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CONCORSO APPARENTE DI REATI O CONCORSO FORMALE IN RELAZIONE ALLE FATTISPECIE DI CUI AGLI ARTICOLI 316BIS E 640BIS C.P.

CONCORSO APPARENTE DI REATI O CONCORSO FORMALE IN RELAZIONE ALLE FATTISPECIE DI CUI AGLI ARTICOLI 316BIS E 640BIS C.P.

Pubblicato il 13.04.2017 autore Carmen Oliva

Ricorre il ricorso apparente di reati (rectius di norme) quando, prima facie, l’insieme della azioni od omissioni poste in essere dall’agente sia astrattamente sussumibile sotto diverse norme penali ma, in concreto una sola di esse è effettivamente applicabile. I presupposti dell’istituto in oggetto sono: la pluralità di condotte incriminatrici tra loro non in antinomia; l’identità del fatto incriminato e la circostanza che solo una di queste norme è, in concreto, applicata. In queste ipotesi, si ha non una pluralità, ma un’unicità di reati.

A questo punto, ricorre rapido il richiamo ad un istituto contiguo ma diverso, rispetto al quale il concorso apparente di norme si presenta in rapporto di alternatività: il concorso formale di reati.

Mentre nel concorso apparente di norme la pluralità di norme incriminatrici è, appunto, solo apparente, essendo unica in realtà la norma applicabile in concreto, nel concorso formale di reati (art.81 c.p.)  alla pluralità delle fattispecie incriminatrici corrisponde un’unica azione od omissione. È rilevante tracciare questa differenza perché differenti sono le conseguenze giuridiche che scaturiscono dall’inquadrare una determinata fattispecie nell’uno piuttosto che nell’altro istituto giuridico. Infatti, se opera il concorso apparente di norme, trova applicazione una sola disposizione di legge; se opera,invece, il concorso formale di reati, il reo dovrà essere punito secondo la pena prevista per la violazione più grave aumentata sino al triplo, ai sensi dell’art.81 c.p..

Una delle problematiche più ricorrenti di cui è stata investita la giurisprudenza nell’applicazione dell’istituto del concorso apparente di norme riguarda l’ambito di operatività del criterio di specialità ( che è l’unico criterio richiamato dall’art. 15 c.p.) e la possibilità  che tale criterio sia affiancato da altri.

L’art.15 c.p. prevede che “ quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge o alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito”.

Segnatamente, per rapporto di specialità deve, quindi, intendersi la relazione di genere a specie tra due disposizioni, quando l’una contiene in sé tutti gli elementi presenti nell’altra ( coprendone l’intero disvalore penale) presentando al contempo, rispetto alla prima, ulteriori elementi specializzanti, per specificazione o per aggiunta. In particolare, ci si è chiesti quale sia il significato da ascrivere all’espressione “ stessa materia” e quale valore attribuire al concetto stesso di specialità.

Il concetto di “stessa materia”, va interpretato secondo il criterio strutturale ossia inteso come “medesima situazione di fatto” ( e non come medesimo bene giuridico). A questa tesi hanno, da ultimo, aderito le Sezioni Unite della Corte di Cassazione ( sent.n. 16568/2007) che sono intervenute a dirimere principalmente il contrasto interpretativo registratosi in relazione al rapporto tra le fattispecie di cui agli artt. 640bis e 316ter e quella di cui all’art. 483 c.p., esprimendo che “ il reato di cui all’art.316ter c.p. assorbe quello di falso di cui all’art 483 c.p., in quanto l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituiscono elemento essenziale per la sua configurazione”.

Sul concetto di specialità, invece, le questioni avanzate e le soluzioni prospettate sono le seguenti: in merito al fatte se la specialità vada intesa in senso concreto o in senso astratto, si è aderiti alla seconda tesi, reputando debba sussistere un rapporto strutturale di continenza ( da genere a specie) tra norme, sicchè una norma contiene tutti gli elementi costitutivi dell’altra più uno ulteriore  ( specialità per aggiunta) o uno specializzante (specialità per specificazione); in merito poi al fatto se la specialità vada intesa di tipo unilaterale o bilaterale( ossia reciproca), si è preferita la prima ricostruzione, secondo cui è una ed una sola la norma speciale rispetto all’altra.

