ATTI DI TRASFERIMENTO IMMOBILIARE E CRISI CONIUGALE

ATTI DI TRASFERIMENTO IMMOBILIARE E CRISI CONIUGALE

Pubblicato il 13.04.2017 Autore Carmen Oliva

La regolamentazione dei profili patrimoniali del rapporto tra i coniugi nel caso di crisi coniugale è un fenomeno recente e disomogeneo. Le norme che il nostro ordinamento vigente dedica agli aspetti patrimoniali nascenti da separazione o divorzio sono estremamente ridotte e poco confacenti a regolare la molteplicità delle fattispecie poste al vaglio dei giudici. Tra queste disposizioni, giova ricordare l’art.5 della L.898/70 che espressamente consente ai coniugi in crisi di corrispondere in una “unica soluzione” una prestazione pecuniaria postmatrimoniale  tradizionalmente prevista come periodica. La norma si riferisce però al solo procedimento di divorzio contenzioso e non a quello consensuale, dove quella che rileva è la volontà dei coniugi. In realtà, il fondamento del potere dei coniugi di porre in essere negozi traslativi di diritti su uno o più beni determinati, va ricercato non già nella sopracitata norma, bensì in due fondamentali principi del nostro ordinamento. Ci si riferisce, da un lato, al principio di libertà contrattuale, canone fondamentale di tutta la contrattualistica, sia matrimoniale che postmatrimoniale e , dall’altro al carattere eminentemente disponibile dei diritti in gioco.

Al riguardo le prime pronunce della Cassazione hanno rilevato come l’equiparazione dell’autonomia concessa ai coniugi a quella generalmente riconosciuta ai privati non può portare ad attribuire ai primi maggiore libertà di determinazione di quanta l’ordinamento ne riconosca ai privati nei reciproci rapporti. Dato ciò per presupposto, posto che la causa, elemento essenziale del contratto, giustifica gli atti traslativi tra privati, è chiaro che l’elemento causale, anche in questa materia, condiziona la validità degli atti di trasferimento posti in essere durante la crisi coniugale, soprattutto trattandosi di atti traslativi , per i quali il legislatore non si accontenta della mera esistenza del nesso causale, ma pretende che esso risulti in maniera esplicita o implicita dall’atto stesso.

Poste queste premesse,  possiamo risalire alla causa degli atti traslativi posti in essere durante la crisi coniugale.

La disamina risulta più agevole se fatta “in negativo”, ossia  muovendoci per esclusione. Trattandosi di “ contratti della crisi coniugale”, tanto la dottrina quanto la giurisprudenza sono concordi nel negare carattere liberale alle attribuzioni effettuate ex uno latere da uno dei coniugi all’altro  in occasione della separazione o del divorzio, in quanto configuranti atti in cui non è ravvisabile né l’animus donandi né la gratuità dell’attribuzione.

La configurazione della causa come donativa rappresentava  sovente un escamotage del coniuge che intendeva recuperare il bene ceduto in costanza di separazione o divorzio, adducendo la nullità dell’atto di cessione per violazione dell’art.781c.c. il quale vietava le donazioni tra coniugi. Venuta meno la norma, poi, la nullità veniva dedotta o ricorrendo alla nullità delle promesse di donazione ( se il negozio dispiegava effetti meramente obbligatori), ovvero alla nullità per mancato rispetto della forma solenne di cui agli art. 782 c.c. e 48 legge notarile ( che prescrive per la donazione di immobili la forma pubblica e la presenza di testimoni).

Superato questo inquadramento, la giustificazione causale delle attribuzioni in oggetto è stata ricercata nella necessità di adempiere all’obbligo legale di mantenimento previsto dagli artt. 156c.c. e 5 comma 6 L. divorzio. Tuttavia anche la tesi della causa solutionis è andata incontro ad alcuni rilievi.  Di solito, le parti nella stipulazione dei contratti c.d. coniugali, non fanno riferimento alla causa praeterita ( ossia esterna), ma pur ammettendo che esse menzionino expressis verbis il proprio intento di adempiere, mediante il contratto, alle obbligazioni ex art.156 o art.5 L.Div.. resta il fatto che l’affermata funzione solutoria, verrebbe meno ( comportando la nullità del contratto) qualora effettuata in favore del coniuge cui tali diritti non dovessero competere. Al tradens sarebbe quindi concesso, nei limiti della prescrizione dell’azione di ripetizione dell’indebito, riottenere il bene trasferito, salvo la prova da parte dell’accipiens di altra causa negoziale valida.

