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TEMA SVOLTO DIRITTO PENALE

TRACCIA DIRITTO PENALE

Premessi brevi cenni sul potere di determinazione della pena, si soffermi il candidato sull’ammissibilità del tentativo circostanziato di delitto e del tentativo di delitto circostanziato con particolare riferimento all’ipotesi di cui all’art.  62 n. 4 c.p. (danno lieve tenuità).

 Svolgimento a cura di Graziana Aiello.

Svolgimento:

Nel nostro ordinamento giuridico il legislatore ha conferito alla pena, sia detentiva che pecuniaria, un carattere “mobile”, perché essa non è determinata in misura fissa, ma và normalmente da un minimo ad un massimo legislativamente predeterminati. L’art. 132 c.p. attribuisce al giudice quello che è stato definito il potere di commisurazione della pena, cioè il potere di scegliere in concreto il tipo di sanzione applicabile al caso di specie e il quantum di pena applicabile nel rispetto dei limiti legali. Tale potere è dallo stesso legislatore definito come discrezionale, nel senso che nell’esercitarlo il giudice non è vincolato ad aprioristiche valutazioni legislative ma è libero di scegliere la pena ritenuta più adatta in considerazione delle peculiarità del caso concretamente verificatosi e delle caratteristiche del reo. Tale scelta poggia innanzitutto sulla impossibilità, da parte del legislatore, di prevedere tutte le possibili manifestazioni del caso e, alla luce del reale disvalore del fatto, di scegliere la risposta penale che si ritiene più congrua al singolo episodio criminoso. Essa poggia, inoltre, sulla funzione che nel nostro ordinamento è stata costituzionalmente attribuita alla sanzione penale: essa deve tendere alla rieducazione del condannato e, a tal fine, essa deve essere il più possibile individualizzata, cioè calibrata sulle reali caratteristiche del reo e del disvalore del reato commesso (art. 27, comma 3 Cost.).

In quest’ottica, sarebbe contrario ai principi fondamentali del sistema penale il non attribuire al giudice, quale organo deputato all’applicazione e all’adeguamento della legge alla realtà concreta, uno spazio valutativo che gli consenta di tener conto di quelle circostanze che influiscono sul disvalore del fatto di reato e di calibrare corrispondentemente la risposta sanzionatoria, perché ciò si tradurrebbe nell’impossibilità di applicare una pena individualizzata, e così inidonea a perseguire la funzione rieducatrice sua propria. Al riguardo, un’importante presa di posizione è stata assunta dalla Corte Costituzionale che nella sentenza n. 50/1980 ha precisato che l’adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti contribuisce da un lato a rendere quanto più personale la responsabilità penale sulla prospettiva segnata dall’art. 27, comma 1 Cost. e dall’altro è strumento per la determinazione della pena il più possibile finalizzata, nella prospettiva dell’art. 27, comma 3 Cost. Il riconoscimento di discrezionalità al giudice in ordine all’individuazione della pena che il reo dovrà scontare per il reato commesso è, dunque, necessaria a giustificare in uno Stato democratico l’applicazione della sanzione penale (restrittiva della libertà personale) in un’ottica individualizzante e responsabilizzante, permettendo di differenziare caso per caso la risposta punitiva, e garantendo così il diritto di ognuno ad un trattamento penale il più possibile calibrato alle peculiarità del caso di specie, nell’ottica del rispetto dell’art. 3 Cost.

L’orientamento dottrinale dominante ritiene, però, che non si tratti di una discrezionalità totalmente libera ma che sia, al contrario, vincolata: il legislatore ha introdotto un sistema di controllo del corretto esercizio del potere di commisurazione della pena da parte dell’organo giudicante, senza il quale vi sarebbe il rischio che esso si traduca in un potere arbitrario. Infatti, se si guarda alla disciplina legislativa in materia, ovvero quella degli articoli 132 e ss. c.p., non si può non prendere atto dell’esistenza di indici normativi da cui poter desumere che siamo senz’altro di fronte ad una discrezionalità vincolata. In primo luogo, la vincolatività deriva dall’obbligo di motivazione dell’applicazione della misura di pena in concreto comminata (art. 132, comma 2). Nella motivazione il giudice deve ripercorrere l’iter del ragionamento logico-giuridico da lui percorso, indicando gli aspetti di fatto ritenuti rilevanti ai fini dell’applicazione della sanzione in concreto applicata. Il giudice, inoltre, nell’irrogare la pena va incontro a limiti legislativamente predeterminati: egli deve, innanzitutto, mantenersi entro un minimo ed un massimo edittali prestabiliti e, nel valutare il disvalore del fatto concreto, deve esaminare determinati indicatori che fungono così da “indici di commisurazione della pena”, come definiti dall’art. 133 c.p. e differenziati a seconda che afferiscano alla gravità del reato (art. 133, comma 1 c.p.) ovvero alla capacità a delinquere del colpevole (art. 133, comma 2 c.p.).