Seppure il principio di specialità sia l’unico enunciato dal codice, altri e diversi principi sono stati adoperati per risolvere il concorso apparente di norme. Mentre il criterio di specialità si basa sul rigoroso riscontro della sussistenza di un rapporto strutturale tra due fattispecie astratte, gli altri due criteri sono, invece, fondati su un apprezzamento di valore del fatto concreto.  Quest’apertura rispetto a diversi altri criteri, oltre quello di specialità, è il frutto del contrasto tra la teoria monistica, che tende a valorizzare unicamente il dato letterale dell’art 15 c.p., e teoria pluralistica che, invece, disconosce al criterio di specialità la funzione di unico criterio, essendo solo uno dei tanti utilizzabili.

Un primo alternativo criterio, oggetto di alcune pronunce, è stato quello di cui al principio dell’assorbiomento ( lex consumens derogat lex consumptae) in base al quale tra due norme si applica esclusivamente una di esse se assorbente e consumante l’intero disvalore dell’altra; nel senso che la commissione di una condotta di reato comporta, secondo l’id quod plerumque accidit, la necessaria integrazione anche della seconda ed ulteriore condotta, che dovrebbe di conseguenza ritenersi assorbita nella prima.

Altro criterio, spesso ricorrente è quello di sussidiarietà ( lex primaria derogat legi subsidiariae) che viene in rilievo ogniqualvolta tra le fattispecie astratte sia ravvisabile un rapporto di complementarietà, in modo tale che la norma sussidiaria si applichi solo quando la primaria non sia applicabile. Necessariamente, occorre che esse tutelino un medesimo bene giuridico  in stadi diversi di aggressione.  Questo principio viene talvolta richiamato in maniera esplicita dalla stessa norma incriminatrice che reca una clausola di riserva; altre volte viene ricavato in via interpretativa, in maniera c.d. implicita, consentendo l’applicazione della sola disposizione incriminatrice che contiene la sanzione più severa. Una fattispecie che ha accolto il principio di sussidiarietà ( Cass. Pen.  Sez.Un 16568/2007) è stata quella di cui al contrasto tra il reato di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ( art.316ter cp.) e quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art.640bis c.p.).

Quella che invece non risulta risolta pacificamente è la vexata qaestio relativa al concorso del predetto reato di truffa aggravata ex art 640bis con quello di malversazione ai danni dello Stato di cui all’art.316bis c.p.. Il problema si pone, in particolare, laddove chi abbia ottenuto i fondi pubblici attraverso artifici e raggiri non li destini poi alla finalità per i quali siano stati erogati. La questione non può che essere risolta se non si prende una posizione circa l’ammissibilità di criteri regolatori nel concorso di reati diversi da quello della specialità.

L’art.640bis c.p. punisce, con la reclusione da 1 a 6 anni, un’ipotesi aggravata di truffa riguardante “contributi, finanziamenti, mutui agevolati, ovvero altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee”. L’art316bis c.p., invece, commina la meno grave pena della reclusione da 6 mesi a 4 anni nei confronti di “chiunque, estraneo alla pubblica amministrazione, avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico o Comunità europee, contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere o allo svolgimento di attività di interesse pubblico, non li destina a predette finalità”.

Il caso posto al vaglio della Cassazione, confluito nella decisione n. 47174/2016,  riguardava un caso in cui le imputate, costituita una società fittizia ed ottenuto un mutuo agevolato  ai sensi del dlgs 185/2000 attraverso artifici e raggiri,  con vincolo di destinazione dei beni aziendali alla restituzione del suddetto finanziamento ( nello specifico era previsto un divieto di alienazione dei beni immobili della società, salvo il consenso della società mutuante), avevano poi ( dopo il pagamento di sole sei rate su ventotto pattuite) violato suddetto divieto, trasferendo i beni dalla società ad una delle imputate stesse. La prima condotta- consistente del fraudolento ottenimento dell’erogazione- veniva qualificata come truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art.64bis c.p., ma ne veniva tuttavia dichiarata l’estinzione per prescrizione. La seconda condotta- rappresentata dalla cessione dei beni aziendali al patrimonio delle imputate in violazione del vincolo di destinazione- era stata, invece, ricondotta alla fattispecie della malversazione ai danni dello Stato di cui all’art.316 bis c.p., comportando la condanna delle imputate da parte sia del tribunale di primo grado che di quello d’appello. Dinanzi alla corte di Cassazione le ricorrenti , tra le altre cose, sostenevano (invocando un precedente del 2009) che alla fattispecie di cui all’art.316bis c.p. doveva essere riconosciuta natura sussidiaria risetto al reato di cui all’art640bis c.p.., il quale esaurirebbe da solo l’intero disvalore della vicenda , degradando la successiva malversazione a mero post factum non punibile.