È chiaro poi che, a prescindere dal richiamo operato alla precedente obbligazione, tale vincolo dovrebbe comunque imprescindibilmente esistere  e, come tale, dovrebbe essere sempre stato previamente determinato nel suo preciso ammontare, vuoi da una decisione giudiziale, vuoi da un’intesa delle parti. E proprio questo elemento è quello che, il più delle volte, fa difetto nel caso di specie.

Un altro orientamento rinviene la giustificazione causale dei contratti  in esame nella causa transattiva. Tale soluzione riesce facile se si pone mente al fatto che le circostanze in cui matura solitamente la decisione di addivenire ad un contratto della crisi coniugale inducono a ritenere la presenza di una res litigiosa, piuttosto che una res dubia.  Il richiamo alla transazione,  per il vero più insistente in giurisprudenza che in dottrina, incontra una fondata obiezione, consistente nell’impossibilità di riscontrare nei contratti in oggetto, una serie di concessioni reciproche; caratteristica questa fondamentale ed imprescindibile dei negozi di transazione. Basti pensare ai casi più ricorrenti in cui il trasferimento di diritti su beni mobili o immobili  si presenta come unilaterale; la stessa osservazione vale per quelle pattuizioni che prevedono l’erogazione di un assegno da una parte all’altra.

Escluse le configurazioni summenzionate, parte della dottrina si è protesa verso la configurazione di contratti atipici. Ma se si tiene conto del carattere globale delle negoziazioni che la coppia in crisi pone in essere nella fase di “liquidazione del rapporto coniugale” di fronte alla necessità di regolare i reciproci rapporti di dare-avere nascenti dalla convivenza protratta per anni, vi è da chiedersi se , in luogo di una miriade di contratti innominati, sia possibile individuare  una vera causa tipica del negozio patrimoniale della crisi coniugale, nella definizione stessa della crisi, o più esattamente,  dei sui aspetti patrimoniali. Tale negozio riesce ad abbracciare ogni forma di costituzione e/o trasferimento di diritti patrimoniali, compiuti con o senza una controprestazione, compiuti in occasione della crisi coniugale, anche se non necessariamente in seno ad una separazione dinanzi al tribunale.

Questa ipotesi sembra avvalorata dalla stessa terminologia impiegata dal legislatore laddove all’art. 711 c.p.c. dispone  che, dopo il vano esperimento del tentativo di conciliazione da parte del Presidente del tribunale,  si dà atto nel processo verbale “ del consenso dei coniugi alla separazione e delle condizioni riguardanti i coniugi stessi e la prole”. Lo stesso richiamo alle “ condizioni inerenti alla prole e ai rapporti economici” in sede di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, sono altresì richiamate dall’art.4 comma 13 legge divorzio.

Ora, una lettura coordinata delle predette disposizioni, alla luce della giurisprudenza ormai costante della Suprema Corte a mente della quale ciascun coniuge ha diritto di condizionare il proprio assenso alla separazione ad un soddisfacente assetto dei rapporti patrimoniali, consente di interpretare la locuzione “ condizioni della separazione”  in senso oggettivo ( e non più soggettivo), facendovi rientrare non solo le regole di condotta che regolano le reciproche relazioni nella fase successiva alla separazione o al divorzio, ma anche tutte quelle pattuizioni concluse dai coniugi al fine di pervenire ad una definizione composita della crisi coniugale, comprese quelle a carattere precipuamente economico.

