Home » Temi » Chiarita la differenza tra obbligazioni reali, oneri reali e servitù si soffermi il candidato sul contenuto dei regolamenti condominiali e sulla loro opponibilità ai terzi

Chiarita la differenza tra obbligazioni reali, oneri reali e servitù si soffermi il candidato sul contenuto dei regolamenti condominiali e sulla loro opponibilità ai terzi

Chiarita la differenza tra obbligazioni reali, oneri reali e servitù si soffermi il candidato sul contenuto dei regolamenti condominiali e sulla loro opponibilità ai terzi

PAOLA MONTONE

La categoria delle obbligazioni reali e degli oneri reali presenta alcuni profili di similitudine e di compatibilità con le servitù, in considerazione della circostanza che in tutte e tre le fattispecie in esame si assiste ad un rapporto di collegamento con la res.

Preliminarmente, occorre evidenziare che, a differenza delle servitù, delle obbligazioni propter rem e degli oneri reali non è possibile rinvenire un’espressa definizione codicistica e che, anzi, una parte della dottrina non riconosce autonomia configurativa alla categoria degli oneri reali.

In ogni caso, relativamente alle obbligazioni reali, è possibile affermare che le stesse attengono a degli obblighi che scaturiscono dal rapporto con la res, di modo che l’individuazione del titolare del bene è determinante al fine di individuare il soggetto debitore, ossia colui che deve eseguire quella prestazione, oggetto dell’obbligazione, discendente proprio dal suo status di proprietario.

Così, con riferimento al condominio negli edifici, oggetto di successivo approfondimento, si ritiene che il pagamento delle spese condominiali, finalizzate alla conservazione ed al godimento delle parti comuni dell’edificio, costituisca un’obbligazione reale, facente capo al singolo ed esclusivo proprietario del piano o della porzione di un piano di un edificio, oggetto di proprietà comune.

Dall’assunto ne consegue che, ai fini della contribuzione alle spese condominiali di cui all’articolo 1123 c.c., per individuare il soggetto debitore occorre preliminarmente individuare il singolo proprietario che risponderà della sua obbligazione “con tutti i suoi beni presenti e futuri” e dunque illimitatamente, alla stregua del disposto di cui all’articolo 2740 c.c. ed al pari di quanto avviene per qualsiasi rapporto obbligatorio. Inoltre, con riferimento all’obbligazione in esame, considerato che il rapporto di collegamento della res consente di individuare il soggetto debitore, nel momento in cui il bene diviene oggetto di trasferimento, l’alienante continuerà a rispondere delle obbligazioni sorte precedentemente all’atto di trasferimento ed in caso di inadempimento dell’obbligazione sarà applicabile il regime della responsabilità del debitore ex articolo 1218 c.c..

A differenza dell’obbligazione propter rem, l’onere reale è un peso imposto su un determinato bene, nascente in considerazione del collegamento della res, ma che si sostanzia nell’erogazione di una prestazione periodica, avente sempre un contenuto positivo e che vede l’onerato rispondere nei confronti dei terzi creditori nei limiti del valore della res.

In realtà, anche per l’onere reale si configura un obbligo correlato al godimento di un bene, come accade con riferimento al pagamento del canone enfiteutica, ex articolo 961 c.c., che ne costituisce un esempio. Per entrambi, poi, vige il principio del numerus clausus per cui possono configurarsi obbligazioni propter rem ed oneri reali solo nei casi previsti dalla legge e non possono essere costituiti convenzionalmente, per accordo tra le parti.

L’onere reale si differenzia dall’obbligazione propter rem sotto diversi profili: in primis, la dottrina evidenzia come per l’onere reale si assiste ad un vincolo gravante sul bene e che si configura per il solo fatto che il bene viene utilizzato, essendo il collegamento con la res la fonte del rapporto obbligatorio.

Nell’obbligazione propter rem, sarebbe più corretto affermare che il peso grava su di un soggetto debitore, considerato che il rapporto col bene consente all’interprete di identificare esclusivamente il soggetto tenuto alla prestazione.