 Sulla questione la Corte rileva l’esistenza di orientamenti divergenti in seno alla giurisprudenza di legittimità. Un primo e maggioritario orientamento ritiene che i due reati possano concorrere, essendo l’uno realizzabile indipendentemente dall’altro e non vertendosi comunque sulla stessa materia regolata da più disposizioni ed essendo dunque inapplicabile il criterio di specialità di cui all’art.15 c.p.. Un secondo minoritario orientamento ritiene, al contrario, che i due reati non possano concorrere, poiché il più grave reato di truffa aggravata ex art 640bis assorbirebbe la successiva condotta di malversazione ex art.316bis c.p…

Registrato il contrasto, la corte ha così rimesso la questione alle Sezioni Unite, con un’ordinanza nella quale si legge che, premesso che il reato di malversazione non presuppone necessariamente la consumazione di una truffa, il problema sorgerebbe proprio quando tale situazione si verifichi, ossia quando la diversa destinazione dell’erogazione intervenga con riguardo a provvidenze precedentemente ottenute con mezzi fraudolenti. Se, da un lato, è vero che un’erogazione ottenuta con mezzi fraudolenti, possa essere distratta ab origine dalle finalità previste, è anche vero che l’illecito ottenimento dell’erogazione non implica necessariamente la violazione del vincolo di destinazione, non potendosi escludere infatti che anche i contributi ottenuti con mezzi fraudolenti siano in tutto o in parte destinati alle finalità previste. Va tuttavia riconosciuta, secondo la Corte, l’assurdità di ravvisare un concorso di reati solo laddove l’erogazione abbia avuto un principio di regolare destinazione e sia stata successivamente distratta. Ciò infatti implicherebbe di individuare un concorso apparente di norme solo nel caso in cui il denaro pubblico sia immediatamente ed integralmente utilizzato per finalità diverse da quelle pattuite. Così ragionando si giungerebbe alla paradossale conseguenza di punire più gravemente chi ha tenuto, almeno in parte, un a condotta meno riprovevole. La questione va risolta sul piano astratto facendo applicazione del principio di specialità ex art.15 c.p.. Tuttavia, segnala la Corte che, nei casi di c.d. specialità reciproca bilaterale per aggiunta, come quella in esame in cui al dato comune dell’erogazione si aggiunge, per un verso, l’utilizzo di mezzi fraudolenti e, per l’altro, la distrazione dalle finalità vincolanti, non riescono a trovare soluzione mediante l’applicazione del principio di specialità.

Invero, i fatti che vengono in rilievo, nella fattispecie de quo, sono due , tra loro ben distinti: uno anteriore, consistente nel truffaldino conseguimento del finanziamento, integrante il reato di truffa aggravata ex art.64bis, e l’altro posteriore, consistente nell’impiego dei fondi per una destinazione diversa da quella per la quale erano stati erogati  ( condotta astrattamente riconducibile al reato di malversazione ex art 316 bis). Sul punto, come correttamente osservato dai giudici remittenti, si rinvengono due orientamenti: il primo, prevalente in giurisprudenza ma minoritario in dottrina ritiene che si verta in un’ipotesi di concorso materiale di reati, al più avvinti dal vincolo della continuazione. A sostegno di tale posizione si argomenta che la configurabilità del reato di malversazione ex art.316bis c.p., non postula che l’erogazione sia stata ottenuta con artifici e raggiri, mentre la truffa aggravata ex art.640bis reprime proprio la frode a mezzo della quale l’erogazione pubblica viene ottenuta. Trattandosi di due comportamenti illeciti differenti, puniti da norme diverse, la circostanza che essi possano sommarsi non farebbe venire meno la possibilità di concorso tra i due reati. Questa tesi si fonda essenzialmente sull’inapplicabilità del principio di specialità di cui all’art 15 c.p. in virtù della diversa “materia” disciplinata dalle due norme, intesa quale alterità del fatto tipico descritta dalla fattispecie astratta. Le norme reprimono due comportamenti illeciti diversi, commessi in momenti successivi, con differenti modalità esecutive e offendono beni giuridici diversi. Un secondo orientamento, finora minoritario in giurisprudenza ma prevalente in dottrina, afferma invece come il caso in esame, sia riconducibile ad un concorso apparente di norme, poiché il secondo comportamento si risolverebbe in un mero atto esecutivo di una precedente condotta illecita più grave ed assorbente il disvalore di quella successiva. Secondo tale indirizzi, cui ha aderito una pronuncia della Cassazione del 2009, le due fattispecie offenderebbero  i medesimi beni giuridici  poiché entrambe arrecherebbero pregiudizio tanto al patrimonio della pubblica amministrazione, quanto al buon andamento della stessa. Beni, questi ultimi, offesi sin dal momento consumativo della truffa e poi ulteriormente pregiudicati tramite l’omessa destinazione, ma in una fase meramente esecutiva di un unitario progetto criminoso, nel cui ambito il diverso impiego del finanziamento appare come una conseguenza naturale del conseguimento dell’indebita erogazione.