Dal momento che l’intento principe delle parti è quello di sistemare definitivamente  ed in considerazione della crisi coniugale le pendenze che un più o meno lungo periodo ci vita comune ha determinato, sembra più appropriato parlare di una causa tipica di “definizione della crisi coniugale” o, se si vuole essere più corretti, di una causa tipica di “definizione degli aspetti economici della crisi coniugale”.  I “contratti della crisi coniugale” sono, quindi, quelli che si caratterizzano, vuoi per la presenza della causa tipica di definizione della crisi coniugale , vuoi per la semplice presenza accanto ad una causa tipica diversa ( donazione, transazione, datio in solutum, ecce cc )di un motivo “postmatrimoniale”, rappresentato dalla circostanza che quel contratto viene stipulato dalle parti alla stregua di una delle condizioni della separazione o del divorzio, ossia quale elemento cui è condizionata la definizione non contenziosa della crisi coniugale. La stessa Corte di legittimità, nel 2004, aveva evidenziato come, gli accordi di separazione personale tra i coniugi, sfuggendo alle connotazioni classiche dell’atto di “donazione” vero e proprio, rispondono di norma più ad uno specifico spirito di “sistemazione dei rapporti” in occasione della separazione consensuale, svelando una tipicità propria, la quale poi, di volta in volta, può colorarsi dei tratti dell’onerosità, della gratuità, della transattività o della volontà solutorio-compensativa.

Per ciò che riguarda la tipologia degli atti in oggetto, il trasferimento può concretamente avvenire in due sedi distinte: quella giudiziale e quella stragiudiziale.

Atto traslativo in sede giudiziale è quello che i coniugi pongono in essere dinanzi al giudice, nel verbale di separazione giudiziale redatto nel corso dell’udienza ex art.711 c.p.c., oppure in quello di comparizione dinanzi al collegio, nella procedura su domanda congiunta, ex art 4 comma 13 l.div..

L’atto traslativo in sede stragiudiziale si compie invece al di fuori di questo contesto, sovente in adempimento di un impegno a trasferire assunto nella fase giudiziale.

L’ammissibilità dei trasferimenti in sede di separazione e di divorzio è stata già da tempo riconosciuta non solo in relazione a negozi aventi efficacia meramente obbligatoria, bensì anche a casi di atti immediatamente traslativi. Una vecchia Cassazione del 1941 aveva ad esempio ammesso la possibilità di inserire nel verbale di separazione una donazione; sulla sua scia, altre pronunce ammettevano la costituzione, sempre nel verbale, di un diritto reale di abitazione, o ancora, la cessione di una quota di comproprietà su un immobile da un coniuge ad un altro.

Proprio in relazione ad un trasferimento immobiliare a mezzo di verbale di separazione consensuale, la Corte di Cassazione nel 1997, si è espressa sulla natura di atto pubblico del verbale d’udienza e sull’idoneità dello stesso a costituire valido titolo di trascrizione. La Corte quindi ritiene pienamente valide le clausole dell’accordo di separazione che riconoscano ad uno o ad entrambi i coniugi la proprietà esclusiva di beni mobili o immobili, ovvero ne operino il trasferimento a uno di essi al fine di assicurarne il mantenimento. Il suddetto accordo di separazione, in quanto inserito nel verbale di udienza, assume forma di atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 c.c. e, ove implichi il trasferimento di diritti reali immobiliari, costituisce dopo l’omologazione, valido titolo trascrivibile ai sensi dell’art2657 c.c.

