AUTONOMIA PRIVATA E DESTINAZIONE PATRIMONIALE

AUTONOMIA PRIVATA E DESTINAZIONE PATRIMONIALE

Pubblicato il 16/04/2016 autore Eleonora Zavagli

L’art. 2740 c.c. (norma di ordine pubblico e dunque in linea di principio inderogabile dall’autonomia privata) impone al debitore di rispondere dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni, sia presenti sia futuri.

La disposizione, pertanto, sembra prospettare la presenza di un unico patrimonio (da intendere in senso restrittivo, ovvero quale insieme delle sole poste attive) con il quale soddisfare i creditori.

A tacer del fenomeno relativo alla separazione patrimoniale (attinente alle persone giuridiche, ove si assiste alla creazione di una nuova soggettività) ci si domanda se l’autonomia delle parti, attraverso una lettura estensiva del comma II dell’articolo de quo, possa prevedere la creazione e la conseguente sussistenza di patrimonio destinati.

Sul punto bisogna distinguere tra due differenti fenomeni, la cui diversità attiene alla stessa modalità di creazione del “vincolo”.

E’ infatti necessario capire se, accanto a deroghe espressamente previste dal codice civile e dalla cospicua legislazione speciale (come tali lecite ab origine in quanto dettate dallo stesso Legislatore ed aventi cittadinanza grazie al comma II dell’art. 2740 c.c.) sussistano ipotesi non tipizzate ma derivanti dalla volontà delle parti (attraverso, dunque, i principi che regolano la materia dell’autonomia contrattuale, ricadendo così nell’ambito di applicazione dell’art. 1322 co II c.c.).

Per quanto concerne la prima situazione, le ipotesi di deroga espressa sono molteplici.

Tali deroghe, pertanto, hanno messo in crisi il principio della responsabilità patrimoniale generica di cui all’art. 2740 c.c., a sua volta oggetto di una lenta evoluzione giuridica che, superata la teoria di una responsabilità personale o penale, è oggi unanime nel considerare come tale vincolo -da ancorare ai principi di buona fede e correttezza- debba porre un freno al debitore.

Tale soggetto, infatti, dovendo soddisfare il creditore, non può avere una disposizione ad ampio raggio del proprio patrimonio, anche se (rovescio della medaglia) non gli si può nemmeno imporre un vincolo di totale ed assoluta indisponibilità, pena una inammissibile paralisi della attività economica/giuridica.

Dunque, proprio al dichiarato fine di evitare una limitazione eccessiva della libertà del debitore, sono previste ipotesi in cui una parte di patrimonio viene veicolata verso un determinato obiettivo-fine, valutato dalla legge come lecito e pertanto meritevole di tutela poiché rispondente al canone di cui all’art. 41 Costituzione (anche se, di contro, sono inevitabili conflitti tra le varie categorie di soggetti che possono vantare diritti su tali patrimoni o che, appunto, ne sono esclusi, dandosi cosi vita ad una eccezione al principio della par condicio creditorum).

Le ipotesi più eclatanti presenti all’interno del codice civile (e che meritano di essere esaminate) sono: il fondo patrimoniale previsto dall’art. 167, l’accettazione di eredità con beneficio di inventario ex art. 490, la rendita vitalizia così come regolata dall’art. 1881, l’assicurazione sulla vita di cui all’art. 1923, i fondi di previdenza ed assistenza ex art. 2117, i patrimoni destinati da una società a uno specifico affare previsti all’interno dell’art. 2247 quienquies e, infine, la previsione di cui all’art. 1707 c.c. relativa agli acquisti del mandatario senza rappresentanza.

Senza dimenticare la trascrizione degli atti di destinazione di cui all’art. 2645 ter c.c.: tale disciplina, infatti, assume una particolare importanza poiché, citando espressis verbis la necessità che sussistano interessi meritevoli di tutela, da un lato sembra restringere il campo di applicazione (poiché si riferisce a persone con disabilità) ma dall’altro sembra porsi come norma precettiva e non meramente programmatica ovvero in grado di riferirsi a fattispecie non previste dall’ordinamento (dando così risposta positiva all’interrogativo in precedenza posto e relativo alla possibilità, per l’autonomia delle parti, di creare nuovi schemi).

All’interno della legislazione speciale troviamo invece la previsione relativa ai fondi di investimento (art. 22 D.lgs 58/98), i fondi pensioni regolati dall’art. 4 D.gls 124/93, il fenomeno della cartolarizzazione dei crediti ex art. 3 L. 130/99 ed infine la L. 364/89 relativa alla ratifica della Convenzione sui trusts.

