DIVIETO DI DISCRMINAZIONE E AUTONOMIA CONTRATTUALE

TEMA DIRITTO CIVILE
DIVIETO DI DISCRMINAZIONE E AUTONOMIA CONTRATTUALE

Valentina Lo Voi

Nel vigente ordinamento il divieto di discriminazione nei rapporti contrattuali trova fondamento tanto in disposizioni di carattere sostanziale, quanto in disposizioni di carattere processuale.

Gli ultimi anni del secolo scorso costituiscono quella che è stata definita l’età dell’oro della tutela civile contro le discriminazioni, eppure, la problematica ha origini ben più remote. All’indomani della seconda guerra mondiale, infatti, le migliori voci della dottrina italiana affrontarono il problema dell’abrogazione delle leggi razziali e delle conseguenze sui contratti stipulati sotto il loro vigore. Si trattava, però, di spunti isolati a cui corrispondeva l’assenza di precedenti giurisprudenziali o interventi legislativi.

Una maggiore attenzione si manifestava in alcune fonti internazionali e sopranazionali: una pietra miliare del diritto antidiscriminatorio si considera essere stata la Convenzione adottata a New York il 21 dicembre 1965 e ratificata in Italia con Legge 654/1975.

Pur mancando in tale testo qualsiasi riferimento all’autonomia contrattuale la discriminazione viene definita come la “distinzione, esclusione, limitazione o preferenza” che può annullare o compromettere l’esercizio, in condizioni di parità delle libertà fondamentali anche in campo economico, in modo da mettersi in rilevo il legame tra divieto di discriminazione e tutela della liberta di accesso agli scambi di mercato.

Tuttavia, affinché il divieto di discriminazione potesse assurgere a rango di regola del diritto dei contratti è al diritto dell’Unione Europea che ci si deve rivolgere; la versione originaria dei Trattati accoglieva una nozione molto restrittiva di eguaglianza, selezionando quei profili funzionali a un pieno svolgimento delle libertà economiche fondamentali, indispensabile per una crescente integrazione dei mercati.

L’introduzione ad opera del Trattato di Amsterdam dell’attuale art. 19 TFUE trasforma la lotta alla discriminazione in una materia di competenza europea e accresce il numero dei fattori di rischio rilevanti, oltre il sesso e la nazionalità, fino ad includere religioni, convinzioni personali, disabilità, età e orientamento sessuale.

Nel nuovo Diritto Europeo la non discriminazione assume un ruolo di guida che deve orientare l’Unione nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche ed azioni.

Tali modifiche apportate ai Trattati istitutivi conferiscono al legislatore comunitario una nuova base giuridica per una serie di significativi interventi in materia di discriminazione, la maggior parte dei quali incidono sulla materia del lavoro e della sicurezza sociale; è, infatti, nel diritto del lavoro che il divieto di discriminazione è nato e fiorito.

Altri provvedimenti comunitari, invece, hanno prodotto un impatto ben più ampio su tutti gli scambi di mercato, si pensi, tra tutte, alla Direttiva 2000/43/CE che attua il principio della parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, e alla Direttiva 2004/113/CE che si occupa delle discriminazioni di genere nell’accesso a beni e servizi. Quest’ultima direttiva ha inserito gli artt. da 55 bis a 55 decies nel d.lgs. 198/2006 recante il codice delle pari opportunità tra uomo e donna.

Il divieto di discriminazione è affermato in modo ampio da queste nuove fonti, tanto da ricomprendervi, sia la discriminazione diretta che quella indiretta.

La discriminazione è indiretta quando un criterio, una prassi, un atto, sono apparentemente neutri ma possono mettere le persone di un determinato sesso, razza o origine etnica in una posizione di svantaggio rispetto ad altri, a meno che tali situazioni non siano oggettivamente giustificati da finalità legittime e i mezzi impiegati per il perseguimento di tali finalità non siano appropriati e necessari. A titolo esemplificativo, può considerarsi discriminazione indiretta il divieto di ingresso opposto da un locale di pubblico esercizio ai clienti che indossino un determinato abbigliamento (il velo).

Da quanto sinteticamente detto in relazione al principio in esame deve desumersi che con il divieto di discriminazione lo Stato impone ai contraenti di contribuire a realizzare una misura di architettura sociale, deve allora essere lo Stato per primo a garantire le condizioni sociali affinché il diverso non sia concepito come pericoloso o, più realisticamente, perché il grado di diffusione sociale del rifiuto del diverso sia quanto più possibile contenuto.

Poiché alla base della discriminazione c’è un preconcetto, bisogna riconoscere che la scelta di politica legislativa di contrastare l’ostilità del contraente è giustificata se la diversità contro cui l’ostilità è rivolta riguarda abitudini di vita, scelte, preferenze o bisogni delle controparti contrattuali.

