AUTONOMIA NEGOZIALE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE

 

AUTONOMIA NEGOZIALE E DIVIETO DI DISCRIMINAZIONE

 

Pubblicato il 15.10.2016 autore Alessia Converti

 

 

Nel nostro ordinamento giuridico l’autonomia negoziale è una regola fondamentale, poiché attraverso di essa l’individuo può decidere della propria sfera giuridica, sia personale che patrimoniale. L’atto di esplicazione di detta autonomia è il negozio giuridico, che viene definito come l’atto di autonomia privata con il quale il soggetto organizza la propria vita e dispone dei propri beni.

Per dare una completa definizione di negozio giuridico occorre analizzarlo da un punto di vista strutturale e da uno funzionale. Dal primo punto di vista, il negozio giuridico altro non è che una dichiarazione di volontà diretta alla produzione di un effetto. A riguardo, si rileva come sono state superate le teorie della volontà, per cui il negozio è manifestazione della volontà reale, e della dichiarazione, per la quale perno fondante sarebbe la dichiarazione di volontà estrinsecata ovvero quella apparente. La tesi che prevale è quella secondo cui il negozio giuridico non è solo volontà o dichiarazione ma è una dichiarazione vincolante perché esteriorizzata e nella misura in cui appare corrispondente ad una volontà che è idonea a suscitare un affidamento nei consociati, secondo il principio di apparenza e di buona fede. La volontà, allora, è essenziale ma rileva come fatto sociale, come volontà che appaia tale secondo determinati indici che portano a ritenere che la dichiarazione resa sia corrispondente alla realtà. Se poi questa rispondenza c’è ma non è effettiva, la dichiarazione vincola sulla base del principio di auto responsabilità e di affidamento. Si rileva, poi, come la volontà è una volontà che riguarda non solo l’atto ma manche gli effetti: la volontà deve essere diretta alla creazione, alla modifica o all’estinzione di un rapporto giuridico di natura patrimoniale nell’ambito contrattuale, anche non patrimoniale in campo non contrattuale. Ed è questa, la volontà dell’effetto, che differenzia il negozio giuridico dall’atto giuridico in senso stretto dove non è necessaria la volontà dell’effetto.

Dal punto di vista funzionale, il negozio, atto di autonomia privata, è un autoregolamento di interessi con la particolarità che l’autore dell’atto e il destinatario degli effetti del medesimo sono la stessa persona.

Data una visione del concetto di negozio, si rileva a questo punto come esso non viene menzionato nel codice civile, non vi è una disciplina ad hoc dello stesso. Questo ha portato una parte della dottrina a negare l’utilità ed anche l’esistenza della categoria del negozio giuridico. Ma la tesi prevalente è quella contraria, quella secondo cui il negozio giuridico esiste e la categoria generale a cui fare riferimento è quella del contratto. Ciò in quanto il legislatore ha disciplinato all’interno del codice civile il negozio per eccellenza, ovvero il contratto, il centro della vita degli affari dell’individuo. Ed è alla disciplina del contratto, infatti, che bisognerebbe fare riferimento per risolvere i problemi disciplinatori relativi agli altri negozi giuridici, quale ad esempio il testamento e il matrimonio, compresi anche i negozi dissolutori quali gli accordi di separazione e quelli divorzili.

E questo sarebbe altresì confermato dalla circostanza che l’art. 1324 c.c. rinvia alla disciplina del contratto per quanto non diversamente disposto e compatibile per i negozi giuridici unilaterali.  Si aggiunga che con riferimento a questi ci si è anche domandati se l’unico negozio giuridico di carattere generale fosse solo il contratto o se, invece, anche quello unilaterale, in particolare il negozio promissorio di cui al 1988 c.c., possa essere considerato strumento generale di esplicazione dell’autonomia negoziale. La dottrina maggioritaria, ad oggi, ritiene che anche il negozio giuridico promissorio unilaterale possa essere considerato un modello generale a carattere contenutistico atipico, il quale dovrà soggiacere ad un controllo causale anche più forte di quello previsto per il contratto, data la mancanza della controprestazione economica.