Della effettiva capacità vincolante degli indici indicati nell’art. 133 c.p. da un lato c.p. e dell’obbligo motivazionale sancito nell’art. 132 c.p. dall’altro, però, è lecito dubitare. Nel primo caso, infatti, l’art. 133 soltanto apparentemente indica criteri di commisurazione della pena capaci di vincolare il potere discrezionale del giudice: tale disposizione non riesce in realtà a fornire indicazioni univoche perché fa riferimento a fattori – dalla <<gravità del reato>> alla <<capacità a delinquere>> – che assumono un significato e una rilevanza diversi a seconda delle finalità prevalenti che l’interprete assegni alla pena in sede commisurativa.

Con riguardo, invece, all’obbligo motivazionale si registra, sul piano della prassi applicativa, una tendenza giurisprudenziale tesa a svilire l’obbligo della motivazione ex art. 132 c.p.: la Corte di Cassazione tende a convalidare le scelte sanzionatorie operate dai giudici di merito, salvi i casi di palese contrasto tra motivazione adottata ed elementi obiettivi acquisiti agli atti dei procedimenti; in tal modo, sia nella determinazione in concreto delle pene che nella concessione dei vari benefici i giudici esercitano la loro discrezionalità in maniera <<quasi incontrollata>>.

A tale importante ambito di discrezionalità nella determinazione della sanzione penale tra un minimo e un massimo edittali se ne aggiunge un altro che si inserisce nell’ambito del giudizio di valutazione delle circostanze afferenti al reato. Invero, il legislatore, con riguardo alle circostanze (in particolare quelle ad efficacia comune), stabilisce che esse comportano un aumento o una diminuzione di pena fino ad un terzo, attribuendo al giudice il potere di stabilire in concreto, in considerazione del grado di incidenza della circostanza sul disvalore del fatto commesso, in quale misura la pena applicabile per il reato base debba essere aumentata o diminuita. Ciò vuol dire che è affidata alla discrezionalità del giudice la determinazione del quantum ricompreso tra il minimo (un giorno) e il massimo (1/3) della variazione di pena prodotta dalle circostanze.

Pertanto, è possibile affermare che il meccanismo di determinazione della pena è dotato di una struttura bifasica: il primo momento è rappresentato dalla determinazione della pena comminata per il reato base, nell’ambito del quale il giudice deve scegliere il quantum di pena comminata nel rispetto dei limiti edittali legislativamente previsti; il secondo è costituito dalla determinazione dell’entità della variazione (aumento o diminuzione) della pena base connessa alla presenza della circostanza. Naturalmente, nell’esercizio di un tale potere discrezionale, il giudice, in ossequio al principio del ne bis in idem sostanziale, dovrà rispettare il divieto di doppia valutazione di elementi identici una volta ex art. 133 c.p. ed una seconda volta a titolo di circostanza in senso tecnico. Dovrà, dunque, stare attento a non valutare circostanze di identico contenuto due volte: una al momento di determinare il quantum di pena per il reato-base ed una seconda volta nello stabilire l’entità della variazione connessa alla circostanza.

Sin dalla entrata in vigore del codice Rocco la giurisprudenza si è trovata ad affrontare la questione del rapporto tra circostanze e determinate figure di reato. Una di queste è quella che riguarda il rapporto tra circostanze e delitto tentato. In ordine al delitto tentato la giurisprudenza di legittimità si era interrogata sulla configurabilità delle circostanze nella figura del tentativo di delitto circostanziato (nell’ambito dei delitti contro il patrimonio in particolare). Per comprendere i termini della questione giurisprudenziale è opportuno preliminarmente partire dalla distinzione, che viene da taluni proposta, tra tentativo di delitto circostanziato e tentativo circostanziato di delitto. Mentre quest’ultima ipotesi si presenta allorquando le circostanze si realizzano compiutamente (o soltanto in parte) nel contesto della stessa azione tentata, la prima si configurerebbe allorché un delitto, se fosse giunto a consumazione, sarebbe stato qualificato dalla presenza di una o più circostanze (aggravanti o attenuanti).

