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RESPONSABILITÀ PER VIOLAZIONE DEL DIRITTO COMUNITARIO

 

 

RESPONSABILITÀ PER VIOLAZIONE DEL DIRITTO COMUNITARIO

Pubblicato il 23/02/2015 autore Paola Montone

Il principio della responsabilità dello Stato per la violazione del diritto comunitario è strettamente correlato alla tematica dei rapporti tra l’ordinamento interno e quello comunitario, in termini di efficacia del diritto comunitario e conseguenti strumenti di tutela azionabili dai singoli cittadini nei confronti dello Stato inadempiente. Infatti, per giungere ad affermare la sussistenza della responsabilità di uno Stato europeo, laddove venga violato il diritto comunitario, bisogna preliminarmente esaminare la natura dell’ordinamento comunitario in uno alla vincolatività degli obblighi derivanti dai Trattati ( in particolare il T.U.E. ed il T.U.E.F). Questi ultimi rappresentano l’evoluzione di un percorso di integrazione partito inizialmente con la creazione della Comunità europea del carbone e dell’acciaio, con l’intento di promuovere l’economia a livello europeo, e poi con la firma del Trattato di Roma del 1957 col quale sono stati istituiti la Comunità economica europea (oggi U.e. dopo il Trattato di Maastricht) e l’Euratom. Attualmente, in questo processo di integrazione europea sono coinvolti ventotto Stati membri dell’Unione che, volontariamente, hanno ceduto parte della propria sovranità nazionale, a fronte dell’attribuzione di specifiche competenze ad un organo sovraordinato, che è per l’appunto, l’Unione europea. All’interno di quest’ultima operano istituzioni alle quali è in linea generale demandato il compito di cooperare in maniera leale e produttiva per realizzare una coesione sociale e territoriale, nonché la “solidarietà tra gli Stati membri”; il tutto è reso possibile per il tramite di un’unione economica e monetaria e soprattutto attraverso la garanzia della libertà di circolazione delle persone, merci, capitali e servizi. Il principio di leale collaborazione, che permea il Trattato sull’Unione europea e che trova il proprio riconoscimento all’interno dell’articolo 4 dello stesso Trattato, si realizza attraverso l’adozione di un modello di condivisione e di dialogo interistituzionale, creando il cosiddetto sistema di pesi e contrappesi. Con questa locuzione si fa riferimento alla coesistenza ed al bilanciamento di tanti interessi primari, dei quali ogni istituzione è portavoce, cioè agli interessi propri degli Stati membri dell’Unione, di quelli dei cittadini che gli stessi Stati rappresentano nonché agli interessi specifici perseguiti dall’Unione Europea. In tal senso, il Consiglio europeo, il Parlamento e la Commissione europea svolgono le loro funzionali istituzionali in maniera collaborativa, di guisa che il diritto comunitario derivato è espressione di una legittimazione democratica, avvalorata dall’adozione della procedura di cooperazione, consultazione o codecisione di volta in volta prevista dal Trattato in base alla tipologia della materia ed al profilo della competenza. Questa breve riflessione sulla nascita dell’Unione europea e sul meccanismo di adozione delle fonti del diritto comunitario di secondo grado, distinte dal diritto primario che si identifica con i Trattati istitutivi, risulta utile al fine di comprendere i sovracitati rapporti tra l’ordinamento comunitario e quello degli Stati aderenti, con particolare riferimento a quello italiano. In tal senso, un ruolo fondamentale è stato svolto dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, organo deputato, tra l’altro, alla corretta ed uniforme interpretazione del diritto comunitario, alla quale, non a caso, può essere richiesto, in via pregiudiziale, di pronunciarsi su una questione interpretativa concernente il diritto comunitario, sia primario che derivato, sollevata innanzi ad un organo giurisdizionale di uno Stato membro, ex articolo 267 T.F.U.E.. La Corte di Giustizia, proprio argomentando dall’esistenza di un’autonoma fonte di legittimazione del diritto comunitario e dal meccanismo volontario di adesione di ogni Stato all’Unione Europea – pur essendo la formale adesione subordinata alla sussistenza di determinati requisiti- ha da sempre affermato l’esistenza di un sistema unitario di integrazione, in cui l’Unione assume un carattere sovraordinato, frutto delle attribuzioni di competenze esclusive dei singoli Stati membri in determinate materie all’Unione medesima. Argomentare diversamente significherebbe non solo sconfessare il percorso di integrazione europea ed i vincoli derivanti dall’adesione ai Trattati ma soprattutto affermare la sostanziale inutilità di un sistema che, se rimane pluralista nella forma e nella sostanza, non ha ragion d’essere. Dall’adesione alla concezione monista discendono due importantissimi precipitati, utili al fine della disamina della questione giuridica in oggetto: l’effetto diretto del diritto comunitario derivato ed il principio di “primauté” o primazia che connota il diritto comunitario rispetto al diretto interno con esso contrastante, con conseguente disapplicazione di quest’ultimo. Con riferimento a quest’ultimo aspetto, giova precisare che l’affermazione della non applicazione del diritto interno contrastante col diritto comunitario è per la cultura giuridica italiana una conquista abbastanza recente, se si considera che la stipula del Trattato CE è avvenuta nel 1957. Difatti, è solo nel 1984 che la Corte Costituzionale giunge ad affermare l’operatività del rimedio della disapplicazione, ma lo fa dietro molteplici spinte della stessa Corte di Giustizia e soprattutto con la precisazione che l’ordinamento italiano e quello comunitario rimangono comunque autonomi, seppur coordinati ed integrati. La resistenza opposta dalla Corte Costituzionale si disvela già negli anni ’60, quando con la famosa sentenza Costa c. Enel, viene risolto il problema del contrasto della norma interna col diritto comunitario facendo applicazione del principio cronologico della lex posterior, sulla scorta della considerazione che essendo stato il Trattato recepito con legge, al pari di ogni altro accordo internazionale, è con tale legge che si pone il contrasto, risolvibile applicando i criteri ordinari di risoluzione delle antinomie. Nonostante la Corte di Giustizia si pronunci sulla medesima questione, ribadendo le sovra citate premesse argomentative ed i principi che ne derivano, anche in termini di garanzia dell’effetto utile e di una tutela giurisidizionale che dev’essere almeno pari a quella offerta dall’ordinamento comunitario a tutela delle posizioni dei propri cittadini, la Corte Costituzionale non sposa tale tesi e cerca di percorrere la via del giudizio di costituzionalità accentrato avente ad oggetto la norma interna contrastante col diritto comunitario, con riferimento al caso Frontini. Anche questa soluzione interpretativa viene bocciata dalla Corte di Giustizia che, con la sentenza Simmenthal, prospetta l’ostatività nei confronti dell’ordinamento comunitario e dei principi, fatti propri dalla medesima Corte ed entranti a far parte del diritto vivente, di un sistema di controllo accentrato, con una deminutio di tutela ingiustificata, a fronte della vis espansiva del diritto comunitario e della sua “primazia” in caso di contrasto applicativo. Alla fine, il Giudice delle leggi italiano vince la propria ritrosia, dettata dal timore che il diritto comunitario, originariamente carente di uno specifico nucleo di tutela dei diritti della persona, frutto della sua primigenia connotazione esclusivamente economica, potesse incidere sui principi del nostro ordinamento costituzionale e sui valori fondamentali della persona in maniera incontrollata, senza che la nota teoria dei contro limiti potesse svolgere un’ effettiva funzione di contenimento in tal senso. In ogni caso, il processo di evoluzione dei rapporti tra il nostro ordinamento e quello comunitario ha segnato una svolta decisiva grazie al legislatore del 2001 ed alla riforma del titolo V della Costituzione, con precipuo riferimento all’articolo 117. In particolare, è il primo comma che individua nei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario un parametro di riferimento costituzionale nell’esercizio