Venendo ora ai soggetti dei trasferimenti immobiliari in discorso, come normalmente accade, le attribuzioni vengono effettuate da un coniuge nei riguardi dell’altro; ma non sono rari i casi in cui il genitore compia ( o prometta di compiere) le attribuzioni in favore di uno o più figli. Sul punto è noto che la giurisprudenza di legittimità, superando le perplessità dei giudici di merito, sulla liquidabilità con prestazione una tantum delle attribuzioni a favore dei figli minorenni, ha stabilito che l’impegno del coniuge –nel quadro di un accordo di separazione consensuale- di donare un immobile ad uno o più figli quale contributo al mantenimento degli stessi è configurabile alla stregua di un contratto a favore di terzi ( sia se ad effetti traslativi immediati, sia se in forma di preliminare a favore di terzi). È stato così deciso che, ancorchè taluno, in sede di separazione  coniugale consensuale, assume l’obbligo di provvedere al mantenimento di un figlio minore, impegnandosi a trasferirgli a tal fine  un determinato bene immobile, pone in essere con il coniuge un contratto preliminare a favore di terzi. Quando poi in esecuzione di detto obbligo si forma il negozio traslativo, esso esula dalla donazione, ma configura una proposta di contratto unilaterale, gratuito, rientrante della fattispecie di cui all’art 1333c.c., e quindi destinato a produrre effetti in mancanza del rifiuto del destinatario entro un dato termine. In tempi più recenti, la Cassazione ( sentenza n. 11342/2004) ha stabilito che “ è valida di per sé la clausola dell’accordo di separazione che contenga l’impegno di uno dei coniugi, al fine di concorrere al mantenimento del figlio minore, di trasferire in suo favore la piena proprietà di un bene immobile, trattandosi di pattuizione che dà vita ad un contratto atipico, distinto dalle convenzioni matrimoniali e dalle donazioni, volto a realizzare interessi meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico, ai sensi dell’art.1322 c.c.”. La medesima decisione ha altresì fissato il principio secondo cui “ la pattuizione, intervenuta in sede di separazione consensuale, contenente l’impegno di uno dei coniugi, al fine di concorrere al mantenimento del figlio minore, di trasferire, in favore di quest’ultimo, la piena proprietà di un bene immobile, non è soggetta alla risoluzione per inadempimento, ex art.1453c.c., né all’eccezione di inadempimento ex art.1460c.c., non essendo ravvisabile in un siffatto accordo solutorio sul mantenimento della prole, quel rapporto di sinallagmaticità tra prestazioni che è fondamento dell’una e dell’altra, atteso che il mantenimento della prole costituisce obbligo ineludibile di ciascun genitore, imposto dal legislatore e non derivante, con vincolo di corrispettività, dall’accordo di separazione tra i coniugi, tale accordo potendo, al più, regolare le concrete modalità di adempimento di quell’obbligo ( nella specie il padre, che aveva assunto tale impegno di trasferimento, convenuto in giudizio per l’esecuzione in forma specifica ex art.2932 c.c., aveva chiesto la risoluzione della pattuizione deducendo l’inadempimento della madre all’obbligazione da costei assunta nel medesimo accordo di separazione, di consentire che la figlia frequentasse il padre)”.

Anche sul piano fiscale gli atti di trasferimento in esame, hanno trovato concreta regolamentazione. Come si evince dalla sentenza della Cassazione n. 11458/2005 nell’ipotesi di trasferimento di immobili in adempimento delle obbligazioni assunte in sede di separazione personale dei coniugi, l’art.19 l n. 74/87, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n.176/1992, deve essere interpretato nel senso che l’esenzione dalle imposte di bollo di registro e  da ogni altra tassa di tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti relativi allo scioglimento del matrimonio o di cessazione dei suoi effetti civili, si estende a tutti gli atti, i documenti ed i provvedimenti  relativi al procedimento di separazione personale dei coniugi, in modo da garantire l’adempimento delle obbligazioni che i coniugi separati hanno assunto per conferire un nuove assetto  ai loro interessi economici, anche con atti i cui effetti siano favorevoli ai figli. Nella specie la Suprema Corte ha ritenuto applicabile, in una fattispecie riguardante il trasferimento gratuito dal padre alle figlie della propria quota di proprietà della casa adibita ad abitazione familiare, in ottemperanza di un’obbligazione assunta in sede di separazione consensuale, non la normativa generale sugli atti di trasferimento degli immobili tra parenti in linea retta, ma la disciplina speciale sugli atti esecutivi di atti di separazione personale tra i coniugi.

E’ stato addirittura deciso che le agevolazioni in parola spettino anche in sede di registrazione della pronunzia che sia intervenuta all’esito di una divisione giudiziale di beni già ricadenti nella comunione legale tra ex coniugi, in riferimento ai quali fosse già stata conseguita sentenza di scioglimento degli effetti civili del matrimonio (Cass. N. 14157/13).

