Finzione di avveramento della condizione e provvedimenti amministrativi

Finzione di avveramento della condizione e provvedimenti amministrativi

 

Pubblicato il 5.02.2017 autore Alessia Converti

La condizione è un evento futuro e incerto al cui verificarsi le parti subordinano la produzione o l’eliminazione degli effetti prodotti dal negozio a cui essa è applicata.

L’autonomia privata in questo caso ha una duplice facoltà da un lato di selezionare nell’ambito del lecito che un evento futuro regoli la propria sfera giuridica e dall’altro stabilire il tipo di incidenza risolutiva o sospensiva degli effetti del negozio.

In pendenza della condizione, l’obbligato e l’alienante sotto condizione sospensiva e l’acquirente sotto condizione risolutiva devono comportarsi secondo buona fede per conservare integre le ragioni dell’altra parte ai sensi dell’art. 1358 c.c..

Viene allora da domandarsi se esista una differenza fra la buona fede ex art. 1358 c.c. e quella generale ex art. 1375 c.c..

Dal punto di vista contenutistico sono identiche, ovvero il dovere di agire secondo criteri di correttezza contrattuale in modo tale da salvaguardare, nei limiti dell’apprezzabile sacrificio, la posizione della controparte. Però, l’obbligo previsto dall’art. 1358 c.c. costituisce una chiara specificazione di quello generale, in quanto espressamente diretto a conservare integre le ragioni dell’altra parte, pur senza uno specifico obbligo di adoperarsi positivamente al fine di favorire l’avverarsi della condizione.

La parte che ha la disponibilità del bene deve dunque attivarsi positivamente affinché questo venga preservato a tutela dell’aspettativa della controparte, il tutto ovviamente entro i limiti dell’apprezzabile sacrificio e con l’utilizzo della normale diligenza ex art. 1176 c.c..

A tutela della parte titolare dell’aspettativa il legislatore pone l’art. 1359 c.c., in forza del quale si ha una finzione di avveramento qualora l’accadimento dedotto in condizione sia divenuto inattuabile per causa imputabile alla parte che ha un interesse contrario all’avveramento.

Si parla al riguardo di una finzione giuridica (fictio iuris) anche se la norma in esame appare più come una sanzione la cui ratio è quella di evitare che l’autore dell’illecito tragga da questo effetti giuridici favorevoli.

Il divieto di impedire l’avveramento della condizione, di qualunque genere essa sia, costituisce una specificazione dell’obbligo di buona fede, anche se di applicazione limitata alla sola parte avente un interesse contrario all’avveramento. In particolare, colpisce qualsiasi impedimento imputabile a dolo o colpa della parte.

La finzione di avveramento può essere l’unica conseguenza di tale comportamento, ma può anche accompagnarsi ad una specifica responsabilità patrimoniale, a seconda dei casi, contrattuale o precontrattuale.

In particolare, qualora la fictio iuris riguardi una condizione risolutiva, ed in particolare qualora sia strutturata nel senso che in caso di avveramento il diritto dell’acquirente ne resti travolto, questi ha diritto al risarcimento del danno emergente e del lucro cessante, oltre alla restituzione della controprestazione eventualmente già resa.

In caso, invece, di condizione sospensiva al cui verificarsi è collegato l’effetto iniziale del negozio, la fictio iuris comporta, nella maggior parte dei casi, un automatico soddisfacimento dell’interesse della controparte contrattuale e la priva del diritto di richiedere il risarcimento dell’ulteriore danno.

L’art. 1359 è applicabile alla sola condizione casuale o mista, e a quest’ultima, poi, per la sola parte affidata al caso, non alla condizione potestativa perché, per sua natura, il suo venir meno non può essere dovuto che alla contraria volontà del soggetto, libero di fare o non fare quanto posto in condizione.

Inoltre, secondo l’opinione prevalente la norma riguarda la sola condicio facti, non potendo trovare applicazione nel caso di condicio iuris: si deve cioè trattare di un evento in relazione al quale la condotta umana abbia concrete possibilità di governo ed indirizzo.