della potestà legislativa tanto statale che regionale. Ecco, dunque, che il diritto comunitario trova così il proprio riconoscimento costituzionale, al di là della previsione di cui all’articolo 11 Cost., applicabile solo per le organizzazioni internazionali e in specie per l’O.n.u.. per la quale la norma era stata appositamente formulata. Fatto sta che oggi non si pone più un problema di ricerca di legittimazione del meccanismo di auto applicazione del diritto comunitario, né di limitazione dell’operatività dello stesso a mero parametro costituzionale interposto nel giudizio di legittimità costituzionale della normativa interna contrastante, a fronte del giudizio diffuso della compatibilità comunitaria del tessuto normativo interno. Così ricostruiti i rapporti tra ordinamento interno ed ordinamento comunitario, occorre soffermarsi sulle implicazioni derivanti dalla violazione del diritto comunitario. In primis, occorre evidenziare come gli atti giuridici dell’Unione si sostanzino nell’emanazione di regolamenti, direttive, decisioni, raccomandazioni e pareri. La vincolatività rappresenta una caratteristica di questi atti, ad eccezione delle raccomandazioni e dei pareri, assimilabili al concetto di soft law, e finalizzati a sortire l’effetto di stimolare e persuadere all’assunzione di comportamenti ed azioni conformi allo spirito del Trattato. Per il regolamento, che per definizione “ha portata generale…è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri” ai sensi dell’articolo 287 T.F.U.E., non si pone un problema di effetto diretto, diversamente da quanto accade per le direttive. Esse, infatti, pongono solo un vincolo di risultato, nel senso che lasciano allo Stato la scelta delle modalità giuridiche con cui pervenire all’obiettivo fatto proprio dalla direttiva: è necessaria, cioè, la cosiddetta trasposizione della direttiva in un atto normativo interno di recepimento entro il termine stabilito dalla direttiva stessa. Sul punto, occorre evidenziare come sia determinante la partecipazione dello Stato membro alla cosiddetta fase discendente, ossia alla fase applicativa del diritto comunitario, che, per quanto concerne il nostro ordinamento, è stata da ultimo disciplinata dalla legge “Buttiglione”. Quest’ultima ha sostituito la legge “la Pergola” che prevedeva l’adozione di una legge comunitaria annuale che, però per le sue caratteristiche operative, non è riuscita in sostanza a smaltire tutto l’arretrato in termini di attuazione delle direttive comunitarie; il merito della legge numero 11 del 2005 è stato quello di aver fortemente rilanciato la partecipazione delle Regioni e delle province autonome anche alla fase ascendente di formazione del diritto comunitario. Ciò posto, l’effetto diretto del diritto comunitario rappresenta un precipitato logico-giuridico dell’appartenenza all’ordinamento comunitario e della conseguente attribuzione alle istituzioni comunitarie di specifiche competenze originariamente avocate dallo Stato membro, in nome del principio di sovranità dello Stato nel proprio ordinamento interno. Il principio dell’effetto diretto è operativo non solo per i regolamenti, per i quali soccorre l’espressa previsione di legge, ma anche per le direttive. Per esse, in particolare, s’impone una precisazione, concernente la loro natura, in quanto oltre alle direttive che necessitano di un puntuale recepimento in termini di disposizioni normative interne dettagliate e complete, vi sono anche direttive caratterizzate da precisione definitoria e determinatezza contenutistica nonché da assenza di condizioni correlate alla loro trasposizione. Si tratta delle direttive cosiddette self-executing, in cui il carattere di chiarezza, precisione ed incondizionatezza non richiede alcun sforzo per lo Stato membro, se non in termini di mera riproduzione in un atto normativo interno. Per questa tipologia di direttive, la Corte di Giustizia ha prospettato il loro effetto diretto quando, scaduto il termine per il recepimento della direttiva, si è configurata una violazione sufficientemente caratterizzata, nel senso che si deve trattare di una violazione