Chiarito che il negozio giuridico è un atto di autonomia privata espressione della libertà negoziale e che la sua più importante esplicazione è il contratto, ci si è chiesti se vi sia una copertura costituzionale a tale libertà. La mancanza di una esplicita previsione ha indotto a ritenere che tale libertà non rientri tra i diritti garantiti dalla Costituzione. Ma, a parte che tale libertà può essere vista come una libertà di sviluppo ed esplicazione della personalità umana di cui all’art. 3 Cost., il vero fondamento costituzionale lo rinveniamo nell’art. 41 Cost., laddove viene sancito il principio della libera iniziativa economica, di cui l’autonomia privata è strumento necessario. L’autonomia privata allora è un aspetto ineliminabile della persona umana e, come tale, garantito dalla Costituzione. Una libertà che però incontra i suoi limiti come sanciti dal comma due del citato art. 41 Cost., laddove si prevede che l’iniziativa economica privata “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, libertà, dignità umana”. Da ciò si evince che anche la libertà negoziale, inserendosi in un contesto di valori gerarchicamente ordinati, deve essere limitata e controllata per garantire rapporti giusti ovvero per realizzare quella solidarietà sociale che è un valore fondamentale nella nostra costituzione. Si aggiunga, però, che tali limiti devono essere socialmente giustificati, pena la lesione di un diritto fondamentale della persona.

Ma allora ci si chiede quali siano i limiti a cui soggiace tale libertà. Questa è la domanda fondamentale che qui interessa, perché attraverso l’analisi degli stessi si può capire se tra detti limiti compaia anche il principio di non discriminazione.

Per l’analisi dei limiti occorre partire da quelli che il legislatore prevede per il contratto, poiché, come è già stato rilevato, questo è il negozio giuridico per eccellenza, cosicché i limiti per questo previsti sono estendibili anche agli altri negozi giuridici.

In primis, viene in rilievo l’art. 1322 c.c., esplicazione del principio di libera iniziativa economica, laddove, se nel comma uno richiama quei limiti di leggi di cui all’art. 41 Cost. per la determinazione del contenuto di contratto, nel comma due  prevede la possibilità di stipulare contratti atipici purché gli interessi diretti a realizzare superino il giudizio di meritevolezza, da effettuarsi secondo i principi dell’ordinamento giuridico.

Ulteriore limite è dato dal principio di relatività degli effetti che si ricava dall’art. 1372 c.c., nel quale si sancisce che il contratto ha forza di legge tra le parti. Da questo principio, che ben può trovare applicazione nei confronti di altri negozi giuridici, si evince che gli effetti del contratto ricadono nella sfera giuridica dei contraenti e non anche su coloro che non ne hanno fatto parte, in quanto godono del diritto a non subire l’ingerenza altrui.

Questo è vero ma per quanto concerne i casi in cui il contratto produca inter alios effetto sfavorevole, essendo ammessa la possibilità che il negozio possa produrre inter alios un effetto favorevole, cioè non accompagnato da pesi o obblighi, salva la possibilità di rifiutare. Ed è quanto si evince dalla disciplina del contratto a favore di terzi, da quella inerente la remissione del debito, da quella della donazione obnuziale o anche da quella del contratto con obbligazioni a carico del solo proponente.

Ed ancora, il contenuto delle clausole non può essere in contrasto con le norme imperative del nostro ordinamento. Il riferimento è al divieto di patto leonino, al divieto di patto commissorio e a quello di patti successori. Ma ancora, si guardi alla disciplina consumeristica laddove viene sancita la nullità della clausole vessatorie, poiché incidenti sull’equilibrio contrattuale. Ulteriore limiti sono l’inserimento automatico della clausole d’uso ex art. 1340 c.c., i divieti di alienazione, che sono validi entro certi limiti di tempo, e il divieto di inserire clausole limitative della responsabilità.

Accanto a questi limiti tipici c’è anche un limite di carattere generale della libertà negoziale che è rappresentato dal divieto di abuso del diritto, in quanto ogni negozio è esercizio di un diritto che deve sottostare al limite della buona fede e della solidarietà del divieto dell’abuso. Con la conseguenza che, laddove venga violato questo divieto, il negozio deve essere considerato nullo, inefficacie o comunque passibile di exceptio doli generalis.

Vi sono poi dei limiti che incidono sulla scelta dei soggetti con cui stipulare il contratto, limiti legali e convenzionali. Tra questi si ricorda il patto di prelazione volontaria.

In quelli legali si ricordano i casi di prelazione legale a favore del confinante o del conduttore in tema di contratti agrari e di locazione.