Invero, nessun dubbio può sussistere sulla compatibilità strutturale tra tentativo e circostanze compiutamente realizzatesi anche prima che il reato giunga a consumazione: in questo caso, infatti, sarebbe difficile, se non impossibile sostenere che la circostanza non è applicabile, posto che essa sussiste in rerum natura. Gli elementi costitutivi della circostanza, infatti, si sono effettivamente realizzati, quindi non vi sarebbe ragione di escluderne la rilevanza ai fini della determinazione della pena in concreto. Il giudice, in questo caso, opererà sulla pena stabilita per il tentativo punibile quella variazione (aumento o diminuzione) connessa alle circostanze effettivamente realizzatesi.

Il problema rimane circoscritto, quindi, alle ipotesi in cui la circostanza, pur inerente alla condotta dell’agente, non è stata posta in essere, in quanto detta condotta si è arrestata prima che la circostanza potesse essere realizzata; il che accade sempre quando il venire al mondo della circostanza coincide con la consumazione del reato; si pensi appunto alla circostanza attenuante del danno di speciale tenuità di cui all’art. 62, comma 1, n. 4. Si prenda il caso di un furto tentato, la cui punibilità presuppone l’esistenza di condotte idonee e dirette, in modo univoco, alla sottrazione della res, le quali non sono giunte a compimento per il sopraggiungere di fattori impeditivi esterni. È problematico, in questa ipotesi di furto tentato, poter stabilire la applicabilità della circostanza del danno di speciale tenuità, perché, anche se la condotta dell’agente ha avuto ad oggetto un bene di poco valore e se l’evento sottrazione si fosse verificato il danno che ne sarebbe derivato sarebbe stato di lieve entità, nella realtà concreta l’evento non si è verificato per cui l’agente non ha subito alcun danno effettivo.

Per tali considerazioni ha suscitato (e suscita ancor oggi) parecchie riserve la figura del tentativo di delitto circostanziato, riconosciuta dalla giurisprudenza contemporanea soprattutto a proposito delle circostanze attenuanti del danno patrimoniale di speciale tenuità, in base alla valutazione prognostica che l’iter consumativo del reato avrebbe realizzato con certezza gli elementi costitutivi della circostanza di cui all’art. 62, comma 1, n. 4 c.p.

Sul punto la dottrina non è unanime. Le riserve accennate trovano fondamento nella considerazione secondo cui l’esigenza di rispettare il principio di legalità dovrebbe imporre l’applicazione delle circostanze soltanto in presenza dei presupposti esplicitamente previsti dal legislatore. E dato che la disciplina contenuta negli artt. 59 e ss. c.p. si applica sul presupposto dell’effettiva realizzazione delle circostanze, non vi sarebbe ragione di violare in questo settore le esigenze connesse al principio di legalità.

In dottrina, vi è anche chi esclude la configurabilità del delitto circostanziato tentato con riferimento alle sole circostanze attenuanti. A sostegno di tale conclusione si è fatto rilevare che la modifica (ad opera della legge 7 febbraio 1990, n. 19) dell’art. 59 c.p. ha riguardato le sole circostanze aggravanti, rendendo così ammissibile il delitto circostanziato tentato, ma esclusivamente in relazione a esse, mentre per le attenuanti, sarebbe sempre valido il principio della operatività di circostanze obiettivamente realizzate e non meramente ipotizzate, atteso il testo vigente dell’art. 59 c.p.