Si può dire che ciò che conta, ai fini della fruizione delle esenzioni fiscali, è unicamente l’aspetto causale, essendo irrilevante sia l’oggetto del trasferimento sia il beneficiario, che sia esso il coniuge  oppure i figli (Cass. Civ. nn. 2111/2016 e 3110/2016 )

Per ciò che attiene, invece, l’oggetto del trasferimento, rilevano non soltanto gli atti traslativi della proprietà o di altri diritti reali, ovvero di quote di comunione su tali diritti, relativi a qualsiasi tipo di beni ( immobili, mobili registrati e non, titoli di credito, universalità, ecce cc), ma anche quelli aventi ad oggetto iure in re aliena. Tra i iure in re aliena che potranno essere costituiti attraverso un contratto della crisi coniugale i più comuni sono il diritto di usufrutto, uso e abitazione, anche se non è da scartare aprioristicamente la sostituibilità a mezzo di tali accordi di un pegno o di un’ipoteca.

In ordine alle sede, si è già brevemente accennato al fatto che i trasferimenti in questione non trovano necessariamente collocazione nel procedimento di separazione o di divorzio. Essi, invero, ancorchè conclusi in occasione della crisi coniugale, non debbono necessariamente essere consacrati nel verbale di udienza di comparizione dinanzi al presidente o al collegio. Anzi, è bene premettere  che le cessioni di immobili non possono essere domandate al Giudice in una causa di separazione giudiziale, in seno alla quale il Giudice può limitarsi solo a disporre l’assegnazione della casa coniugale e che, quindi, tale possibilità è riservata ai soli casi in cui i coniugi siano d’accordo e si separino consensualmente. Alcuni Tribunali consentono che il trasferimento sia effettuato tramite il verbale di separazione consensuale omologato e poi trascritto, altri negano questa possibilità e consentono che nel verbale vengano inserite condizioni ad efficacia obbligatoria con cui un coniuge si impegna a trasferire, con atto notarile successivo, il bene in favore del coniuge o dei figli.

Quella che però sembra la tesi dominante ( anche per la fretta che spesso accompagna il desiderio di chiudere una situazione contingente dolorosa) conclude nel senso che rientra pertinentemente nel contenuto dell’accordo di separazione ogni statuizione finalizzata a regolare l’assetto economico dei rapporti tra i coniugi in conseguenza alla separazione , comprese quelle attinenti al godimento ed alla proprietà dei beni, il cui nuovo assetto sia ritenuto dai coniugi necessario ai fini della separazione e che il Tribunale, omologandolo, non abbia considerato in contrasto con gli interessi familiari.

Una maggiore attenzione meritano però anche gli accordi a carattere meramente obbligatorio,  rispetto ai quali, sebbene soddisfatto il requisito causale, si discute della natura dell’impegno a trasferire. In sostanza, una volta chiarito che le parti possono limitarsi a pattuire in sede giudiziale un semplice impegno ad effettuare un distinto e  successivo atto di trasferimento, si tratta di capire in primo luogo, quale sia la struttura dell’impegno a trasferire, ed in secondo luogo, quale sia la struttura del successivo atto di trasferimento.

L’obbligazione assunta dinanzi al giudice di operare un trasferimento immobiliare può trovare esecuzione solo attraverso un apposito atto di attuazione dell’obbligazione di trasferire. Non è chiaro però se questo debba avere natura di atto bilaterale ( quindi richiedente la necessaria manifestazione di volontà del destinatario dell’attribuzione) ovvero di un atto  unilaterale traslativo ( prescindente quindi dall’accettazione dell’accipiens), o, ancora, quella di proposta ex art.1333 c.c. ( che presuppone la mancanza di rifiuto dell’accipiens). Proprio l’ultima di quelle appena indicate è la soluzione adottata dalla Cassazione , la quale ha escluso che l’obbligo a trasferire de quo si sostanziasse in un contratto preliminare ( nello specifico un preliminare di contratto ex art.1333), ravvisandone invece un’ipotesi di vero e proprio contratto ( definitivo) con obbligazioni a carico del solo proponente.