A ben vedere, i due indirizzi presentano un punto di intersezione, rappresentato dall’inapplicabilità nel caso de quo, del principio di specialità di cui all’art.15 c.p.. Il suo ambito di applicazione, infatti, viene normalmente circoscritto ai casi in cui alla medesima condotta tipica (ossia la stessa materia)sia riconducibile a più norme incriminatrici, delle quali una descrive un fatto che presenta tutti, più almeno uno,  gli elementi dell’altra. Se non altro, per un dato di pura logica, il criterio di specialità sembra destinato ad operare solo qualora ci si trovi di fronte ad un unico fatto. Ma è anche vero, che sul piano concreto, stabilire quando effettivamente ci si trovi di fronte ad una condotta unica può essere difficoltoso. Nel caso di specie, non sorgono problemi in ordine all’individuazione di due condotte.

In secondo luogo, di specialità è pertinente parlare quando il rapporto strutturale tra le due disposizioni può essere rappresentato, graficamente, da due circonferenze concentriche, in cui quella di maggior diametro rappresenta la norma generale da disapplicare ove la fattispecie  concreta si collochi all’interno della circonferenza diametralmente più piccola .Qualora, invece, le due circonferenze, invece che concentriche siano intersecanti,  trovandosi solo in parziale sovrapposizione, come nel caso di specie, sul criterio di specialità non più farsi affidamento.

 Un ulteriore criterio di risoluzione del concorso apparente tra norme è quello dell’assorbimento. Nell’ambito del concetto di assorbimento possono esser fatte confluire tutte quelle regole che servono a disciplinare i rapporti tra più norme incriminatrici, rispetto alle quali non sia possibile operare un confronto meramente formal-strutturale, ma resti comunque possibile un raffronto di valore tra le stesse.  L’ammissibilità di un criterio generale di assorbimento è esclusa dalla giurisprudenza di legittimità maggioritaria sulla scorta della assoluta mancanza di un qualsivoglia fondamento normativo. Secondo questo indirizzo, l’inciso finale dell’art.15 c.p. “ salvo che sia altrimenti stabilito” permetterebbe di ricorrere a criteri diversi da quello di specialità solo  quando all’interno delle singole norme incriminatrici siano previste apposite clausole di riserva (  quali “ se il fatto non è preveduto come più grave reato” o  “qualora il fatto non costituisca più grave reato”). Ciò in ragione del fatto che  principi di valore, quali quello dell’assorbimento e della consunzione, fanno dipendere dall’incontrollabile valutazione del giudice l’applicazione della norma penale, ponendosi, per tale motivo, in contrasto con il principio di legalità e dei suoi corollari di determinatezza e tassatività. Proprio per il fatto che il criterio di assorbimento prescinde dalla struttura della fattispecie, verrebbero a mancare criteri sicuri per stabilire quali e quante fra più fattispecie siano applicabili, in violazione ai valori di accessibilità della norma violata e prevedibilità della sanzione di cui  rispettivamente all’art7 CEDU e art49 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza.