Ma quello che sicuramente qui interessa maggiormente è il limite legale previsto dall’art. 2597 c.c., laddove viene sancito a carico dell’imprenditore che si trovi in condizioni di monopolio ex lege l’obbligo di contrattare con “chiunque richieda la prestazione che formano oggetto dell’impresa, osservando la parità di trattamento”. Questo è il tipico esempio di come la libertà di iniziativa economica sia limitata dal supremo valore dell’utilità sociale.

In questo caso è limitata la libertà di stipulazione del monopolista e ciò per evitare una possibile discriminazione del consumatore.

Si evince che il principio di non discriminazione entra nel nostro ordinamento attraverso questa disposizione che è, sicuramente, alla base dei rapporti tra autonomia contrattuale e discriminazione. Tale principio può essere considerato un limite all’autonomia contrattuale e, più in generale, a quella negoziale.

Ma questa non è l’unica norma dalla quale si evince tale circostanza.

Il ruolo di limite svolto da tale divieto si desume anche dalla normativa inerente la tutela della concorrenza e del mercato, di cui alla legge n. 287 del 1990, laddove all’art. 3, lett.c) prevede in caso di abuso di posizione dominante il divieto di “applicare nei rapporti commerciali con altri contraenti condizioni oggettivamente diverse per prestazioni equivalenti, così da determinare per essi ingiustificati svantaggi nella concorrenza”.

Ma non solo. Il legislatore italiano è intervenuto più volte con una serie di leggi antidiscriminatorie, che pongono dei limiti all’autonomia contrattuale e ciò è avvenuto sotto la spinta del legislatore comunitario che ha emanato tutta una serie di norme tese a vietare atti e comportamenti discriminatori in ragione di specifiche qualità riferibili alla persona come la razza, la religione, l’etnia, l’età, la tendenza sessuale, la disabilità anche in ambito di rapporti contrattuali tra privati. Ciò ha portato alla creazione di un principio antidiscriminatorio di derivazione comunitaria destinato ad operare anche in ambito contrattuale. Principio che ad oggi è uno dei pilastri fondanti l’ordinamento comunitario, laddove si legge all’art. 2 del Trattato sull’Unione Europea che “l’Unione combatte l’esclusione sociale e le discriminazioni e promuove la giustizia e le protezioni sociali, la parità tra uomini e donne, al solidarietà tra le generazioni”; ed ancora, all’art. 21 che “L’azione dell’Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l’allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale”.

Orbene, tra le norme comunitarie più importanti a riguardo ricordiamo le direttive, che a partire dal 2000, hanno apportato una innovazione alla tutela antidiscriminatoria, in quanto l’hanno estesa alla materia dell’accesso ai beni e servizi e alla fornitura, compreso l’alloggio, con lo scopo di attuare la parità di trattamento tra le persone. A tal proposito è bene rilevare che una parte della dottrina sostiene l’idea che le direttive de quibus delimitano l’ambito dei divieti discriminatori alla sola contrattazione che si concluda mediante una dichiarazione rivolta al pubblico escludendo quella che si conclude con una dichiarazione individualizzata, dato il tenore letterale delle disposizioni in commento laddove richiamano il settore dello scambio dei beni e di servizi che sono “available to the public”. Tale normativa andrebbe applicata, secondo tale tesi, solamente nei casi in cui il contraente si sia rivolto indistintamente al pubblico o ad una cerchia indeterminata di persone, con una dichiarazione che integri un invito ad offrire od offerta. Ed ancora, il principio di non discriminazione opererebbe in tutto il procedimento di formazione e di conclusione del contratto, compreso le trattative, ma anche in quella di esecuzione del medesimo, compreso anche il momento di esercizio dei poteri contrattuali riconosciuti dal legislatore, quali la risoluzione, recesso, ius variandi delle clausole, etc..

Sta di fatto che altro orientamento ritiene che, ad oggi, non ha più ragion d’essere la delimitazione dell’ambito di applicazione della tutela antidiscriminatoria in ragione della tipo di contrattazione  e delle modalità di conclusione del negozio, e ciò in considerazione del fatto che si sarebbe in presenza di un vero principio europeo di non discriminazione da attuarsi in tutta la contrattazione tra privati.

Detto ciò, è necessario ora chiarire quali sono le norme italiane emanate sulla scia di queste direttive comunitarie, destinate ad avere efficacia in tema di contrattazione.