grave e manifesta del diritto comunitario, causalmente connessa alla produzione di un danno per il cittadino. A questo riconoscimento di un’efficacia diretta della direttiva viene generalmente ascritta una funzione sanzionatoria, nel senso che tale efficacia serve per evitare che lo Stato continui a perseverare nella violazione del diritto comunitario, non recependo la direttiva od anche non recependola in maniera corretta. Nello specifico, lo Stato non può beneficiare del proprio inadempimento per eccepire nei confronti del privato che ha azionato una tutela giurisdizionale l’assenza di un meccanismo remediale: si tratta del noto principio dell’estoppel, che si ricollega al principio di autoresponsabilità ed al divieto lesivo della buona fede oggettiva di venire contra factum. Ma vi e di più, con la sua giurisprudenza evolutiva, al fine di garantire l’effetto utile oltre che quello diretto del diritto comunitario, con possibilità per i privati di far valere la primazia del medesimo diritto nei confronti dello Stato, la Corte di Giustizia ha adottato un principio di protezione diretta dei diritti o comunque delle situazioni giuridiche soggettive contemplate dalle direttive, anche qualora le stesse non presentino i caratteri della precisione e della incondizionatezza. Nella nota sentenza Francovich, infatti, la Corte ritiene che in presenza di una direttiva che attribuisca ai singoli dei diritti ed il cui contenuto è comunque rinvenibile all’interno della stessa si deve accordare la stessa tutela ai cittadini degli Stati membri derivanti dall’efficacia diretta degli atti comunitari, sul presupposto dell’esistenza di una violazione grave e manifesta e del sovracitato nesso di causalità. Ciò che interessa rilevare, anche al fine della risoluzione del quesito concernente la responsabilità dello Stato per violazione di una direttiva il cui termine di recepimento non sia ancora scaduto, è che la Corte di Giustizia quando prospetta il rimedio della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario adotta una concezione unitaria dello Stato, nel senso che vi è indifferenza pratica se la violazione proviene da un organo espressione del potere esecutivo, piuttosto che esecutivo o giudiziario. Ecco, allora che la violazione del diritto comunitario può quindi configurarsi in capo allo Stato-legislatore, riferendosi con tale espressione all’ipotesi del legislatore che non recepisca nei termini la direttiva comunitaria ovvero altri provvedimenti comunitari oppure che li recepisca, ma in maniera incompleta e dunque inadeguata rispetto all’obiettivo prefissato a livello comunitario. In tale ipotesi, come anticipato, il rimedio azionabile dal privato, alle condizioni sopra descritte, è rappresentato dalla domanda di risarcimento del danno che, oggi, grazie all’espressa previsione contenuta nella legge di stabilità del 2012, è ancorata al contenuto dispositivo di cui all’articolo 2947 c.c. e dunque ad un termine di prescrizione quinquennale, che decorre dal momento “in cui il fatto, dal quale sarebbero derivati i diritti se la direttiva fosse stata tempestivamente recepita, si è verificato”. Tale statuizione ha risolto gli annosi dibattiti dottrinali e giurisprudenziali interni concernenti la natura della responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario: si tratta di una tematica che ovviamente è strettamente correlata all’adesione alla visione monista ovvero a quella dualista dell’ordinamento comunitario. Con la legge 183 del 2011 si è proceduta a sconfessare la ricostruzione operata dalla Corte di Cassazione, espressione della concezione dualista, in termini di responsabilità da atto lecito dannoso, antigiuridico solo sul piano dell’ordinamento comunitario, con conseguente riconoscimento al privato di un’indennità per inadempimento di un obbligo ex lege, rinvenibile, per l’appunto, nella violazione del diritto comunitario, ma non di quello interno. L’odierna previsione legislativa non consente, però, di ritenere superati alcuni rilievi critici derivanti dal fatto che l’applicazione dell’articolo 2043 c.c. pone un problema di individuazione dei