Tuttavia, altra giurisprudenza afferma che, in primo luogo, non persuade l’assunto secondo il quale la previsione di tali criteri debba avvenire solo in forma espressa da parte del legislatore, attraverso l’apposizione di clausole di riserva.  Così argomentando, il principio di legalità verrebbe invocato in malam parte, nel senso che estende il numero di illeciti di cui il reo è chiamato a rispondere. In secondo luogo, le norme incriminatrice che contengono le suddette clausole di riserva sono talmente tante da non poter far si che il principio dell’assorbimento che ne deriva sia considerato eccezione, ma  piuttosto una regola generale  deducibile anche dal raffronto sistematico  tra norme quali l’art.8 c.p. sul reato complesso ( nel cui valore verrebbe assorbito anche il reato minore) e gli artt.61,62 e 68c.p. in materia di disposizioni circostanzianti.  Ma un criterio generale di questo tipo sembra riconnettersi al principio fondamentale di proporzione tra fatto e pena.

Alla luce di quanto esposto, le ragioni che militano a favore dell’operatività del principio dell’assorbimento, nel caso in esame, conducono a ritenere la seconda condotta quale sub specie del postfatto non punibile.  Una simile qualificazione può essere scandita in tre passaggi logico-giuridici determinati: individuata la violazione più grave (primo passaggio), si tratterebbe di chiarire se la fattispecie meno grave sia posta a tutela di beni giuridici già offesi dal primo reato (secondo passaggio), e di stabilire, infine, se il disvalore di quest’ultimo contenga in sé quello espresso dalla successiva condotta (terzo passaggio).

In prima battuta, dunque, occorre individuare la violazione più grave, nello stesso modo in  cui si opera in sede di applicazione del cumulo giuridico ex art81c.p., ripercorrendo la ‘atavica diatriba circa la preferibilità di un accertamento “in concreto” che tenga conto della pena che applicherebbe il giudice, ovvero “in astratto”, che si affidi alla cornice edittale prevista dalla legge.

Nel caso in esame la valutazione è comunque agevole, poiché la violazione più grave è sicuramente rappresentata dal reato di truffa aggravata ex art,640bis c.p. che prevede la pena più elevata tanto nel minimo che nel massimo.

Nel secondo passaggio torna a giocare un ruolo significativo il “bene giuridico”, la cui individuazione è determinata attraverso un raffronto tra le norme a mezzo  degli ordinari strumenti esegetici. L’assorbimento del postfatto può così operare  laddove si riconosca che la violazione più grave tuteli gli stessi beni giuridici tutelati dal reato meno grave.

Nel caso di specie, anche tale valutazione non pare sollevare particolari difficoltà, potendosi costatare come entrambe le condotte abbiano arrecato offesa a beni tra loro del tutto omogenei. Invero, sia la truffa ai danni dello Stato, sia la successiva malversazione hanno offeso tanto il patrimonio pubblico, quanto il buon andamento della pubblica amministrazione erogante.

Maggiormente delicato è il terzo passaggio logico, ossia quello volto a stabilire se con l’apprezzamento negativo espresso nei confronti dell’offesa più grave, il legislatore abbia già tenuto in considerazione anche gli ulteriori normali sviluppi della condotta incriminata.

In sostanza, si tratta di stabilire se la seconda condotta risulti già sufficientemente colpita attraverso l’assoggettamento alla sanzione precedente. A tal fine, sarà rilevante appurare se la condotta meno grave risulti, secondo l’id quod plerumque accidit, una normale e prevedibile conseguenza del  primo e più grave reato. Secondo questa logica il reato susseguente non sarà punibile tutte le volte in cui esso rappresenti un normale sviluppo della condotta precedente e con il quale l’agente consegue o consolida i vantaggi derivanti dal primo reato.

Nell’ipotesi de qua, dunque occorrerebbe domandarsi se il comportamento di chi si intaschi il denaro ottenuto frodando lo Stato, rappresenti o meno, un normale sviluppo della condotta illecita commessa; e ancora, se il legislatore nel punire, con la reclusione da 1 a 6 anni, l’ottenimento fraudolento dell’erogazione ne abbia messo in conto il conseguente utilizzo della stessa a piacimento del truffatore. La risposta sembrerebbe positiva,  e a convincimento di quanto detto milita un ulteriore argomento. Può notarsi come in relazione al reato di appropriazione indebita ex art 646c.p. si suole richiedere quale presupposto implicito della condotta che il possesso non sia stato acquistato in modo illecito ( sebbene la norma parli di “possesso a qualsiasi titolo”): sarebbe però un controsenso affermare che ci si possa “appropriare” di beni ottenuti mediante un reato, risultando impossibile quell’interversione del possesso di cui consta la condotta tipica di cui all’art. 646 c.p..