Si ricordi la normativa di cui al d.lgs. 9/07/2003 n. 215, attuativa della direttiva n. 2000/43/CE sulla parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall’origine etnica, dove all’art. 2 contiene una definizione, sebbene non esaustiva, di non discriminazione, essendo la stessa nozione collegata esplicitamente al principio di parità di trattamento. Si legge infatti che “per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica. Tale principio comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta, così come di seguito definite: a) discriminazione diretta quando, per la razza o l’origine etnica, una persona è trattata meno favorevolmente di quanto sia, sia stata o sarebbe trattata un’altra in situazione analoga; b) discriminazione indiretta quando una disposizione, un criterio, una prassi, un atto, un patto o un comportamento apparentemente neutri possono mettere le persone di una determinata razza od origine etnica in una posizione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone”. Tale definizione deve essere completata da quanto disposto dal d.lgsl. 25/07/1998 n. 286, così come richiamato dal comma due dell’art. 3 del d.lgs. 215/2003, laddove all’art. 43, co.1 sancisce che “costituisce discriminazione ogni comportamento che, direttamente o indirettamente, comporti una distinzione, esclusione, restrizione o preferenza basata sulla razza, il colore, l’ascendenza o l’origine nazionale o etnica, le convinzioni e le pratiche religiose, e che abbia lo scopo o l’effetto di distruggere o di compromettere il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica.”

Ed ancora. In attuazione della direttiva 2004/113/CE, è stato emanato il d.lgs. 196/2007, teso ad attuare il principio della parità di  trattamento  tra  uomini  e  donne  per  quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e la loro fornitura, apportando delle modifiche al d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198      recante il Codice delle pari opportunità tra uomo e donna. Tale decreto ha l’obiettivo di eliminare le discriminazioni fondate sulla distinzione del sesso.

Accanto a queste disposizioni normative vi sono altre leggi antidiscriminatorie. Ad esempio, si ricordi la legge n. 67 del 2006 che reca  le misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittima di discriminazione. Essa non contiene un’espressa disciplina della discriminazione del contratto, poiché non menziona l’accesso a beni e servizi, ma la sua introduzione rende palese che la tutela antidiscriminatoria da applicarsi nell’ambito contrattuale contenute nel d.lgs. 286/1998 e nel d.lgsl. 215/2003 devono applicarsi anche quando il fattore di discriminazione è diverso dalla razza, dall’etnia, dalla religione e consiste nella disabilità.

Ed allora è chiaro come il principio di non discriminazione di derivazione comunitaria, impattandosi nel nostro ordinamento, ha trovato applicazione anche all’interno della materia contrattuale comportando un chiaro limite all’autonomia privata.

Ma se questo è vero all’interno della contrattazione tra privati, non c’è ragione per cui debba escludersi che questo non valga con riferimento ai contratti stipulati dalla Pubblica Amministrazione.

Come noto, nell’esercizio dei poteri ad essa attribuiti la p.a. può avvalersi dei mezzi e delle forme del diritto privato. Il riconoscimento generale dell’autonomia negoziale della P.A. trova il proprio fondamento normativo nel testo del nuovo art. 1, comma 1-bis, della L. n. 241/1990, come modificato dalla L. n. 15/2005.

La predetta disposizione stabilisce che “la pubblica amministrazione, nell’adozione di atti di natura non autoritativa, agisce secondo le norme di diritto privato salvo che la legge disponga diversamente.”. Viene, così, riconosciuta la facoltà di perseguire l’interesse pubblico instaurando rapporti di carattere privatistico con i soggetti interessati, laddove ritenga opportuno non ricorrere allo strumento procedurale. Il potere di autonomia così riconosciuto alla p.a. deve sempre essere esercitato nel rispetto dei principi di costituzionali di legalità, imparzialità, nonché di tutti gli altri principi che governano l’azione amministrativa. L’ autonomia negoziale della p.a. risulta essere limitata e funzionale, in quanto i fini dell’agire sono sempre e necessariamente predeterminati dalla legge, non sono disponibili e devono essere perseguiti secondo senza che venga posta in essere alcuno tipo di discriminazioni.

Si aggiunga poi che il principio di non discriminazione è tra i principio di derivazione comunitaria che devono essere rispettati nell’ aggiudicazione degli appalti pubblici e nell’affidamento dei contratti, insieme a quello di parità di trattamento.

