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Tema svolto di diritto penale: tentativo e circostanze

Premessi brevi cenni sul potere di determinazione della pena, si soffermi il candidato sull’ammissibilità del tentativo circostanziato di delitto e del tentativo di delitto circostanziato con particolare riferimento all’ipotesi di cui all’art. 62 n. 4 c.p. (danno di lieve tenuità).

Svolgimento a cura di Federica Donati.

 

Nel nostro ordinamento, in virtù di quanto stabilito dall’art. 132 c.p., la commisurazione della pena è rimessa al potere discrezionale del giudice, al quale spetta la scelta del tipo di sanzione da applicare per il fatto commesso, nonché la determinazione dell’ammontare di pena da infliggere in concreto sulla base di minimi e massimi legislativamente predeterminati.

In particolare, il legislatore ha avvertito la necessità di delegare al giudice il compito di valutare tutti gli aspetti del fatto rilevanti per giungere ad un trattamento sanzionatorio sufficientemente individualizzato, così da dare applicazione, come evidenziato dalla Corte Costituzionale, al principio d’uguaglianza, al principio della personalità della responsabilità penale e al principio del finalismo rieducativo della pena.

Occorre comunque sottolineare come, secondo l’opinione dominante, il potere discrezionale del giudice abbia carattere vincolato, dovendo essere esercitato all’interno di limiti predeterminati dal legislatore. Tali vincoli possono essere individuati, oltre che nel quadro edittale della pena, negli indici di commisurazione della stessa forniti dall’art. 133 c.p. e nell’obbligo di motivazione contemplato dall’art. 132 c.p., il quale, nell’enunciare espressamente il potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena, sancisce l’obbligo di motivazione in relazione all’uso del potere in questione onde, consentire la possibilità di un controllo giurisdizionale.

La dottrina ha altresì elaborato una classificazione sistematica di criteri guida per la commisurazione della pena.

Innanzitutto viene in evidenza un criterio finalistico, che impone al giudice, in un primo momento, di tenere in considerazione, ai fini delle sue determinazioni, gli obiettivi da raggiungere mediante l’irrogazione della pena.

In seguito dovrà essere considerato un criterio fattuale, in base al quale il giudice dovrà selezionare le circostanze di fatto che assumono rilevanza alla stregua del criterio finalistico precedentemente individuato (ad esempio, se nell’analisi del criterio finalistico il giudice giunge a conclusione che le esigenze di prevenzione speciale debbono dominare l’irrogazione della pena, i dati fattuali di cui dovrà tener conto saranno prevalentemente rappresentati da quelle circostanze di ordine soggettivo che assumono rilevanza ai fini di una prognosi di ricaduta nel reato).

Infine, dovrà essere applicato un criterio logico, che consenta al giudice di valutare il rispettivo peso degli indici fattuali ai fini di un giudizio sulla complessiva gravità del reato e della relativa quantificazione della sanzione fra il massimo e il minimo edittale.

Allo scopo di meglio adattare il trattamento sanzionatorio al fatto concreto, il legislatore ha altresì provveduto a disciplinare situazioni che vanno sotto il nome di circostanze del reato, cioè di elementi che accedono ad un reato già perfetto nella sua struttura, la cui presenza determina una modifica della pena in termini qualitativi o quantitativi.

Il legislatore ha dunque mirato a un duplice obiettivo: da un lato, quello di tener conto di un insieme di circostanze particolari che, andando ad incidere sulla gravità del reato, permettono di adeguare la pena alle diverse ipotesi criminose verificatesi in concreto; dall’altro, quello di consentire che tale adeguamento sanzionatorio venisse attuato entro confini prestabiliti.

In dottrina e in giurisprudenza si è a lungo discusso sulla compatibilità tra le predette circostanze e il delitto tentato.

Occorre in primo luogo precisare come la dottrina sia solita distinguere la figura del tentativo circostanziato di delitto, che si avrebbe quando le circostanze si realizzano compiutamente nel contesto della stessa azione tentata, da quella del tentativo di delitto circostanziato, che si configurerebbe allorché si ritenga che un delitto, se fosse giunto a consumazione, sarebbe stato qualificato dalla presenza di una o più circostanze.

Secondo l’orientamento dottrinale prevalente, non vi sono dubbi sulla compatibilità strutturale tra tentativo e circostanze compitamente realizzatesi anche prima che il reato venga a consumazione, come nella ipotesi dell’aggravante del rapporto di parentela, la quale preesiste sia al tentativo che alla consumazione.

La stessa dottrina non giunge invece alle medesime conclusioni nel caso del tentativo circostanziato.