Ci si è posti il problema relativo all’indispensabilità o meno, ai fini della sanzione di cui alla norma in esame, di un comportamento positivo e se sarebbe rilevante la mera omissione.

Al riguardo la Cassazione ha dato risposta affermativa, purché la condotta omissiva tenuta dalla parte costituisca violazione di un preciso obbligo di agire imposto dal contratto o dalla legge.

Dal punto di vista logico il comportamento dell’uomo potrebbe incidere non solo nel senso di impedire la verificazione di un evento ma, inversamente, nel senso di determinare la produzione di un evento che faccia divenire operativa la condizione avente effetti sfavorevoli all’altra parte.

Secondo la Corte sarebbe sufficiente un comportamento colposo in base ai parametri della normale diligenza e non necessariamente doloso anche se meramente omissivo purché posto in essere durante la pendenza della condizione e non certo prima della conclusione del negozio in cui questa è contenuta.

La Corte ha inoltre precisato, che in linea di principio, la parte di un contratto sottoposto a condizione non ha alcun obbligo di produrre l’avveramento o di cooperare all’avverarsi della condizione; su di esse incomberebbe solo l’obbligo ex art. 1358 c.c. puramente negativo ovvero di astenersi da ogni atto che pregiudichi le aspettative dell’altro contraente o impedisca l’evento necessario all’avveramento.

Quando, invece, la parte sia contrattualmente obbligata a cooperare alla produzione dell’evento non può più parlarsi di condizione ma di adempimento delle obbligazioni nascenti dal contratto.

La Suprema Corte ha anche statuito che la finzione di avveramento riguarderebbe soltanto il mancato avveramento imputabile alla parte che aveva interesse contrario all’avveramento e non sarebbe suscettibile di estensione all’ipotesi opposta, cioè quale finzione di non avveramento sanzionante l’avveramento dell’evento riconducibile alla condotta della parte che vi avesse interesse.

La decisione seppure criticata da alcuni sembrerebbe in linea con il pensiero del legislatore vista l’eccezionalità della norma e sarebbe contrario al principio di favor dell’ordinamento per l’efficacia contrattuale. Resta comunque l’obbligo giuridico della parte ad astenersi dal porre in essere una condotta pregiudizievole all’aspettativa dell’altra parte in base al principio della buona fede.

La norma dell’art. 1359 c.c., non è applicabile al caso in cui la parte tenuta condizionatamente ad una determinata prestazione abbia anch’essa interesse all’avveramento di essa. La condizione può ritenersi apposta nell’interesse di una sola delle parti contraenti soltanto quando vi sia un’espressa clausola contrattuale che disponga in tal senso ovvero allorché, tenuto conto della situazione riscontrabile al momento della conclusione del contratto, vi sia un insieme di elementi che nel loro complesso inducano a ritenere che si tratti di condizione alla quale l’altra parte non abbia alcun interesse; in mancanza, la condizione stessa deve ritenersi apposta nell’interesse di entrambi i contraenti.

Se si individua il presupposto della finzione di avveramento della condizione nella violazione dell’obbligo di buona fede occorre chiedersi se ai fini della sanzione riparatoria sia rilevante il mero tentativo di impedire che si verifichi l’evento condizionale.

Viene fatto autorevolmente discendere dalla natura riparatoria a garanzia della controparte e non punitiva, una risposta negativa. Dunque il comportamento anche se doloso volto, senza riuscirci, ad impedire l’evento condizionale sarebbe irrilevante in ossequio ad una tutela oggettivistica e non soggettivistica dell’interesse di controparte. L’inapplicabilità della finzione, emergerebbe anche dal dato letterale della norma nella parte in cui dispone che presupposto della finzione di avveramento sia il venir meno di ogni possibilità che la condizione si avveri. Pertanto, se il tentativo non sortisce il suo effetto e la condizione può ancora avverarsi non si configurerebbe la situazione prevista dall’articolo 1359 c.c. ma tuttalpiù una mera violazione degli obblighi di buona fede.

Il discorso cambia, tuttavia, se il tentativo abbia effettivamente danneggiato la controparte come può accadere nel caso di tentata distruzione di un bene infungibile che porti ad una diminuzione del suo valore. In tale ipotesi apparirebbe, però, più opportuno il rimedio della risoluzione più che quello della finzione dell’avveramento, non avendo la parte alcun interesse ad ottenere un bene danneggiato.

