. 401/1989, che sanziona l’esercizio abusivo del gioco o della scommessa.

Chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità della normativa sopra descritta con i principi comunitari di libertà di stabilimento e libera prestazione di servizi, la Corte di Giustizia delle Comunità Europee, nella sentenza Gambelli del 2003, ha stabilito che indubbiamente la normativa italiana che disciplina la gestione delle scommesse sportive, sanzionando penalmente l’esercizio della detta attività in assenza della concessione emanata dallo Stato membro, si traduce in una restrizione dei principi comunitari di cui agli artt. 43 e 49 del Trattato.

Come è noto, tuttavia, restrizioni ai detti principi sono da ritenersi ammissibili, secondo quanto previsto dal Trattato e in adesione ai principi più vote fissati dalla stessa Corte, nel caso in cui vangano in rilievo motivi imperativi di interesse generale e le restrizioni risultino idonee e proporzionate rispetto agli obiettivi da raggiungere e siano applicate in modo non discriminatorio.

La Corte pertanto ha demandato al giudice nazionale la valutazione del rispetto dei principi sopra riportati da parte della normativa nazionale, ammonendo tuttavia l’interprete statale che tra le esigenze che possono giustificare tali restrizioni non possono assolutamente rientrare valutazioni di ordine fiscale (decremento delle entrate erariali che deriverebbe dalla “liberalizzazione” dell’attività di gestione delle scommesse) e che difficilmente può ravvisarsi la compatibilità di gravi restrizioni – quali quelle previste dalla normativa italiana – laddove lo Stato membro persegua una politica di incentivazione e espansione del gioco.

L’intervento della Corte di Giustizia, tuttavia, non riuscì a dirimere il vivace dibattito ed il contrasto giurisprudenziale creatosi nella giurisprudenza interna: secondo un primo orientamento, maggiormente rispettoso del dictum della Corte CE, i reati previsti dall’art. 4, legge 401/1989 dovevano essere disapplicati, in quanto integranti restrizione sproporzionata e non giustificata delle libertà comunitarie, emanata da uno Stato membro che persegue una forte politica di incentivazione del gioco; secondo altra tesi, invece, i reati previsti in tema di esercizio abusivo del gioco e della scommessa dovevano ritenersi compatibili con il diritto comunitario, in quanto volte a tutelare l’ordine pubblico e a scongiurare la degenerazione criminale di attività del tipo di quelle sottoposte alla disciplina restrittiva.

Tale ultimo orientamento venne accolto e confermato dalle sezioni Unite della Corte di Cassazione (2004) che, attraverso una lettura non del tutto rispettosa dei principi stabiliti nella sentenza Gambelli, sancirono la compatibilità della disciplina nazionale con quella comunitaria, argomentandola sulla base di una accentuazione dei profili di tutela dell’ordine pubblico e di prevenzione delle possibili infiltrazioni criminali che spesso accompagnano le attività di cui si tratta che caratterizzano la normativa nazionale. La Corte, pur ammettendo che lo Stato Italiano attuava una politica di espansione del settore del gioco e della scommessa, stabilì che l’obiettivo principale perseguito attraverso la previsione di restrizioni all’esercizio dell’attività in questione era quello di canalizzare tale attività in circuiti controllabili, onde prevenirne possibili degenerazioni criminali, motivo imperativo di interesse generale che giustificava le restrizioni. Quanto alla limitazione che caratterizzava l’accesso alle gare per l’ottenimento della concessione da parte dello Stato italiano, le Sezioni Unite si limitarono a rilevare che i profili di incompatibilità del sistema di accesso dovevano ormai ritenersi superati grazie all’intervento del legislatore del 2002, che aveva riformato il sistema, ristabilendo la proporzionalità della misura restrittiva in questione.

I principi affermati dalla Suprema corte, tuttavia, non vennero recepiti da larga parte della giurisprudenza, la quale facendo applicazione delle indicazioni fornite dalla Corte di Giustizia e in un’ottica di favor rei continuò a disapplicare la normativa nazionale che sanzionava penalmente l’esercizio abusivo dell’attività di gioco e scommessa. Inoltre numerose furono le pronunce che stigmatizzarono l’illegittimità del perdurante (fino al 2012) regime di restrizione che caratterizzava l’accesso alle gare per l’ottenimento delle concessioni, dal momento che il sistema sarebbe andato a regime solo con la scadenza delle precedenti concessioni oggetto di rinnovo.

La corte di Giustizia delle Comunità Europee, perciò è stata nuovamente chiamata a pronunciarsi.

Si è trattato di valutare la compatibilità della normativa italiana in tema di esercizio della attività di gestione e raccolta delle scommesse, con riguardo alle ipotesi penalmente sanzionate previste dall’art. 4 bis della legge n. 401/1989, in una ipotesi nella quale la sanzione penale era volta a punire la condotta di un operatore italiano (privo della concessione e della licenza di polizia) che fungeva da intermediario nella attività di raccolta delle scommesse per conto di un bookmaker straniero, anch’esso privo della concessione italiana (per non averla potuta ottenere a causa delle restrizioni all’accesso alle gare) e tuttavia in regola con la normativa che disciplina l’attività di gestione delle scommesse nel proprio Stato membro.

Nella sentenza Placanica (2007) la Corte di Giustizia ha nuovamente analizzato la normativa italiana, condividendo i principi sanciti dalla Corte di cassazione nella sentenza Gesualdi, sulla legittimità delle restrizioni da questa imposte, a tutela dell’ordine pubblico e allo scopo di arginare il grave fenomeno di infiltrazioni criminali all’interno di società esercenti l’attività di raccolta e gestione delle scommesse.

A tal proposito la Corte ha riconosciuto la efficacia e la proporzionalità del sistema italiano che garantisce il controllo e il monitoraggio dei soggetti ammessi ad esercitare tale attività, attraverso il meccanismo della concessione e della licenza di polizia.

La Corte, tuttavia, con particolare riguardo al regime di restrizioni che caratterizza(va) l’accesso alle gare per l’ottenimento della concessione – le società con azioni quotare non erano ammesse a partecipare a causa dell’anonimato degli azionisti- ha ravvisato una vistosa sproporzione tra la sanzione penale prevista dalla normativa interna e l’obiettivo perseguito di evitare infiltrazioni criminali.

Pertanto ha sancito l’incompatibilità comunitaria, per violazione del principio di libertà di esercizio dei servizi, della normativa italiana, nella parte in cui prevede l’applicazione di sanzioni penali nei confronti di soggetti che svolgono attività di intermediazione nell’attività di gestione delle scommesse per conto di società quotate in mercati regolamentati aventi sede in Stati membri dell’Unione (in regola con le prescrizioni previste dal loro Stato membro di appartenenza) che non hanno potuto partecipare alle gare per l’ottenimento della concessione in violazione del diritto comunitario (art. 4 bis, l. 401/1998)

I principi affermati dalla Corte di Giustizia delle Comunità europee sono stati successivamente accolti e ribaditi dalla giurisprudenza nazionale, pronunciatasi più volte in materia, anche a Sezioni Unite.

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