caratteri di colpevolezza fatti propri dalla norma, che si intendevano superati mediante il richiamo all’articolo 1218 c.c.. Sul punto, però, si deve precisare, infatti, che in tutte le sue pronunce, la Corte di Giustizia ha statuito la responsabilità del diritto comunitario da parte dello Stato inadempiente senza che a tal fine rilevassero le componenti del dolo e della colpa, sulla falsariga di un modello di responsabilità oggettiva, volto a sanzionare esclusivamente l’inadempimento dei vincoli derivanti dall’adesione dello Stato membro all’Unione Europea e sempre al fine di garantire il massimo effetto utile di tutela per il privato cittadino. Ritornando al profilo della responsabilità dello Stato inteso come entità unica, si è riconosciuto a livello giurisprudenziale la configurabilità della stessa anche quando a violare in maniera manifesta il diritto comunitario è un organo giurisdizionale di ultimo grado ovvero un organo amministrativo. Sul punto, per quanto riguarda il primo aspetto, la Corte di Giustizia ha sottolineato l’incompatibilità con i principi del diritto comunitario di una disciplina quale quella sulla responsabilità civile dei magistrati prevista dalla legge del 1988 nella parte in cui subordina la stessa al dolo od alla colpa grave del magistrato nonché nella parte in cui esclude dal suo ambito di operatività l’ipotesi dell’errore di diritto. Invece, per quanto concerne la violazione del diritto comunitario da parte degli organi amministrativi, è stato precisato come per l’ordinamento comunitario conta il risultato non il mezzo attraverso il quale esso si persegue, nel senso che non può essere imposto un rimedio specifico a fronte del contrasto diretto di un provvedimento amministrativo con un atto normativo comunitario. Nello stesso senso si è ritenuto che l’effetto diretto del diritto comunitario ed il correlato principio di “primaté” non possono implicare l’automatico travolgimento del giudicato, in spregio ai principi di certezza del diritto e di legalità, se non quando si tratta di materia sulle quali sussiste una competenza esclusiva delle istituzioni comunitarie (come evidenziato nel caso Lucchini, non a caso concernente la violazione della normativa comunitaria in tema di aiuti di Stato) ovvero quando si discorra di efficacia esterna del giudicato, ossia della necessità che dell’interpretazione conforme al diritto comunitario per come prospettata dalla Corte di Giustizia si debba tener conto nella risoluzione di controversie aventi ad oggetto la medesima questione di diritto. Quanto sin qui affermato consente di poter risolvere la tematica della legislazione contrastante con una direttiva non ancora scaduta, soffermandosi preliminarmente sulla possibilità che lo Stato possa adottare una legge in contrasto con la direttiva prima che sia spirato il termine per il suo recepimento, nonché le conseguenze in termini di tutela del privato. L’emanazione di una direttiva comunitaria, sia essa o meno self-executing, pone un obbligo di risultato ex lege, dal quale derivano ulteriori obblighi aggiuntivi per lo Stato inteso come espressione del potere legislativo, che conformano ex ante il carattere di primazia del diritto comunitario. Tra questi obblighi rientra proprio quello di non adottare atti normativi in contrasto con il contenuto della direttiva che sarà oggetto di recepimento: la giustificazione dell’assunto risiede nella circostanza che, pur essendo la funzione legislativa caratterizzata da assoluta autonomia, la stessa risulta funzionalmente limitata dal rispetto di quei vincoli derivanti dall’appartenenza all’Unione europea, espressamente “costituzionalizzati” ad opera dell’articolo 117 della Costituzione. Né si potrebbe eccepire la circostanza che il termine di recepimento della direttiva non è ancora scaduto, in quanto se la direttiva vincola ad un risultato lo stesso viene irreparabilmente compromesso dall’adozione di una legislazione interna contrastante, in aperta violazione del principio di leale collaborazione istituzionale espresso dall’articolo 4 T.U.E.. Proprio perché si è in presenza di una violazione di un