Il divieto di discriminazione in ambito contrattuale richiede un ruolo attivo e consapevole dello Stato, oltre a un’effettiva integrazione sociale e culturale.

Per comprendere, adesso, il ruolo che il divieto di discriminazione svolge nel diritto civile, e in particolare in materia contrattuale, deve procedersi con l’analizzare il ruolo dell’autonomia contrattuale.

L’autonomia privata è il potere del soggetto di determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge, ed anche il potere di autodeterminare i propri rapporti con i terzi mediante contratti tipici o atipici.

Ciò che costituisce o regola o estingue un rapporto patrimoniale è, per l’art. 1321 c.c., l’accordo delle parti, ossia la loro concorde volontà; il contratto, infatti, si segnala per il ruolo che in esso svolge la volontà.

Si parla di autonomia o libertà contrattuale, ed è una sovranità che si manifesta sotto un duplice aspetto: negativo e positivo.

In senso negativo è autonomia contrattuale la circostanza per cui nessuno può essere spogliato dei propri beni o essere costretto ad eseguire prestazioni a favore di altri contro, o comunque indipendentemente, dalla propria volontà.

In linea di principio ciascuno non ubbidisce se non alla propria volontà, non può essere vincolato se la legge non lo consente dalla volontà altrui. In tal senso si spiega anche la regola espressa dall’art. 1372 cc per cui il contratto non vincola se non chi ha partecipato all’accordo.

Viceversa, libertà contrattuale in senso positivo significa che le parti non possono con un atto di propria volontà, costituire, regolare o estinguere rapporti patrimoniali.

Nella sua accezione positiva l’autonomia contrattuale si manifesta in varie forme: innanzi tutto è libertà di scelta, a seconda degli scopi che i privati si prefiggono tra i diversi tipi di contratto previsti dalla legge. In secondo luogo è libertà di determinare, entro i limiti posti dalla legge, il contenuto del contratto (quindi, per esempio, il prezzo di vendita, le modalità e i tempi di pagamento e di consegna del bene venduto o il tasso di interesse).

Ancòra, autonomia negoziale in senso positivo è libertà di concludere contratti atipici o innominati, sempre che gli stessi siano diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico (art. 1322 c.c.).

Infine è libertà contrattuale utilizzare contratti tipici per perseguire finalità atipiche, per realizzare interessi ulteriori e diversi da quelli sottostanti a ciascun contratto, isolatamente considerato.

La legge può, tuttavia, imporre dei limiti all’autonomia contrattuale e si distinguono in limiti posti all’autonomia contrattuale di una sola delle parti e destinati ad operare a vantaggio dell’altra; e limiti posti all’autonomia contrattuale di entrambe le parti.

Ipotesi del primo tipo è il c.d. contratto in serie, contrapposto al contratto isolato, che si caratterizza perché il contenuto del contratto è predeterminato da una sola delle parti e l’altra non può trattare, può solo prendere o lasciare.

Altro limite all’autonomia negoziale è quello che può derivare da norme di legge che, in date situazioni, impongono di concludere il contratto, privando il contraente della libertà di scelta se contrattare o meno. Talvolta il limite è posto a carico del contraente forte e a protezione del contraente debole: è l’ipotesi dell’obbligo di contrattare del monopolista di cui all’art. 2597 c.c., che impone a chi esercita una impresa in condizioni di monopolio legale di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell’impresa, osservando la parità di trattamento. Qui il limite all’autonomia negoziale non riguarda il contenuto del contratto ma investe la scelta se concluderlo o meno: scelta che è libera per l’utente ma non per l’imprenditore che, di fronte all’altrui proposta, è tenuto ad accettare con i mezzi ordinari.

Un eventuale rifiuto, da parte del monopolista deve, altresì, essere motivato e, in ogni caso, deve essere rispettata la parità di trattamento: deve cioè soddisfare le varie richieste secondo l’ordine delle richieste o secondo altri criteri obiettivi e non secondo il proprio arbitrio.

Altra ipotesi di limite all’autonomia contrattuale, universalmente riconosciuto, è quello della determinazione autoritativa da parte dei pubblici poteri dei prezzi di vendita di beni di largo consumo o delle tariffe di determinati servizi.

L’aspetto più giuridicamente significativo del fenomeno è che i prezzi e, in genere, le clausole contrattuali imposte dalla pubblica autorità, sono automaticamente inserite nel contratto; in pratica non c’è un semplice obbligo di adeguarsi, le prescrizioni della pubblica autorità concorrono infatti direttamente a formare il contratto.

In dottrina vi è, poi, chi ha sostenuto che avversare il divieto di discriminazione comporti un vulnus alla libertà contrattuale.

Tuttavia, sembrerebbe che tale antinomia si verifichi, secondo parte della dottrina, soltanto nei contratti aperti al pubblico in presenza dei quali sarebbe possibile pregiudicare l’efficienza del mercato e la dignità degli esclusi.

Così opinando, il contraente, qualora lo desideri, potrebbe sottrarsi all’applicazione del divieto di discriminare ma, per farlo, deve sopportare l’onere di rinunciare all’offerta al pubblico, ricorrendo ad una o più dichiarazioni individualizzate, che preludano allo sviluppo di altre trattative. In questa ipotesi il contraente potrà lecitamente discriminare la controparte, rifiutando la conclusione del contratto o riservandole condizioni diverse o peggiori a causa di un fattore di rischio.

A tale ricostruzione, però, fu mossa la facile obiezione di ispirarsi ad una logica di tipo mercantile, peraltro, anche la discriminazione individuale può essere suscettibile di escludere la vittima dall’accesso agli scambi di mercato e di pregiudicare il benessere collettivo.

Una seconda tesi, poi, muove dal presupposto della normale insindacabilità delle scelte contrattuali che verrebbe infranto dal legislatore solo nell’offerta al pubblico, alla luce del bilanciamento tra la libertà del singolo e le pari opportunità di accesso al mercato di una molteplicità di soggetti.

La pluralità degli esclusi rappresenterebbe la ratio del divieto di discriminazione contrattuale, in modo da limitarlo alle sole dichiarazioni al pubblico, ove è presente il sacrificio dei più rispetto all’interesse del pubblico.

Tuttavia nemmeno il “sacrificio dei più” sembra idoneo a giustificare il divieto di discriminare gli scambi individualizzati, quando il contraente, per esempio, compia scelte discriminatorie seriali nell’ambito di negoziazioni individuali. Si pensi ad una società immobiliare che indirizzi una serie di dichiarazioni ad una cerchia di soggetti selezionati e si riservi, invece, di rifiutare la conclusione del contratto con quei soggetti che rivelino una determinata origine etnica o convinzione religiosa per assicurare l’omogeneità culturale del condominio.

La diffusione del pregiudizio sociale, inoltre, in un determinato mercato rilevante può comportare che a fronte di un medesimo comportamento discriminatorio sia fortemente ostacolato o addirittura precluso l’accesso dei componenti del gruppo svantaggiato a un determinato bene o servizio.

La pluralità o singolarità degli esclusi va, quindi, valutata non in astratto ma in concreto alla luce del singolo mercato rilevante: la discriminazione può, quindi, rilevare anche in mancanza di una dichiarazione al pubblico, pregiudicando la parità di accesso al mercato di una pluralità di soggetti.

Bisogna, quindi, partire da una premessa diversa, ovvero quella secondo cui il divieto di discriminazione non nega la libertà di scelta della controparte, neppure quando il contraente rivolga la propria dichiarazione al pubblico. Il diritto dell’Unione Europea afferma, infatti, chiaramente che la proibizione di discriminare non pregiudica la libertà di scelta del contraente nella misura in cui la scelta non si basi su fattori di rischio.

Sebbene la dottrina abbia storicamente individuato un’antinomia tra divieto di discriminare e autonomia privata, tale divieto è, invero, limitato a svalutare giuridicamente talune differenze fattuali che non possono condizionare le opportunità di accesso agli scambi di mercato. Inoltre il sindacato sul carattere discriminatorio della scelta contrattuale riguarda esclusivamente il rifiuto di contrattare o la contrattazione a condizioni peggiori. Il divieto di discriminare non genera dunque alcun obbligo di motivazione sulle scelte contrattuali perché, applicato alle negoziazioni individuali, esige che tra le parti intercorra una relazione precontrattuale, in modo da risultare coerente con la tendenza del diritto dei contratti a colorare in termini discrezionali l’esercizio dell’autonomia solo in particolari contesti, connotati da un certo grado di relazionalità tra le parti.

Anche la giurisprudenza di legittimità è di recente giunta all’identificazione del fondamento della proibizione del divieto di discriminare nell’art. 3 della Costituzione unitariamente inteso, in modo da superare la tradizionale ostilità che si esprimeva sia nella ricerca delle fonti dell’eguaglianza che nel ricorso a modelli argomentativi più consueti, come l’ordine pubblico o il buon costume.

Le S.U., così, accogliendo le sollecitazioni provenienti dalla giurisprudenza europea, fanno derivare il principio di non discriminazione dal principio costituzionale di parità, ne viene fuori un diritto soggettivo assoluto a non essere discriminati, diritto posto a presidio di un’area di libertà e potenzialità del soggetto, rispetto a qualsiasi tipo di violazione della stessa.

Può, a questo punto, affrontarsi il tema della fisionomia del giudizio di discriminazione che, nella sua concezione più diffusa, è diretto ad accertare il carattere relazionale della discriminazione poiché è necessario un criterio di comparazione e due termini da confrontare.