I problemi che ne derivano sono numerosi e attengono a vari profili:

– aggiramento di norme (ponendosi tali istituti, in linea astrattamente teorica, come potenzialmente elusivi di regole di ordine pubblico poiché limitativi dei diritti dei creditori, regolati ex lege e graduabili solo in caso di cause legittime di prelazione così come previste dall’art. 2741 c.c.);

-problemi di coordinamento con la posizione dei terzi che entrino in contatto con le parti;

-difficoltà di regolare compiutamente istituti stranieri che richiedono cittadinanza, stante la presenza di leggi di ratifica e, ad ogni modo, stante la necessità di coordinare l’ordinamento interno con quello europeo e le nuove  forme ivi previste, pena altrimenti un pericoloso isolazionismo economico;

-nascita di numerosi istituti elusivi del sistema successorio, attraverso i c.d. negozi post mortem in grado di anticipare gli effetti della successione a un tempo precedente la morte, così da aggirare la ratio del divieto dei patti successori di cui all’art. 458 c.c. (norma inderogabile che punisce tali patti con il rimedio estremo della nullità, poiché l’autonomia privata in tale materia tende a manifestarsi direttamente solo nella quota disponibile del testamento, ove, ad ogni modo, incontra corposi limiti a protezione di interessi generali).

In particolar modo, in tale frangente è estremamente elevato il rischio che strumenti previsti dal Legislatore vengano piegati a fini elusivi e dunque come tali perseguibili, anche a detrimento della autonomia delle parti.

In riferimento al punto primo (aggiramento di norme) viene in rilievo la previsione del fondo patrimoniale, istituto che, fino alla presa di posizione della Corte di Cassazione resa a  Sezioni Unite nel ’09, nemmeno veniva considerato una convenzione poiché, in ipotesi, costituibile anche da un terzo e non necessariamente dai coniugi e poiché soggetto a trascrizione mentre per le convenzioni vi è obbligo di annotazione.

Nel fondo patrimoniale è evidente come la destinazione ivi prevista (riguardante beni immobili o mobili registrati e non denaro, poiché ovviamente difficilmente canalizzabile/vincolabile) possa costituire un escamotage per sottrarre determinati beni ai creditori, dietro il millantato e supposto fine del bisogno familiare.

Pertanto, è stato compito della giurisprudenza predisporre una soluzione ad hoc ovvero l’esperibilità dell’azione revocatoria ordinaria ex art. 2901 c.c.: è infatti evidente come tale fondo, benchè libero nella sua costituzione (e anzi caldeggiato dal Legislatore del ‘42 attraverso un contegno di stampo paternalista e pubblicista) limiti l’aggredibilità di determinati beni rendendo più incerta la soddisfazione del creditore, con conseguenze in grado di impattare a livelli di macroeconomia, poiché lesive dei traffici giuridici in generale.

Tra l’altro, il recente Decreto 83/15 ha ulteriormente innovato la materia de qua, prevedendo l’introduzione nel corpo del codice civile dell’art. 2929 bis, avente come scopo quello di integrare il panorama delle azioni esecutive su immobili e beni mobili registrati, senza dover attendere il defatigante e complesso iter giudiziario dell’azione pauliana.

Si tratta di un istituto volto a rafforzare la tutela del creditore poiché, in base ad una presunzione di fraudolenza (con conseguente inversione dell’onere probatorio), il creditore può aggredire i beni fatti oggetto, tra le varie ipotesi, di vincoli di indisponibilità, con chiaro rimando (anche se allo stato la giurisprudenza sul punto è alquanto scarna) al trust, all’art. 2645 ter c.c. e, appunto, al fondo patrimoniale.

Con riferimento al secondo punto problematico ( posizione di eventuali terzi che entrino in contatto con altri soggetti), si citi l’esempio del mandato senza rappresentanza, su cui si è espressa la Corte di Cassazione a Sezioni Unite nel 2008, dando una interpretazione alquanto restrittiva del suo raggio di azione.

L’ art. 1705 co 2 c.c., infatti, si pone come eccezione alla regola generale per cui i terzi non hanno alcun rapporto con il mandante, acquistando diritti e assumendo obblighi nei confronti del mandatario: secondo tale disposizione, invece, il mandante può reclamare il diritto stabilendo così un effetto diretto ed automatico nei confronti del terzo.

E’ allora evidente come emerga un momento di crisi poiché il terzo ripone un legittimo affidamento nel fatto che le vicende relative al contratto (anche nella fase esecutiva ed in ipotesi eventualmente patologica) debbano riguardare le parti stesse senza interventi di terzi, palesandosi altrimenti una violazione dell’art. 1406 c.c. relativo alla cessione del contraente ceduto, ove è richiesto il suo consenso.