Inoltre, in caso di onere reale, sempre sulla scorta della considerazione che si assiste più propriamente ad un vincolo gravante sul bene più che sulla persona, non sarà applicabile la disciplina prevista dall’articolo 2740 c.c., in tema di responsabilità patrimoniale generica; in caso di circolazione del bene, poi, sarà l’acquirente il soggetto onerato ad adempire le obbligazioni che sono sorte prima dell’atto di trasferimento del bene.

Il carattere comune dell’ambulatorietà delle obbligazioni e degli oneri, consistente nel fatto che al trasferimento del bene consegue il trasferimento del suddetto peso si differenzia, dunque, per gli effetti del trasferimento dell’obbligazione, per la quale, in un caso, continuerà a rispondere l’alienante, mentre per gli oneri reali ne risponderà l’acquirente, sempre nei limiti del valore del bene.

Evidenziati i principali caratteri distintivi tra obbligazioni propter rem ed oneri reali, occorre chiedersi se sussistono dei profili di similitudine rispetto alle servitù. In effetti, da una piana lettura dell’articolo 1027 c.c., dettato in tema di servitù prediali, emerge come le stesse vengono definite come un “peso imposto sopra un fondo per l’utilità di un altro fondo appartenente a diverso proprietario”.

La servitù prediale è un vero e proprio diritto reale di godimento, che può trovare la propria fonte nella legge, in un atto dell’autorità amministrativa, in una sentenza del giudice od anche nel contratto.

La servitù si caratterizza per il carattere dell’inerenza rispetto al bene, dell’assolutezza e dell’opponibilità erga omnes del contenuto del diritto e per quello della predialità. Si consideri, infatti, che il peso viene imposto sopra un fondo a favore di un altro fondo vicino, con la precisazione, operata dall’articolo 1030 c.c., che “il proprietario del fondo non è tenuto a compiere alcun atto per rendere possibile l’esercizio della servitù da parte del titolare”, salvi i casi previsti dalla legge o dal titolo.

Ecco, dunque, che si afferma che la servitù, coattiva o volontaria che sia, può consistere in un pati, in un non facere ma mai in un facere, sulla scorta del principio risalente al diritto romano per cui servitus in faciendo consistere nequit. La previsione di un obbligo di facere, infatti, rappresenterebbe un ulteriore aggravio ed incomodo per il proprietario del fondo servente che, soprattutto con riferimento alla servitù coattiva, subisce l’esercizio del diritto di servitù in nome della garanzia di un’utilità od amenità per il fondo dominante, che si giustifica nell’ottica di contemperare il diritto dei proprietari di due fondi vicini.

Ecco, dunque, che emergono le prime differenze tra la servitù, l’obbligazione propter rem e gli oneri reali: la servitù ha ad oggetto un obbligo di non facere, l’obbligazione propter rem può indifferentemente avere ad oggetto un obbligo di fare o non fare, mentre l’onere reale si sostanzia in una prestazione periodica, ossia in un dare.

Le servitù, poi, come si è avuto modo di evidenziare, possono essere costituite volontariamente, o per contratto o per testamento, oltre che in forza di legge, alla stregua del contenuto dispositivo di cui all’articolo 1031 c.c..

Infine, la legittimazione sottostante all’esercizio del diritto di servitù è riconnessa ad un utilitas di cui l’altro fondo vicino può beneficiare, diversamente da quanto accade per le obbligazioni propter rem e gli oneri reali.

In queste ipotesi, la legittimazione della previsione di un obbligo di legge si riconduce alla possibilità per il soggetto attivo, e dunque per la persona e non per la res, di trarre dall’utilizzo del bene un’utilità: così, il pagamento delle spese condominiali e la ripartizione delle stesse tra i condomini si giustifica alla luce della possibilità esercitabile da parte degli stessi di godere e di usufruire delle parti in comune dell’edificio, al pari di quanto accade per il pagamento del canone enfiteutico, che si ricollega all’esercizio del diritto dell’enfiteuta di utilizzare il fondo ed il sottosuolo.

Così chiarita la differenza tra gli istituti in esame, occorre soffermarsi sulla fattispecie del condomino negli edifici e soprattutto sulla figura del regolamento condominiale e soprattutto su quello cosiddetto contrattuale. Il tutto al fine di verificare se quest’ultimo possa rappresentare la fonte negoziale per la costituzione di servitù ovvero per la regolamentazione di obbligazioni od oneri reali, con conseguente disamina del profilo dell’opponibilità del regolamento nei confronti dei terzi acquirenti.