obbligo concernente i rapporti tra ordinamento interno ed ordinamento comunitario e non gli effetti verticali del diritto comunitario nei confronti dei singoli cittadini, da parte degli stessi non sarà invocabile una tutela risarcitoria. Infatti, per quanto concerne il profilo della risarcibilità del danno, in realtà l’effetto diretto delle direttive self-executing e la protezione diretta dei diritti attribuiti dalle direttive in generale, anche se non precise ed incondizionate, vengono ricollegati all’inutile spirare del termine di recepimento della direttiva stessa, con conseguente possibilità di richiedere il risarcimento del danno. Nell’ipotesi in esame non vi è un danno per il privato perché non è ancora scaduto il termine di recepimento della direttiva e lo Stato non è inadempiente rispetto all’obbligo di trasposizione della stessa nell’ordinamento interno. Certo è comunque ravvisabile la violazione del principio di leale collaborazione ma le conseguenze della stessa non sembra possano sortire effetti esterni diretti nei confronti dei privati, incidendo, piuttosto, sul piano dei rapporti interistituzionali. Tale discorso, in realtà, vale in presenza di una direttiva non sufficientemente precisa e non incondizionata, che non attribuisca diritti ai singoli, per la quale il necessario intervento di disciplina dello Stato legislatore non consente di postulare la lesione di situazioni giuridiche soggettive che, fino al momento del recepimento, non trovano ancora una definizione ed una disciplina giuridica. Al contrario, laddove si tratti di direttive self-executing, il peculiare carattere delle stesse consente ai privati di far valere in giudizio la violazione dell’obbligo di non adottare atti interni contrastanti con la direttiva non ancora scaduta, sulla base del principio del legittimo affidamento che ogni cittadino ripone sulla conformità della normativa interna rispetto al contenuto di una direttiva già sufficientemente chiaro e preciso: il rimedio in questo caso sarà quello della non applicazione della legislazione nazionale contrastante. Non si profilerà la possibilità di esperire un’azione risarcitoria, anche perché per espresso riconoscimento della Corte di Giustizia e sulla scorta della previsione di cui alla legge di stabilità per il 2012 il danno risarcibile è quello eziologicamente correlato al mancato recepimento della direttiva nei termini previsti, che qui non sussiste. Ipotesi diversa è quella della legislazione contrastante con la direttiva non ancora scaduta già esistente nel nostro impianto normativo e per la quale si impone un obbligo di interpretazione conforme della stessa. Al pari, infatti, di quanto accade nel giudizio di legittimità costituzionale della norma, per cui s’impone al giudice a quo un preliminare tentativo di individuare, tra le interpretazioni possibili, quella che garantisca la piena tenuta del tessuto costituzionale, anche per il diritto comunitario s’impone per il giudice nazionale uno sforzo interpretativo in conformità con i principi comunitari e con il contenuto dispositivo degli atti vincolanti delle istituzioni, nelle quali rientrano anche le direttive. Nel caso in cui ciò non sia possibile, il giudice nazionale può ricorrere anche allo strumento del rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, di cui all’articolo 267 T.F.U.E., il cui intervento, in questo caso, sortirebbe il pregevole effetto di chiarificare il contenuto della direttiva, sempre sul presupposto che la stessa attribuisca dei diritti ai singoli che, solo in tal caso potrebbero trovare giustizia. In conclusione, il rispetto dei vincoli derivanti dall’appartenenza all’ordinamento comunitario fatti propri dalla riforma costituzionale del 2001 impongono allo Stato di cooperare lealmente con le istituzioni dell’Unione, affinché il rispetto del diritto comunitario derivato sia garantito ab origine, a maggior tutela della tenuta di un impianto sovraordinato, quale quello comunitario, in cui i valori della persona e del rispetto dei diritti hanno assunto sempre più un ruolo centrale.

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