Con riferimento al terzo ordine di problemi, è innegabile come la presenza del trust (a seguito della L. 364/89 di ratifica della convenzione datata 1985) crei non poche tensioni poiché tra gli elementi strutturali del trust si rinviene la sua disposizione non solo tramite un atto inter vivos ma anche mortis causa (andando così ad impattare sulla disciplina dei negozi post mortem, creati ad hoc per aggirare i divieti che governano la materia successoria ove la tutela del de cuius è preminente).

Con tale strumento si assiste a un atto di trasferimento da un soggetto (settlor) ad un altro (trustee) per uno specifico scopo (familiare, morale, commerciale, previdenziale) con contestuale segregazione e, dunque, prendendo il posto del più vetusto, complesso e meno malleabile vincolo fiduciario o di altri strumenti fino a quel momento utilizzati per raggiungere il medesimo obiettivo (contratto a favore di terzo o fondazione fiduciaria, ad esempio).

Per il tramite del trust si realizzano due scopi: reale/formale (trasferimento con contestuale segregazione dei beni che dunque vengono a configurarsi come “destinati”) e obbligatorio (da leggere come dovere di amministrazione e di utilizzazione del patrimonio secondo i dettami e le direttive del settlor, su cui permangano poteri di controllo e che può eventualmente nominare un “controllore”).

Il problema nasce di fronte alla constatazione -empirica prima ancora che giuridica- relativa ai numerosi impieghi di tale figura.

Il trust può, infatti, essere impiegato (rectius piegato) a scopo di garanzia (con il rischio di aggiramento delle norme relative al patto commissorio), a scopo successorio (con la possibilità di obliterare il divieto dei patti  di cui all’art. 458 c.c.), a scopo societario (veicolando gli assetti e i controlli della compagine), a scopo di tutela familiare (impattando sulla disciplina, ancora discussa, degli accordi in vista della separazione, allo stato caldeggiati per garantire la più ampia esplicazione dell’autonomia delle parti ma, nella pratica, di difficile gestione stante la presenza dello status di divorziati -indisponibile- e soprattutto di soggetti minori da tutelare).

Merita altresì un accenno una delle ultime applicazioni esaminate dalla Corte di Cassazione, che si è confrontata in merito alla configurabilità di un trust a scopo liquidatorio: nel caso di specie i giudici hanno affermato l’ammissibilità laddove sia stato concluso come alternativa alle misure concordate atte a risolvere la crisi mentre hanno ritenuto contrario all’ordine pubblico interno un trust a scopo sostitutivo della procedura fallimentare (impedendosi una liquidazione vigilata in base alle forme pubblicistiche e, appunto, sottraendo inopinatamente l’intero patrimonio a siffatte procedure).

Con riferimento all’ultimo punto, ovvero alla macro categoria dei negozi post mortem, è infine evidente come l’autonomia delle parti possa aggirare il divieto di cui all’art. 458 c.c. essendo labile il confine tra negozio mortis causa (ove la morte è causa del negozio) e negozio si premoriar (ove l’evento morte sospende gli effetti rinviando nel tempo una vicenda nei fatti già delineata).

Si pensi alle donazioni mortis causa, al diritto di usufrutto con effetti a partire dalla morte del costituente, al contratto a favore di terzi da eseguirsi dopo la morte dello stipulante, al mandato post mortem exequendum e al deposito bancario in cui lo stipulante designi un intestatario come avente diritto alla prestazione ma solo dopo la morte del depositante.

E’ chiaro come, in tali circostanze, si assista nei fatti a una sorta di destinazione di un patrimonio, per giunta con la particolarità (e conseguente difficoltà) derivante dal momento in cui inizieranno ad aversi gli effetti, ovvero dopo la morte del soggetto.

Se allo stato il Legislatore sembra avere sdoganato solo il patto di famiglia (poichè in grado di comportare benefici all’economia in generale, stante la più probabile sopravvivenza delle piccole aziende) questi strumenti si pongono al limite della ammissibilità e, dunque, devono essere soggetti al vaglio del giudice del merito, che analizzerà le modalità concrete del caso specifico per valutare la loro eventuale contrarietà a legge.

In conclusione, è allora evidente come l’autonomia contrattuale (in un periodo storico in cui si assiste ad una sua esaltazione) deve comunque rispettare determinati limiti ed è altresì chiaro come la presenza di nuovi e sempre più numerosi strumenti complichi il quadro, poiché se in linea astratta possono risultare aventi causa lecita, nel reale assetto degli interessi voluti e perseguiti dalle parti possono assumere causa illecita: sarà pertanto compito della giurisprudenza, se il Legislatore non ha preso posizione a monte, verificare il loro scopo pratico e dunque la loro legittimità.

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