Sul punto, importa precisare come all’interno della disciplina sul condominio, l’articolo 1138 c.c. si occupa del regolamento condominiale, prevedendone l’obbligo di formazione quando il numero dei condomini è superiore a dieci. Si tratta di un regolamento interno, considerato il contenuto dello stesso, avente ad oggetto “le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese…nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione”. Le norme del regolamento, che viene approvato con deliberazione adottata dalla maggioranza dei condomini, “non possono in alcun modo menomare i diritti di ciascun condomino, quali risultano dagli atti di acquisto e dalle convenzioni”, evidenziando come il regolamento di condominio ha una valenza normativa interna, che comunque non può confliggere con il nucleo sostanziale di garanzia dei diritti dei partecipanti sulle cose comuni apprestata dagli articoli 1118 e seguenti c.c..

Al regolamento di condominio interno, poi, risulta applicabile il contenuto dispositivo dell’articolo 1107, stante il rinvio operato alle norme sulla comunione ad opera dell’articolo 1139 c.c., con la conseguente possibilità di impugnazione del regolamento da parte dei condomini dissenzienti. Se, al contrario, e per i fini che qui interessano, il regolamento non è oggetto di impugnazione, l’effetto dello stesso si estende “anche (a)gli eredi e aventi causa” dai singoli condomini, risultando, così, a questi ultimi direttamente opponibile.

Dal regolamento interno deve essere tenuto distinto il cosiddetto regolamento contrattuale, che si differenzia dal primo sia per il contenuto che per le modalità di formazione del regolamento. Nello specifico, per regolamento contrattuale si allude alla previsione di clausole limitative dei diritti dei condomini ovvero ampliative dei diritti di alcuni condomini rispetto ad altri. Il carattere della contrattualità si manifesta, poi, nella circostanza che l’approvazione di questa tipologia di regolamento è subordinata alla manifestazione del consenso di tutti i condomini, di guisa che la deliberazione dev’essere assunta all’unanimità, così come un’eventuale modifica al regolamento richiede il consenso di tutti, tenuto conto del fatto che il regolamento sortisce la medesima efficacia del contratto.

L’impossibilità di ammettere una limitazione dei diritti dei condomini per il tramite di una deliberazione approvata con un numero di voti, che rappresentano la metà più uno degli intervenuti e quantomeno la metà del valore dell’edificio, si giustifica alla stregua del quarto comma dell’articolo 1138 c.c. e dunque proprio in considerazione del contenuto del regolamento contrattuale.

Inoltre, il regolamento contrattuale, oltre a rinvenire la propria fonte nell’accordo unanime dei condomini, potrebbe essere stato anche predisposto dal proprietario originario dell’edificio, divenuto poi oggetto di proprietà comune, di guisa che gli acquirenti delle singole unità abitative sono vincolate al rispetto del regolamento in oggetto.

Proprio con riferimento al regolamento contrattuale, s’impone una preliminare riflessione circa il contenuto delle clausole limitative dei diritti dei condomini, che, sotto questo profilo, si differenziano delle clausole che contengono una mera disciplina circa l’uso delle parti comuni ed il conseguente profilo di ripartizione delle spese.

In tal senso, occorre chiedersi come debba essere qualificata la previsione contrattuale della limitazione di un diritto di un condomino rispetto ad un altro, ossia se essa possa configurare un’obbligazione propter od un onere reale.

Partendo dalla premessa per cui per le obbligazioni propter rem e gli oneri reali possono ritenersi applicabili i principi del numerus clausus, quanto alla fonte del diritto, ed il principio di tipicità, quanto al contenuto del rapporto, si dovrebbe essere indotti ad escludere automaticamente la possibilità di annoverare il contenuto obbligatorio delle clausole in oggetto all’interno delle categorie delle obbligazioni ed oneri reali.