Inoltre, secondo taluni, vi sarebbero anche dei limiti di ordine ontologico o strutturale: così secondo un orientamento dottrinale, fatto proprio anche da un orientamento, in realtà rimasto oggi minoritario, della giurisprudenza di legittimità (Cass. Sez. IV, n. 14202/1990) le circostanze relative all’evento consumativo del reato (ad esempio proprio l’entità del danno nei reati contro il patrimonio) risultano compatibili soltanto con la compiuta realizzazione dell’illecito penale. Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte (si era in presenza di un’ipotesi di furto tentato), questa ha avuto modo di esprimere che poiché l’attenuante di cui all’art. 62, n. 4 c.p. presuppone indefettibilmente la consumazione del reato e l’esistenza di un danno (effettivo e non ipotetico), che della sottrazione della cosa è conseguenza, essa può essere invocata solo in presenza di furto consumato. Non avrebbe così senso invocarla nell’ipotesi di furto tentato perché non essendosi verificata la consumazione del reato, tramite la effettiva sottrazione della cosa, non si è verificata nemmeno la conseguenza giuridica del reato, e cioè il danno patrimoniale.

Un diverso orientamento della giurisprudenza di legittimità, rimasto tutt’oggi minoritario in seno alla Suprema Corte, fa leva proprio sull’argomento secondo cui non essendo il danno elemento costitutivo del delitto di furto di cui all’art. 624 c.p., l’attenuante in questione non potrà trovare applicazione nell’ipotesi di furto tentato, atteso che nel tentativo, per presupposto e per definizione, il danno non è presente (Cass. Sez. V n. 11923/2010).

Facendo leva su questo argomento un orientamento più datato aveva addirittura escluso l’invocabilità della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità a tutti i delitti tentati contro il patrimonio (Cass. Sez II sent. del 11/04/38 in Giust. pen.).

Nei decenni successivi, la medesima seconda sezione ebbe occasione di ribadire che l’attenuante del danno di speciale tenuità non può trovare applicazione nell’ipotesi di delitto tentato, essendo basata su elementi che possono presentarsi soltanto come conseguenza della consumazione perfetta del reato (sent. del 19/01/1957 in Giust. pen.).

Si può, dunque, sostenere che negli anni più lontani l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità era nel senso di negare l’operatività della circostanza de quo nelle ipotesi di delitti tentati contro il patrimonio, sulla base della considerazione che essa fosse incompatibile con la fattispecie tentata di reato, che non prevede la verificazione dell’evento (e di un effettivo danno) nella sua struttura, e quindi sul presupposto che l’attenuante in questione fosse compatibile soltanto con la fattispecie compiuta del reato.

Senonché, anche all’epoca si rinvenivano pronunce di segno contrario, le quali subordinavano la compatibilità dell’attenuante del danno di speciale tenuità rispetto al delitto tentato alla certezza che se il danno si fosse verificato sarebbe stato di lieve entità. Invero, tale orientamento fa leva sulla necessarietà che venga fornita la prova della lieve entità del danno, di modo che vi sia la matematica certezza che se l’evento si fosse verificato il danno che ne sarebbe derivato alla persona offesa sarebbe stato sicuramente di speciale tenuità. Soltanto il tal modo sarebbe stata ammessa l’operatività dell’attenuante di cui all’art. 62, n. 4 c.p. nel caso di delitto tentato (Cass. Sez. II sent. n. 313/1968; Cass. Sez. II sent. n. 6825/1977).

Secondo questo, ormai prevalente, orientamento giurisprudenziale il giudice deve prendere in esame le concrete modalità del fatto, concentrando la sua attenzione sull’oggetto materiale preso di mira, e ciò allo scopo di accertare l’entità del nocumento patrimoniale che il reato, se portato a consumazione, avrebbe cagionato alla persona offesa (Cass. Sez. II sent. n. 43268/2011).