Una logica analoga potrebbe operare in ordine alla malversazione ex art 316bis c.p., per integrare la quale è naturale pensare che l’erogazione non debba essere stata ottenuta in modo illecito, essendo arduo immaginare che l’autore della truffa – animato evidentemente sin dall’inizio, come tutti i truffatori, dell’intenzione di conseguire somme di cui poter disporre uti dominus- debba essere ulteriormente punito per non aver impresso al profitto nascente dal reato la destinazione prospettata dal soggetto passivo ( ossia l’ente erogante).

Ciò non sta a significare che l’interprete debba rimanere insensibile alle finalità cui l’autore della truffa destina in concreto il finanziamento conseguito, ben potendo e dovendo, tale destinazione concreta essere valutata dal giudice ai sensi degli artt. 133 co 1, n.2, in relazione alla “gravità del danno cagionato” e  133 co 2 n. 3 in relazione  alla “condotta susseguente il reato”, nonché ai fini della concessione dell’attenuante comune di cui all’art 62 n.6 c.p., nell’eccezionale ipotesi in cui chi abbia ottenuto fraudolentemente i fondi, anziché disporne liberamente, li destini invece alle finalità istituzionali, realizzando così una forma spontanea di attenuazione (o elisione) delle conseguenze dannose del reato. In sostanza, attraverso tali strumenti normativi, resta possibile adeguare la sanzione alla gravità del caso concreto, rispettando il già citato principio di proporzionalità della pena.

Nel caso in esame nulla sembra ostare all’applicabilità del principio dell’assorbimento, considerando non punibile il reato di malversazione ex art.316bis, quando concorre con quello di truffa aggravata di cui all’art 640bis, di cui costituisce postfatto non punibile.

Si auspica tuttavia un intervento della Suprema Corte che, preso atto dell’insufficienza del solo criterio di specialità di cui all’art.15, definisca ulteriori criteri regolatori del concorso.

Si è osservato, inoltre, come all’individuazione di ulteriori criteri sia paradossale frapporre in malam partem l’ostacolo del principio di legalità, laddove a favore del principio dell’assorbimento  sospinge il principio di proporzionalità della pena, avente rango costituzionale, eurounitario e convenzionale.  Ne discende l’opportunità di riconoscere che l’applicabilità dell’art 316bis c.p. deve escludersi quando l’erogazione di fondi pubblici sia stata conseguita mediante la commissione di una truffa aggravata ex art640bis c.p..

Il caso in esame, merita un’ultima considerazione: il reato di truffa aggravata è prescritto, pertanto, operando il criterio dell’assorbimento rispetto al successivo reato di malversazione, le imputate rimarrebbero impunite per entrambi i fatti.  Si potrebbe a questo punto sostenere che il criterio dell’assorbimento abbia ragion d’essere soltanto laddove i reati in questione siano in concreto punibili, e quindi ponendosi il rischio di una duplicazione sanzionatoria, ma a tale conclusione si potrebbe giungere solo nell’ipotesi in cui l’assorbimento venisse considerato un criterio equitativo; ma tale non è. È evidente allora che l’estinzione in concreto del reato assorbente non potrà far improvvisamente rivivere la punibilità del postfatto assorbito.

Nei casi come quello posto al vaglio della Suprema Corte nel 2016, l’unica ragione che potrebbe indurre a ritenere che l’estinzione del reato principale possa condizionare l’esito del giudizio sul concorso (sempre che si aderisca alla qualificazione del reato minore quale postfatto) è il senso di ingiustizia che si prova nell’accertare la responsabilità per fatti illeciti a cui, infine, non è possibile offrire un’adeguata risposta sanzionatoria. Ma tale è l’effetto del nostro anomalo e disfunzionale regime della prescrizione, il quale svolge all’interno del processo un ruolo indebitamente fondamentale. Tuttavia, la pressante esigenza di far fronte ai difetti della prescrizione, non può legittimare la torsione alle regole di sistema, inducendo a disapplicare un principio generale in virtù di una contingenza del caso concreto. Al contrario, sono occasioni come questa a rendere più che mai essenziale un’applicazione rigorosa dei principi fondamentali, che funga eventualmente, anche da strumento di denuncia delle aporie determinate dall’irragionevolezza dell’attuale regime di prescrizione.

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