In verità, secondo una parte della dottrina l’applicazione del principio di tipicità non sempre comporta un’assoluta ed incondizionata esclusione della possibilità di prevedere obbligazioni ed oneri reali per così dire atipici. La previsione di ipotesi di obbligazioni propter rem ed oneri reali al di fuori delle ipotesi previste dalla legge potrebbe essere legittimata, però, solo laddove si pervenga al superamento dell’interesse del singolo individuo, giungendo a soddisfare un’utilità generale, come potrebbe essere proprio quella riconnessa all’utilizzazione delle parti comuni dell’edificio, più funzionale possibile alle stesse caratteristiche strutturali dell’edificio.

Superata, dunque, l’obiezione per cui per obbligazioni ed oneri reali debbano considerarsi tali solo quelli espressamente previsti dalla legge, bisogna analizzare il contenuto del peso e dunque dell’obbligazione imposta sul condominio o su alcuni condomini.

La limitazione del diritto di un condominio potrebbe, ad esempio, afferire alla destinazione d’uso dell’unità immobiliare ovvero al godimento delle parti in comune, di guisa che l’obbligazione si sostanzierebbe in un non facere o anche in un pati, al pari di quanto accade per le obbligazioni propter rem e per le servitù.

Eppure, più che sul contenuto dell’obbligazione, importa soffermarsi sulla natura del vincolo e verificare preliminarmente se il peso grava sul bene ovvero sul condomino, tenendo in considerazione il rapporto con la res.

Orbene, se, come si è detto, il regolamento contrattuale può essere predisposto dallo stesso proprietario originario dell’edificio, poi divenuto oggetto di proprietà comune e se il rapporto con la res non rileva ai meri fini dell’identificazione del soggetto debitore dell’obbligazione, allora si deve escludere che le clausole limitative in esame possano costituire delle obbligazioni propter rem.

Difatti, il vincolo viene impresso sul bene in quanto tale, di guisa che il condomino che vuole esercitare il proprio diritto di utilizzare e godere delle cose in comune è onerato al rispetto di determinati obblighi, rinvenendosi la fonte dell’obbligo proprio nel collegamento con il bene.

Dunque, le clausole limitative dei diritti dei condomini contenute nei cosiddetti regolamenti contrattuali ben potrebbero assumere, piuttosto, le caratteristiche degli oneri reali o delle servitù, in specie di quelle reciproche. Il riferimento alla servitù sembrerebbe maggiormente pertinente, in considerazione della circostanza che il peso imposto sulla res è funzionalizzato ad un’utilitas reciproca, che si ricollega a quella delle altre unità immobiliari ovvero al godimento delle parti in comune che contemperi gli interessi di tutti i condomini.

La limitazione, dunque,  inerente al bene è funzionalizzata ad un’utilità non personale ma reale, ossia relativa al bene nel senso sopra descritto. Inoltre, siffatta limitazione presenta indubbiamente un carattere negativo, dovendosi escludere, già per questo aspetto, la natura di onere reale che generalmente si riconnette ad una prestazione periodica o comunque ad una prestazione di dare.

Ma vi è di più: il riferimento alla servitù ed alla possibilità che la stessa possa essere costituita anche per contratto, ex articolo 1058 c.c., con conseguente possibilità di incidere sul contenuto del rapporto, pur nei limiti di legge, consentirebbe di superare le obiezioni di quella parte della dottrina che non ritiene configurabile un onere reale nel caso in esame, proprio in considerazione della modalità volontaria di costituzione del vincolo reale.

Se dunque, il contenuto del regolamento contrattuale si caratterizza per il fatto di contenere clausole limitative dell’uso delle cose in comune ovvero del diritto del singolo condominio sull’unità immobiliare di proprietà esclusiva, bisogna chiedersi non solo se siffatte clausole siano opponibili nei confronti dei terzi aventi causa dai singoli condomini oppure nei confronti degli stessi proprietari dei piani o delle porzioni di piano di un edificio in comune ma anche in che modo le stesse siano opponibili ai terzi.

La questione non è di poco momento, in quanto la possibilità di opporre le suddette clausole agli aventi causa dai singoli condomini o agli acquirenti dall’originario proprietario dell’immobile comporta l’affermazione dell’efficacia delle stesse anche nei confronti di questi soggetti, i quali sono tenuti a rispettare gli obblighi che trovano la propria fonte nel regolamento contrattuale.