Invero, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, chiamate recentemente ad esprimersi sulla dibattuta questione, con la sentenza n. 28243 del 28 giugno 2013 hanno avuto modo di chiarire la loro posizione in merito, aderendo alla tesi della configurabilità del tentativo di delitto circostanziato (o delitto circostanziato tentato) e della compatibilità della circostanza attenuante di cui al n.4 dell’art. 62 c.p. ai delitti tentati di carattere patrimoniale. L’argomento su cui fa leva la Corte nella summenzionata sentenza è questo: insito al concetto stesso di tentativo è che il soggetto passivo non subisce alcun danno patrimoniale diretto. Il delitto tentato è, infatti, per definizione reato senza evento (in senso naturalistico). Da questo punto di vista, dunque, il delitto tentato può essere assimilato – come pure è stato fatto – ai reati di pura condotta o anche a quelli a consumazione anticipata, reati per i quali, come è noto, il legislatore ha previsto la punibilità prima del (o a prescindere dal) verificarsi dell’evento; sia nel delitto tentato che in quello a consumazione anticipata è richiesta tanto la idoneità dell’atto, quanto un principio di esecuzione, dal quale si possa desumere la unidirezionalità della condotta. Orbene, tali categorie di reati (di pura condotta e a consumazione anticipata) pacificamente ammettono la forma circostanziata, di conseguenza non vi sarebbe ragione di escluderne la configurabilità con la fattispecie tentata, che presenta una simile struttura. Il problema allora si risolve, da un lato nel vagliare la compatibilità logica e giuridica della circostanza con il tentativo di delitto; in questo senso deve trattarsi di circostanza riconoscibile in quel frammento di condotta posto in essere dall’agente, che deve integrare i presupposti per la punibilità del tentativo, e quindi univocità ed idoneità. Dall’altro si risolve in una mera questione di prova, ovvero nel valutare in concreto, in base alle evidenze raccolte, la ravvisabilità della circostanza in questione nel singolo episodio criminoso.

Il giudizio di compatibilità non va effettuato, pertanto, né da un punto di vista meramente astratto e né in maniera univoca, dato che l’esito dello stesso dipende dalla tipologia della particolare circostanza in questione e dallo sviluppo del concreto episodio criminoso posto in essere dall’agente. In questo modo è possibile distinguere circostanze che presuppongono necessariamente la verificazione dell’evento, altre la verificazione degli elementi costitutivi nel frammento di condotta posto in essere, ed altre ancora che non richiedono necessariamente che ciò si verifichi.  Occorre, dunque, che l’interprete verifichi la compatibilità della circostanza con la condotta concretamente posta in essere dall’agente, allo scopo di desumere se, sulla base della predetta condotta (della sua idoneità e della sua inequivocità, come manifestatesi nei fatti), la predetta circostanza sia riscontrabile. Seguendo questo ragionamento è possibile sostenere la compatibilità della circostanza della speciale tenuità del danno, di cui all’art. 62, n. 4 c.p., al delitto tentato, qualora dalle concrete modalità del fatto posto in essere dall’agente, e integrante la condotta punibile a titolo di tentativo, fosse possibile stabilire con certezza che se il reato si fosse consumato il danno che ne sarebbe derivato all’agente sarebbe stato di speciale tenuità.

Alla obiezione principale mossa nei confronti di questo orientamento giurisprudenziale, vertente su una asserita violazione del principio di legalità nel caso di riconoscimento della figura del tentativo di delitto circostanziato (in base alla considerazione che le circostanze si applicano soltanto in presenza dei presupposti previsti legislativamente, e , quindi, della loro effettiva realizzazione, come vorrebbe l’art. 59 c.p.), le Sezioni unite rispondono che la norma dell’art. 56 c.p. non fa esclusivo riferimento alla figura tipica del reato, ma anche a quella del reato circostanziato, per cui l’estensione al tentativo delle circostanze previste per il corrispondente reato consumato comporta un problema di semplice compatibilità logico-giuridica, che non tocca il principio di legalità. E su tale principio di carattere generale converge gran parte della giurisprudenza di legittimità, affermando con nettezza che l’estensione al tentativo delle circostanze previste per il corrispondente reato consumato non contrasta con il principio di legalità. Infatti, dagli artt. 56 e 59 c.p. non si trae alcun argomento, diretto o indiretto, da cui possa inferirsi che la disciplina del tentativo sia inerente al solo reato base. D’altronde, è una metodica tipica del codice penale quella di combinare norma incriminatrice di parte speciale e norma di parte generale, e non vi sarebbe ragione di non ammettere, in linea generale e salva, come si è detto, la verifica di compatibilità logico-giuridica, un doppio meccanismo combinatore, che veda agire sulla norma incriminatrice di parte speciale tanto l’art. 56, quanto gli artt. 61 e/o 62 c.p (Cass. Sez. II, sent. n. 39837/2009).