Infine è necessario valutare l’interesse all’avveramento della condizione non in termini astratti e facendo riferimento non solo al momento della conclusione del contratto ma anche al momento in cui si è verificato il fatto o comportamento che ha reso impossibile l’avveramento della condizione.

Una parte della dottrina riteneva rilevante solo il momento della stipulazione del negozio ma questa posizione si scontrava con la mutabilità degli interessi delle parti. Infatti, nel lasso di tempo necessario affinché la condizione di verifichi può capitare che la parte che inizialmente aveva interesse all’avveramento della condizione lo perda in virtù, ad esempio, di un’occasione più vantaggiosa. Pertanto, la Cassazione ha più volte ribadito la necessaria attualità dell’interesse rapportato al momento in cui venga meno l’avveramento.

Così nell’ipotesi di convenzione che subordina il pagamento del compenso in favore del professionista per prestazioni di progettazione al rilascio della concessione edilizia deve ritenersi operante la fictio iuris di avveramento della condizione, ex art. 1359 c.c., qualora il committente provveda autonomamente al ritiro della domanda di concessione edilizia, dovendosi valutare la sopravvenienza di un interesse contrario all’avveramento della condizione in capo al committente.

Occorre sottolineare che la norma in esame non si riferisce solo a coloro che, per contratto, apparivano avere interesse al verificarsi della condizione, ma anche ai comportamenti di chi in concreto ha dimostrato, con una successiva condotta, di non avere più interesse al verificarsi della condizione.

La fattispecie trova applicazione anche nel caso in cui l’interesse di una delle parti, originariamente convergente con quello della controparte, si modifichi in corso di rapporto fino a risultare contrario all’avveramento della condizione, avuto anche riguardo alla previsione di cui all’art. 1358 c.c..

Non può negarsi che il ritiro di un’istanza di concessione edilizia sia chiaramente sintomatico del venir meno dell’interesse ad ottenerla da parte di chi tale istanza aveva presentato e deve ritenersi comportamento idoneo a configurare un’ipotesi di interesse contrario comportante l’operatività della previsione dell’art. 1359 c.c..

Secondo la giurisprudenza nel caso in cui l’acquisto della proprietà immobiliare sia subordinato alla condizione sospensiva del rilascio della concessione edilizia, la verifica dell’avveramento dell’evento dedotto in condizione si estende anche alla valutazione della legittimità della concessione edilizia rilasciata.

Nelle controversie tra privati derivanti dall’esecuzione di opere edilizie non conformi alle prescrizioni di legge o degli strumenti urbanistici, ciò che rileva, infatti, è la lesione di diritti soggettivi, mentre la rilevanza giuridica della concessione edilizia si esaurisce nell’ambito del rapporto pubblicistico tra pubblica amministrazione e privato richiedente.

Qualora, invece, la condizione sospensiva consista nel rilascio di una autorizzazione amministrativa ovvero sia comunque una condizione legale, secondo la Suprema Corte non può trovare applicazione l’istituto della finzione di avveramento, in quanto si avrebbe una illegittima sostituzione della volontà contrattuale a quella amministrativa.

Infatti, laddove sia coinvolta l’attività discrezionale della pubblica amministrazione, volta a tutelare interessi superiori, la scorrettezza del comportamento della parte che ha interesse contrario all’avveramento della condizione non può condurre alla finzione che il provvedimento amministrativo sia stato emanato.

Nonostante alcuni autori abbiano sollevato dei dubbi in merito a tale soluzione appare alquanto discutibile che un atto amministrativo possa considerarsi sostituito da un equipollente o da una fictio iuris.

I dubbi si aggravano se si considera che, in virtù della discrezionalità propria della pubblica amministrazione, non può in nessun caso aversi la certezza che l’atto, una volta richiesto dal privato, sarebbe stato emanato.

Tuttavia esclusa l’applicazione dell’articolo in esame resta salva la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno per violazione dell’obbligo di buona fede ex art. 1358 c.c..

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