È possibile, tuttavia, proporre una diversa ricostruzione del giudizio, coerente con la reciproca indifferenza dei rapporti contrattuali con controparti diverse, che tendenzialmente connota il diritto dei contratti.

Infatti la disciplina vigente non solo non presuppone la necessaria presenza di una distinzione o preferenza, richiedendo solo una restrizione, ma soprattutto non devono considerarsi atti discriminatori le differenze di trattamento giustificate da legittime finalità perseguite attraverso mezzi appropriati e necessari.

Alla discriminazione vietata è inoltre assimilata la molestia che consiste in un comportamento lesivo di un diritto assoluto a non essere intimiditi, degradati, umiliati o offesi per le proprie caratteristiche soggettive.

Quanto alla disciplina del criterio di discriminazione dell’illecito, una parte della dottrina lo considera un illecito di dolo. È indispensabile che la qualità personale della controparte determini in via esclusiva il consenso del contraente, in modo che egli si raffiguri e voglia riservare all’altro un trattamento dannoso o comunque più sfavorevole.

Tuttavia tale interpretazione pone alcuni problemi, in primo luogo quello di superare la tradizionale indifferenza tra dolo e colpa statuita dalla clausola generale di cui all’art. 2043 c.c..

Peraltro, nel disciplinare i divieti di discriminazione il legislatore non solo non richiama il dolo, ma addirittura prescinde dalla colpevolezza, adottando criteri oggettivi di imputazione dell’illecito.

Affinché si perfezionino le fattispecie legali di discriminazione è richiesto, alternativamente, lo scopo o l’oggetto o l’effetto o, ancòra, la conseguenza discriminatoria.

La scelta di modelli di imputazione dell’illecito oggettivi è suffragata dalla disciplina dell’onere probatorio che, ai sensi dell’art. 28 del d.lgs. 150/2011 configura una presunzione legale relativa che, ripartendo l’onere della prova, tutela la parte debole del rapporto che incontra le maggiori difficoltà probatorie.

Il fatto base che deve essere provato dall’attore si ritiene siano gi atti i patti o i comportamenti discriminatori, il fatto presunto è, invece, la discriminazione.

Infine, per quanto riguarda le tutele civili esperibili contro le discriminazioni contrattuali, il giudice ha un ampio ventaglio di rimedi, talvolta cumulabili per ottenere un’operatività congiunta.

La discriminazione può tradursi talvolta in un vizio di illiceità della causa che rende nullo il negozio, è il caso dei c.d. patti discriminatori. La verifica della liceità della causa si arricchisce adesso del richiamo al divieto di discriminazione, in grado di qualificare in termini di invalidità un negozio che vincola le parti al rispetto di una regola del rapporto che è discriminatoria.

Invece, quando l’illecito si compie nella fase precontrattuale, nelle forme del rifiuto di iniziare o proseguire le trattative, il rimedio inibitorio assume una posizione centrale.

La discriminazione può operare anche mediante la previsione di una clausola da cui discenda un trattamento deteriore. Nel caso in cui la condotta produca conseguenze pregiudizievoli nei confronti del soggetto leso può aggiungersi il rimedio risarcitorio che, nel testo del d.lgs. 150/2011 assume una natura fortemente sanzionatoria, come dimostra la fissazione di rigorosi criteri di liquidazione del quantum, l’espressa riparabilità del danno non patrimoniale e la pubblicazione del provvedimento di condanna.

Sul piano rimediale il punto più problematico è rappresentato dalla possibilità di ammettere una tutela reale dell’interesse sostanziale ad accedere all’utilità contrattuale.

Di fronte al rifiuto di contrarre, i rimedi inibitorio e risarcitorio possono infatti risultare inadeguati ad offrire una protezione piena e completa alla parte discriminata.

L’applicabilità del 2932 cc è tendenzialmente scartata poiché dal divieto di discriminazione non discende un obbligo a contrarre, non di meno, una parte della dottrina ancora all’art. 2058 cc la produzione degli effetti del contratto non concluso quale risarcimento in forma specifica.

Tuttavia il contratto imposto non conduce alla situazione che si sarebbe avuta senza l’illecito.

Tuttavia parte della dottrina ritiene che la pronuncia di una sentenza costitutiva sia ammissibile ove il rifiuto ingiustificato intervenga in una contrattazione seriale o a quella di rottura delle trattative sviluppatesi fino al raggiungimento di un’intesa sugli elementi essenziali dell’affare.

La molteplicità delle forme di realizzazione del principio di eguaglianza nell’area dei rapporti contrattuali comporta la diversificazione delle forme e delle tecniche di tutela, sarà, poi, compito dell’interprete individuare il rimedio civile che meglio garantisce il giusto equilibrio tra i contraenti.

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