Più precisamente, alcuni autori evidenziano come il riconoscimento della rilevanza penale di tale figura finirebbe per ledere il principio di legalità, il quale impone che le circostanze vengano applicate soltanto in presenza di presupposti espressamente previsti dalla legge e, dunque, secondo quanto disposto dall’art. 59 c.p., sul presupposto della loro effettiva realizzazione.

Inoltre, sussisterebbero altresì limiti di ordine ontologico, considerato che le circostanze relative all’evento consumativo del reato risultano compatibili soltanto con la compiuta realizzazione dell’illecito penale.

Occorre tuttavia dare atto di un ordinamento minoritario che esclude la configurabilità del tentativo di delitto circostanziato solo in relazione alle circostanze attenuanti, sulla base della considerazione secondo la quale la modifica dell’art. 59 c.p. ad opera della L. n. 19/1990 ha riguardato le sole circostanze aggravanti, prevedendo, ai fini della loro imputazione, la necessaria presenza di una componente psicologica di rappresentazione o rappresentabilità da parte dell’autore del fatto e rendendo così ammissibile il tentativo in questione esclusivamente in riferimento alle predette circostanze; per le circostanze attenuanti, al contrario, sarebbe sempre valido il principio della operatività di circostanze obiettivamente realizzate e non meramente ipotizzate.

Per quanto riguarda in particolare il dibattito giurisprudenziale in relazione alla problematica in esame, questo si è concentrato soprattutto sulla questione della compatibilità tra delitto tentato e l’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità di cui al n. 4 dell’art. 62 c.p.

In particolare, a partire dagli anni ’70 si è fatta strada la tesi, largamente accolta, secondo la quale la predetta attenuante sarebbe in generale compatibile con il furto tentato e con gli altri delitti tentati contro il patrimonio.

Secondo una corrente minoritaria, non essendo il danno elemento costitutivo del delitto di furto, l’attenuante in questione non troverebbe applicazione in tema di furto tentato, atteso che nel tentativo il danno non è presente. Più precisamente, poiché l’attenuante comune del danno di speciale tenuità presuppone in defettibilmente la consumazione del reato e l’esistenza di un danno (effettivo e non ipotetico) come conseguenza della sottrazione della cosa, questa potrà essere applicata solo nella ipotesi di furto consumato.

Vi è altresì un orientamento giurisprudenziale più recente in base al quale si sostiene che il giudice debba analizzare le concrete modalità del fatto, concentrando la sua attenzione sull’oggetto materiale preso di mira al fine di accertare l’entità del nocumento patrimoniale che il reato, ove fosse stato portato a consumazione, avrebbe realizzato.

Tale ultimo orientamento è stato accolto dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, chiamate a dirimere il contrasto sulla questione di cui si discute.

In particolare, la Corte chiarisce, ribadendo quanto già affermato dalla dottrina dominante, che nessun dubbio può sorgere in relazione alla configurabilità del tentativo circostanziato di delitto, in quanto in questa ipotesi le circostanze sussisterebbero in rerum natura.

Dunque, il problema rimane circoscritto ai casi in cui le circostanze non vengano a realizzarsi in concreto, in quanto la condotta risulta essersi interrotta prima che la circostanza potesse essere posta in essere.

I giudici di legittimità precisano innanzitutto che è insita al concetto stesso di tentativo la considerazione secondo la quale il soggetto passivo non subisce alcun danno diretto, essendo il delitto tentato, per definizione, reato senza evento, assimilabile ai reati di pura condotta e a quelli a consumazione anticipata, rispetto ai quali la punibilità prescinde dal verificarsi dell’evento ed è pacificamente riconosciuta la configurabilità del tentativo.

In realtà, come affermato dalle Sezioni Unite, la natura esclusivamente dolosa del delitto tentato implica che determinate circostanze possano essere presenti nel momento rappresentativo e volitivo del delitto, come modalità o finalità da compiere.

Dunque, anche le circostanze non realizzate contribuiscono ad integrare e caratterizzare il proposito delittuoso. Tuttavia, sono necessarie due condizioni imprescindibili: la sussistenza di una volontà criminosa, riguardante le circostanze in questione, che non rimanga allo stadio di semplice intenzione, ma si manifesti attraverso condotte significative alle quali possa essere collegata una apprezzabile probabilità di successo e la riconoscibilità di tali circostanze nel frammento di condotta che il soggetto ha effettivamente posto in essere.

Pertanto, si deve concludere che, nei reati contro il patrimonio, al fine di verificare se la circostanza attenuante comune di cui all’art. 62 n. 4 c.p. possa applicarsi al delitto tentato, il giudice, analizzate le concrete modalità del fatto, dovrà accertare secondo un preciso giudizio ipotetico che il reato, ove fosse stato portato a consumazione, avrebbe cagionato in modo diretto ed immediato un danno di speciale tenuità.

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