Quanto al successivo atto di trasferimento, una volta scartata la via della compravendita e della donazione , restano tre possibilità : il contratto con obbligazioni a carico del solo proponente ex art 1333 c.c., il negozio traslativo unilaterale o pagamento traslativo ( fattispecie dibattuta) , il negozio traslativo bilaterale.  Per la prima soluzione si è già espressa la Corte di cassazione, anche se criticata da chi ritiene che proporre un’estensione analogica dell’art.1333 c.c. sia inaccettabile, stante il carattere eccezionale della norma. Del resto anche le altre due soluzioni prospettate non sono accettabili perché il negozio traslativo unilaterale  ( o pagamento traslativo) riconducibile alla categoria di cui all’art 1176 c.c. è svincolato da ogni forma di accettazione o di mancato rifiuto da parte del destinatario. Inoltre, contro questa soluzione militano anche le persistenti incertezze sull’ammissibilità nel nostro ordinamento di un trasferimento di proprietà mediante atti a struttura unilaterale , visto il  fondamentale principio consensualistico che regola la materia contrattuale.

Venendo alla tutela giurisdizionale dell’obbligazione di trasferire, dottrina e giurisprudenza sembrano concordi nel ritenere ammissibile, in caso di rifiuto dell’obbligato, l’azione ex art. 2932 c.c.. Non vi è nessuna ragione per escludere un’estensione della sentenza costitutiva ex art 2932 c.c. anche in funzione solutoria degli effetti che sarebbero dovuti scaturire dall’atto traslativo della proprietà, alla cui effettuazione un coniuge si era obbligato in sede di stipula del contratto di definizione della crisi coniugale.

Quanto sopra riferito non esclude naturalmente il fatto che i coniugi possano compiere attribuzioni vicendevoli che rinvengano nella separazione o nel divorzio una mera occasione. Così la divisione, la permuta di diritti reali, la donazione effettuata in concomitanza con tali eventi rimangono pur sempre tali, senza che la separazione personale o lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio possano sortire speciale incidenza sotto il profilo dell’elemento causale.

In ogni caso è stato deciso che gli accordi in questione, quando vengano a sostanziarsi nel trasferimento di diritti reali immobiliari, non si sottraggono all’eventuale possibilità per i terzi di un’impugnativa per il tramite di azione revocatoria fallimentare ex artt. 67 e 69 l.f.. L’esperimento della detta azione infatti non rinviene ostacolo nell’omologazione dell’accordo traslativo, nè nella funzione solutoria rispetto all’obbligazione di mantenimento del coniuge attributario e/o della prole (Cass. n. 8516/06). Analogamente è a dirsi ( Cass. n. 1144/2015) per l’assoggettabilità ad azione revocatoria ordinaria (art.2901 cod.civ.). Ovviamente occorre che la situazione di crisi debitoria sia preesistente alla intrapresa della separazione (Cass n. 6076/2015).

Al riguardo è stato deciso come occorra valutare non semplicemente l’atto che sancisce l’effetto traslativo finale, bensì anche la consistenza degli accordi preliminari di separazione (Cass.n, 11914/08).

Quanto infine ai profili squisitamente formali e pubblicitari le obiezioni di dottrina e giurisprudenza ruotano attorno ai crismi formali di validità degli atti di trasferimento immobiliare, ed in particolare se questi possano ritenersi rispettati dal verbale d’udienza e dal provvedimento di omologa, qualora contengano detto trasferimento.

Un orientamento negativo trae argomento dal carattere tassativo delle norme che attribuiscono effetti costitutivi alle sentenze (art.1908 c.c.), rilevando come il provvedimento di omologa non sia ascrivibile a tale novero, in quanto avente appunto la veste di mero decreto, per giunta non dichiarato dalla legge come espressamente idoneo a produrre effetti costitutivi.