Rilevato come tale principio sia ormai ben saldo all’interno del nostro ordinamento, ci si chiede se ci sia e, nel caso di risposta affermativa, quale sia la copertura costituzionale di questo principio.

Senza ombra di dubbio alcuno deve essere data copertura costituzionale a tal principio il cui fondamento costituzionale lo si rinviene nell’art. 3 della Cost., laddove viene sancito il principio di uguaglianza di tutti i cittadini , senza alcuna distinzione di sesso, di lingua, di razza, di religioni, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Tutta la normativa antidiscriminatoria è da considerarsi un paradigma in negativo del principio di uguaglianza, che si pone in stretta correlazione con il principio di parità di trattamento.

Così individuato il fondamento costituzionale di tale principio, evidenziati gli interventi legislativi posti in essere dal legislatore e chiarito che questo comporta un sicuro limite in tema di libertà negoziale, resta da individuare quali sono le possibili tutele laddove attraverso lo strumento del negozio giuridico venga leso questo importante principio di derivazione comunitaria.

Secondo un orientamento dottrinale, in caso di clausole negoziali discriminatorie che limitano l’offerta le stesse devono essere considerate nulle.

Ma non solo. A fronte di ipotesi discriminatorie la tutela potrebbe essere di tipo inibitoria, cosi come si evince dal testo unico sull’immigrazione e sulla condizione dello straniero, laddove si prevede all’art. 44 che il giudice po’ ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione. Nel comma 7 dello stesso art. si ammette, altresì, una tutela di tipo risarcitoria del danno anche non patrimoniale inferto.

Sarebbe uno dei casi in cui la legge ammette espressamente il risarcimento del danno non patrimoniale, anche se a te soluzione si potrebbe pervenire che solo considerando come il risarcimento del danno non patrimoniale sussiste non solo in caso di violazione di una norma di legge, ma anche quando sia violata la legge costituzionale nella parte in cui si riconosce un diritto fondamentale alla persona. La stessa tutela giurisdizionale è  prevista per alcuno macro settori in tema di lavoro dal d.lgs, 215/2003.

Resta ancora da rilevare come i possibili ambiti di diretta incidenza del divieto di discriminazione nel campo contrattuale siano il campo societario e quello del lavoro.

Con riguardo al primo, eventuali forme discriminatorie potrebbero essere riscontrate nelle ipotesi di clausole di gradimento, laddove queste predeterminano le qualità personali del potenziale acquirente. Queste clausole potrebbero essere considerate valide in caso di sussistenza di un interesse apprezzabile della società. Ma questo non è applicabile in caso di discriminazioni basate sulla cittadinanza, religione, razza o etnia. In presenza di tale ipotesi, le clausole di gradimento sono illecite per violazione del divieto di discriminazione e sono improduttive di effetti.

Altra eventuale violazione del divieto di discriminazione potrebbe sussistere in caso di patti parasociali che pongono limiti al trasferimento di azioni, laddove escludano che le azioni medesime possano essere alienate a cittadini con determinate qualità personali. Tale patto deve essere sicuramente considerato illecito.

Ed infine, un altro campo nel quale si coglie una possibile interazione tra discriminazione e autonomia negoziale è sicuramente quello del lavoro. In tale ambito  è ben possibile che il datore di lavoro, su cui grava una serie di obbligazioni di carattere economico e non (si pensi all’obbligo di protezione che trova la fonte legale nell’art. 2087 c.c.), ponga in essere delle condotte e degli atti discriminatori sia in caso di licenziamento sia in caso di esecuzione del rapporto di lavoro. Ed allora anche in questo campo il principio di non discriminazione entra in gioco e comprime l’autonomia contrattuale del lavoratore per scongiurare ipotesi discriminatorie.

In conclusione, si può affermare che il divieto di discriminazione è da considerarsi un limite dell’autonomia contrattuale ed in generale di quella negoziale ed è fonte di risarcimento del danno non patrimoniale, in quanto sicuramente va a ledere valori fondamentali della persona umana, quali la libertà, l’uguaglianza e la dignità umana. Il tutto si realizza all’esito di un bilanciamento di interessi costituzionalmente garantiti, quali l’uguaglianza, di cui la non discriminazione è un paradigma in negativo, e la libera iniziativa economica, di cui l’autonomia negoziale è strumento necessario per la sua realizzazione.

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