Le conclusioni sopra esposte ricevono conferma testuale, dalle modifiche (recenti e meno recenti) introdotte dal legislatore nel codice penale di rito e in quello sostanziale. Invero, l’art. 380 c.p.p. (arresto obbligatorio in flagranza), come è noto, fa obbligo agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria di procedere all’arresto di chiunque sia colto in flagranza di una serie di delitti non colposi – consumati o tentati – individuati in base alle pene edittali, ovvero specificamente elencati. Ebbene, detto articolo ha subìto modifica, ad opera della legge 15 luglio 2009, n. 94, nel suo comma 2, che, attualmente, recita: “anche fuori dei casi previsti dal comma 1, gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria procedono all’arresto di chiunque è colto in flagranza di uno dei seguenti delitti non colposi, consumati o tentati: […] e) delitto di furto, quando ricorre la circostanza aggravante prevista dall’art. 4 della legge 8 agosto 1977, n. 533, o quella prevista dall’articolo 625, primo comma, numero 2, prima ipotesi, del codice penale, salvo che, in quest’ultimo caso, ricorra la circostanza attenuante di cui all’art. 62, primo comma, n. 4, del codice penale; e-bis) delitti di furto previsti dall’art. 624 bis del codice penale, salvo che ricorra la circostanza attenuante di cui all’art. 62, primo comma, n. 4, del codice penale”.

Ne consegue che, dalla lettura coordinata dei vari commi, si deduce necessariamente che le circostanze – aggravanti o attenuanti – debbano essere valutate (quantomeno ai fini dell’arresto in flagranza), sia con riferimento ai delitti consumati, sia ai delitti tentati.

Ma vi è più. Con la legge n. 19 del 7 febbraio del 1990, il legislatore ha notevolmente ampliato l’ambito di applicazione della circostanza attenuante della “speciale tenuità”, estendendola, dai delitti contro il patrimonio o che comunque offendono il patrimonio, ai delitti determinati da motivi di lucro. In tale ultimo caso, tuttavia, sembra avere esplicitamente previsto, accanto all’ipotesi in cui il lucro sia stato effettivamente conseguito, quella in cui esso sia solo sperato, ma non anche raggiunto (“[…] nei delitti determinati da motivi di lucro, l’avere agito per conseguire, o l’avere comunque conseguito, un lucro di speciale tenuità, quando anche l’evento dannoso o pericoloso sia di speciale tenuità”). Invero, dopo l’innesto operato dal legislatore del 1990, vi è stato chi ha avanzato la tesi secondo la quale, per quanto riguarda l’attenuante in questione, bisognava operare un regime diverso tra delitti determinati da motivi di lucro e delitti che offendono il patrimonio, nel senso che soltanto nel primo caso la circostanza sarebbe applicabile solo al tentativo. La giurisprudenza di legittimità nella summenzionata sent. n. 39837/2009 si è espressa nel senso che nessuna incidenza ostativa alla applicazione della attenuante ex art. 62, comma primo, n. 4, c.p. al delitto tentato può derivare dalla riforma del 1990, atteso che “l’aggiunta apportata all’art. 62, n. 4, c.p. dalla legge n. 19 del 1990 […] ha solo esteso l’ambito applicativo della suddetta norma anche ai delitti determinati da motivi di lucro”.

D’altro canto la prima interpretazione darebbe luogo ad una disparità di trattamento che determinerebbe conseguenze davvero paradossali. Invero, considerando inapplicabile al furto tentato l’attenuante in questione, ben potrebbe, in ipotesi, tale delitto esser punito più gravemente di un furto consumato, se, in tale secondo caso, l’attenuante ex art. 62, comma primo, n. 4, c.p. dovesse trovare ingresso (eventualmente insieme con altre attenuanti).

In conclusione, per tutte le ragioni sopra esposte, la giurisprudenza di legittimità è da ultimo giunta ad  affermare che “nei reati contro il patrimonio, la circostanza attenuante comune del danno di speciale tenuità, di cui al n. 4 dell’art. 62 c.p., può applicarsi anche al delitto tentato, sempre che la sussistenza della attenuante in questione sia desumibile con certezza dalle modalità del fatto, in base a un preciso giudizio ipotetico che, stimando il danno patrimoniale che sarebbe stato causato alla persona offesa, se il delitto di furto fosse stato portato a compimento, si concluda nel senso che il danno cagionato sia di rilevanza minima” (Sez. unite sent. n. 28243/2013).

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