Nessuna norma, però, consente di asserire che le dichiarazioni negoziali siano limitate nei propri effetti traslativi solo perché emesse in sede processuale o che, addirittura, l’ambito della giurisdizione ( compresa quella c.d. volontaria)  non possa estendersi anche all’attività di ricevimento di atti negoziali. Invero, le stesse disposizioni in materia di separazione consensuale evidenziano in maniera clamorosa l’esistenza di almeno un caso di ricevimento da parte dell’organo giurisdizionale, quali il presidente ed il cancelliere, di un atto negoziale, qual è sicuramente l’accordo dei coniugi a vivere separati. Passando poi ad analizzare l’attività contenziosa, basterà citare il caso del verbale di conciliazione giudiziale  ( artt.185 cpc e 88 disp.att.c.p.c) il quale ben può contenere, per esempio, una transazione con cui si disponga dell’immediato trasferimento di diritti su uno o più beni, e che, come atto pubblico immediatamente traslativo, ben può costituire titolo per la trascrizione.

In sede di separazione consensuale la questione dell’ammissibilità di atti traslativi immobiliari, investe il problema dell’individuazione della categoria di documento cui ascrivere il relativo verbale di udienza. Il verbale, che si forma nel corso dell’udienza presidenziale ex art.711,co3,c.p.c.,  deve dare atto “ del consenso dei coniugi alla separazione e delle condizioni riguardanti i coniugi stessi e la prole”.

 Il processo verbale d’udienza è regolato dall’art 130 c.p.c. che individua nel cancelliere il soggetto tenuto alla redazione del verbale, sotto la direzione del giudice. Ulteriore dato normativo di riferimento è l’art.57, 1 co, cp.c. a mente del quale “ il cancelliere documenta a tutti gli effetti, nei casi e nei modi previsti dalla legge, le attività proprie e quelle degli organi giudiziari e delle parti”. Per cui, senza ombra di dubbio si può ricondurre al cancelliere la paternità del verbale di udienza, relegando la funzione del giudice a quella di mera cooperazione. È, quindi, assolutamente incontestabile che, avuto riguardo alla circostanza che il cancelliere ( esattamente come il giudice) riveste la qualifica di pubblico ufficiale, la stesura del verbale di udienza rientra negli atti di esercizio di una pubblica funzione, aventi quindi le caratteristiche di cui all’art.2699c.c.. In sostanza, come riconosciuto dalla stessa giurisprudenza di legittimità, gli atti redatti dal cancelliere, con l’osservanza delle formalità prescritte dalla legge, sono a tutti gli effetti atti pubblici.

Una volta superata la distinzione tra “atto pubblico negoziale” ed “atto pubblico non negoziale” dovrà concludersi che gli accorsi tra i coniugi aventi effetto traslativo (costitutivo, modificativo o estintivo di diritti reali immobiliari) sono soggetti a trascrizione ex art. 2643 c.c. . Per quanto attiene, in particolare, agli accordi conclusi in sede di udienza di separazione consensuale, andrà ricordato che il relativo verbale, in quanto atto pubblico a tutti gli effetti, potrà costituire titolo idoneo per l’esecuzione delle formalità pubblicitarie ex art.2657 c.c..

Inutile dire che quanto sopra illustrato è riferibile, mutatis mutandis, anche alla materia degli accordi in materia di divorzio. Qui, avuto riguardo al carattere negoziale dell’accordo di divorzio su domanda congiunta, va ribadito che gli effetti d’ordine patrimoniale derivano direttamente dal contratto di divorzio concluso dai coniugi, rispetto al quale la pronuncia del tribunale assume il mero carattere di omologa. Il tribunale, dunque, di fronte alla pattuizione di un trasferimento in sede di accordi ex art. 4, comma 13 l.div. ( pattuizione recepita nel verbale di udienza collegiale) si dovrà limitare a dare atto dell’intesa avvenuta tra i coniugi, sia in relazione agli impegni di carattere obbligatorio, che per quanto concerne gli eventuali trasferimenti direttamente posti in essere in sede di verbale, come appare confermato dalla circostanza che il riconoscimento di effetti traslativi a questo tipo di pronunzia si porrebbe in contrasto con la regola generale espressa dall’art.2908 c.c..

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