La tematica è stata oggetto di una pronuncia della Corte di Cassazione, la quale ha precisato le modalità con le quali la domanda di trascrizione, da cui deriva l’effetto di opponibilità nei confronti dei terzi delle clausole limitative in esame, dev’essere presentata al conservatore dei registri immobiliari.

In tal senso, s’impone una lettura congiunta degli articoli 2659 e 2665 c.c., il cui combinato disposto consente di affermare che la validità della trascrizione è condizionata all’indicazione di alcuni elementi necessari, tra i quali, oltre ai dati identificativi delle parti, del titolo e del bene, rientra indubbiamente il “rapporto giuridico a cui si riferisce l’atto”.

Un’incertezza vertente su siffatti elementi non può essere sanata, poiché l’effetto della trascrizione di rendere opponibile l’atto ai terzi si raggiunge solo laddove questi ultimi siano messi nelle condizioni di identificare correttamente l’oggetto della trascrizione medesima, in ossequio non solo al principio di pubblicità ma anche a quello di affidamento e dunque di buona fede.

Da siffatta interpretazione sistematica e teleologicamente orientata, ne consegue che il contenuto del regolamento contrattuale è opponibile ai terzi solo nell’ipotesi in cui siano soddisfatti i requisiti di cui ai sovra citati articoli 2659 e 2665 c.c., di modo che dev’essere chiaro lo stesso contenuto delle clausole limitative dei diritti che i condomini possono esercitare o sulle parti in comune o su quelle oggetto di esclusiva proprietà.

Un problema di opponibilità nei confronti dei terzi non si configurerebbe, invece, nell’ipotesi in cui il contenuto di siffatte clausole fosse esplicitamente richiamato nell’atto di acquisto, costituendone così parte integrale; non si porrebbe, dunque, una questione di conoscibilità e di pubblicità dell’atto che sarebbe, in tal modo, pienamente ed automaticamente efficace.

Occorre evidenziare, però, come la soluzione interpretativa prospettata troverebbe lineare applicazione solo laddove si ritenga che le clausole limitative dei diritti dei condomini rappresentino la fonte di servitù reciproche. Se, al contrario, si ritenessero configurabili veri e propri oneri reali, si dovrebbe confutare la validità delle affermazioni ora sostenute, sulla base dell’assorbente rilievo che gli oneri reali non rientrano tra gli atti soggetti a trascrizione, alla stregua dell’articolo 2643 c.c..

Eppure quest’obiezione potrebbe essere superata sulla scorta di due argomentazione. Si potrebbe, da un lato, considerare il contenuto dispositivo di cui all’articolo 2645 c.c. che, sempre nel disciplinare il profilo della trascrivibilità, prevede come la stessa possa operare anche per quell’ “atto…che produce in relazione a…diritti immobiliari taluno degli effetti dei contratti menzionati nell’articolo 2643 c.c.”. A siffatto atto potrebbe essere equiparato proprio il regolamento contrattuale nella parte in cui contiene clausole limitative del diritto di proprietà dei condomini, assimilabili, quoad effectum, ai contratti previsti dal numero 4) dell’articolo 2643 c.c., tra i quali non a caso rientrano proprio i contratti che costituiscono servitù prediali.

Dall’altro lato, non si potrebbe comunque escludere un’efficacia meramente obbligatoria, inter partes, delle clausole con cui si costituiscono veri e propri oneri reali, le quali non saranno opponibili nei confronti dei terzi, non essendo riconducibile l’atto che le contiene ad uno di quelli tassativamente indicati dall’articolo 2643 c.c..

In ogni caso, si ritiene preferibile affermare come le limitazioni dei diritti in esame configurino più correttamente delle servitù reciproche, sia in considerazione della natura del peso imposto sul bene, sia del contenuto dell’obbligazione che della modalità di costituzione della stessa, con conseguente possibilità di applicare pacificamente le norme di cui agli articoli 2659 e 2655 c.c. ai fini dell’opponibilità ai terzi.

Guarda anche

  • Anatocismo e prassi usurarie

  • Servitù atipiche e tutela esperibile

  • Parere diritto civile corso avvocati INPS

  • IL PRINCIPIO DI CONCORRENZA CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA FIGURA DELL’ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO.