L’agente provocatore: limiti di applicazione della fattispecie

L’agente provocatore: limiti di applicazione della fattispecie

di Silvia Marini

Con la nozione di “agente provocatore” s’intende, tradizionalmente, la figura di colui il quale, nella veste di appartenente alle forze dell’ordine od anche di privato cittadino, fingendo di essere d’accordo con altra persona, la induce a commettere un reato, spinto dal movente di denunciare o far cogliere in flagranza, o comunque far scoprire il provocato dall’Autorità.

Il vero sviluppo della figura dell’agente provocatore si ebbe in Francia, durante il XVII- XVIII secolo, dove il dispotismo di Stato forgia la classe dei delatori privati, incaricati di acquisire prove a carico di soggetti che cospirassero contro l’ordine statale.

Questi erano privati cittadini che spiavano i loro concittadini, sospettati di essere contrari all’indirizzo politico dominante, per poi denunciarli all’autorità, ricevendo in cambio dei benefici. In seguito, l’istituzione dei delatori privati fu sostituita dall’organizzazione della polizia segreta, con le stesse funzioni dei delatori privati, ma le informazioni vengono assunte, non più per acquisire benevolenza presso l’autorità, ma vengono assunte nell’adempimento di un dovere pubblico.

Dalla metà dell’Ottocento in poi, l’esperienza che finora era rimasta confinata in Francia “contagia” l’Europa, e la tematica inizia ad essere affrontata sul piano teorico-giuridico da studiosi tedeschi, italiani e russi.

Proprio l’apporto della dottrina tedesca, ha portato per la prima volta a tratteggiare una figura ampia di agente provocatore non vincolata esclusivamente ai reati politi, ma caratterizzata dalla mancanza d’interesse nell’istigatore alla realizzazione degli effetti tipici del reato: il suo fine consiste nella denuncia della persona provocata.

Ne deriva una classificazione che porta a definire l’agente provocatore come “chiunque determina o istiga altri al reato perché vuole che questi venga preso sul fatto e punito”.

L’elemento capace di accumunare la gran parte delle definizioni elaborate dagli autori classici consiste nello scopo cui l’azione dell’agente provocatore tende: il delitto in sé veniva considerato stato solo un mezzo per ottenere la punizione del provocato.

In presenza di un nesso di causalità fra la condotta istigatoria e la realizzazione del fatto tipico di reato, la dottrina maggioritaria è propensa a ritenere lo stesso agente, punibile in qualità di “compartecipe morale nel reato”, a nulla giovando un intento moralmente encomiabile qualora la condotta fosse stata, di fatto, fondamentale per la realizzazione dell’illecito, e, sarebbe del tutto indifferente che il provocatore fosse un privato cittadino o un agente di polizia, perché quest’ultimo non potrebbe celarsi dietro l’ordine dell’autorità.

L’agente di polizia che si trovi ad eseguire un ordine delittuoso, non solo ha il diritto, ma anche il dovere di rifiutarsi di adempiere.

Con l’entrata in vigore del Codice Rocco, si sviluppò un filone giurisprudenziale al quale va ricondotto il merito di aver riconosciuto l’esistenza stessa dell’agente provocatore come figura autonoma, attraverso l’indicazione di come deve essere considerato il suo operato.

La Cassazione, nel 1943, giunse ad una distinzione fra l’agente provocatore e l’istigatore.

Secondo questa ricostruzione, i giudici di legittimità definiscono l’agente provocatore chi ‹‹si camuffa da delinquente per accertare od impedire il crimine in itinere››; mentre nella figura dell’istigatore va ricompreso chi ‹‹opera unicamente per determinare l’altro a un delitto che, senza il suo intervento, non sarebbe stato commesso››.

Giunti alla metà del ventunesimo secolo, la giurisprudenza continua ad occuparsi della figura dell’agente provocatore considerato prevalentemente come acquirente simulato.

L’attenzione si concentra sul provocato la cui condotta, per quanto condizionata dall’istigatore, è ritenuta fonte di piena responsabilità: accertata la volontà di delinquere e l’idoneità degli atti di disposizione del bene la cui vendita è vietata, l’illecito è considerato consumato.

È in questo momento che si assiste alla “polverizzazione” della nozione di agente provocatore, seguito all’abbandono da parte di dottrina e giurisprudenza maggioritaria della prospettiva di una collocazione del fenomeno nell’ambito della compartecipazione nel reato.

Con il venir meno dei classici elementi costitutivi, tra cui anche la stessa finalità di provocazione del reato, inizia a vacillare pure la propensione ad individuare una nozione unitaria dell’agente provocatore.

Ad accentuare questa evoluzione contribuisce l’affiancarsi di una nuova figura che si potrebbe definire parallela a quella del provocatore: l’infiltrato; colui che, celando la propria identità, s’inserisce all’interno di organizzazioni criminali allo scopo di scoprirne la struttura, sottrarle risorse essenziali, denunciare i partecipanti. Caratteristica di questa figura è la mancanza di una necessità di provocazione del reato, poiché l’agente s’inserisce in un tessuto criminale in cui i delitti sono già stati pianificati e si compirebbero a prescindere dalla sua presenza.

In questo periodo possono così delinearsi tre diverse tipologie di agente provocatore: il fictus emptor, utilizzato dalle autorità per contrastare fenomeni criminali molto diffusi, quali la compravendita di preziosi, il traffico d’armi e, successivamente, lo spaccio di stupefacenti; la c.d. finta vittima nei delitti di relazione, si tratta di un agente di polizia che finge di farsi truffare aderendo alle proposte del soggetto attivo e che manifesta la propria identità solo in un momento successivo al fine di trarre in arresto il reo; il “partecipe necessario” in materia di reati associativi. Proprio dall’analisi di questi reati trae origine un dibattito sul tenore letterale dell’art. 416 c.p. – il quale prevede che ad associarsi debbano essere almeno tre individui affinché possa manifestarsi la fattispecie delittuosa discutendosi, in particolare, se l’accordo illecito sia ravvisabile nell’ipotesi in cui l’infiltrato sia compreso nel numero minimo di soggetti necessari per la sussistenza del reato.

Successivamente, fra gli anni settanta e ottanta, si sviluppa un nuovo orientamento giurisprudenziale che contribuisce all’affermarsi della figura dell’agente infiltrato.

Per la prima volta, l’attenzione dei giudici non è più incentrata esclusivamente sulla responsabilità del provocato, ma si inizia concretamente ad affrontare il problema della responsabilità dell’agente provocatore e dei suoi limiti operativi, cercando di individuare quali debbano essere i margini entro cui l’attività di tale soggetto possa essere considerata lecita e, di conseguenza, indicando quali straripamenti possa comportare la punibilità del provocatore.

I giudici di legittimità, nel 1969, elaborano così un principio che va considerato un vero e proprio punto di svolta nella disciplina dell’agente provocatore– tutt’oggi operante e mai contraddetto in seno alla Suprema corte – secondo cui l’agente ‹‹non è punibile quando il suo intervento è indiretto e marginale nell’ideazione ed esecuzione del fatto che deve essere, esclusivamente, opera altrui››. In presenza dei suddetti limiti, si ritiene possibile legittimare la condotta dell’agente alla luce della scriminante dell’adempimento di un dovere di cui all’art. 51 c.p. La ratio consiste nel giustificare il comportamento dell’agente che abbia adempiuto fedelmente agli ordini ricevuti e si sia adoperato per impedire il reato, contribuendo all’arresto dei colpevoli (Cassazione 1980).

All’interno di questi limiti, se la scriminante dell’adempimento del dovere è, quindi, invocabile solo quando l’intervento dell’agente provocatore – rectius infiltrato – sia indiretto e marginale, lo stesso risponderà invece a titolo di concorso qualora la sua condotta si inserisca con rilevanza causale rispetto al fatto commesso dal provocato, tanto da consentire che l’evento delittuoso si realizzi.

Poste queste premesse, si considera lecita l’attività che consista in una mera osservazione ovvero che si limiti a facilitare il verificarsi del delitto, purché il bene giuridico sia sempre tenuto sotto controllo al fine di evitare ogni possibile offensività del fatto antigiuridico. Al contrario, è ritenuta illecita la condotta determinante per l’avverarsi dell’evento criminoso e in queste fattispecie la giurisprudenza, nel considerare inequivocabilmente punibile l’agente, si rifà alla risalente dottrina dell’agente provocatore come concorrente morale o materiale. Viene così tracciata una linea di confine fra le condotte provocatorie giustificate ex art. 51 c.p. ed i comportamenti illegittimi, riferibili tanto ad ufficiali di polizia che violino indiscriminatamente i principi dell’ordinamento giuridico con il pretesto di proteggerli, quanto a “collaboratori di giustizia” che nel perseguire un illecito vantaggio personale, tradiscono la fiducia in loro riposta dalle istituzioni.

Solo negli anni novanta, per la prima volta, il legislatore prenderà espressamente posizione in questa materia lasciata per lunghissimo tempo unicamente all’interpretazione della dottrina e della giurisprudenza, attraverso l’emanazione di una serie di normative specifiche che, tuttavia, saranno ben lungi dal dirimere le numerose problematiche legate alla controversa figura dell’agente provocatore.

Il particolare strumento investigativo costituito dall’infiltrazione di polizia attraverso operazioni sotto copertura si pone sulla linea, dai margini non ben definiti, che separa l’attività di prevenzione da quella di repressione dei reati.

L’attività sotto copertura ha da sempre avuto come caratteristica fondamentale l’eccezionalità dei casi nei quali è consentito ricorrervi, anche perché le norme disciplinanti la possibilità di utilizzare l’investigazione undercover erano tutte contenute in disposizioni extracodicistiche emanate per far fronte all’esigenza di fronteggiare l’escalation di determinati reati, in considerazione del grave allarme sociale connesso alla perpetrazione degli stessi.

Si tratta, degli articoli 97 e 98 TULS relativi al traffico di stupefacenti, dell’art. 12-quater della l. 356/92 in materia di ricettazione e riciclaggio, dell’art. 14 l. 269/98 per reati aventi ad oggetto lo sfruttamento della prostituzione, della pedo-pornografia ed il turismo sessuale a danno dei minori e dell’art. 4 l. 438/01 concernente misure urgenti per contrastare il terrorismo internazionale.

Queste disposizioni non si sono limitate ad introdurre la possibilità di ricorrere all’agente sotto copertura così come delineato in dottrina o in numerose pronunce giurisprudenziali, ma sono volte, ciascuna con proprie caratteristiche peculiari, a configurarne i limiti di esistenza nonché a disciplinarne l’utilizzo. Tutto ciò, se da un lato ha sciolto, sotto il profilo strettamente normativo, alcuni dubbi sorti in merito alla legittimità del ricorso a tale strumento, dall’altro ha posto all’attenzione di studiosi e pratici il problema dell’esistenza di una figura unitaria di agente sotto copertura.

Difatti, la stessa denominazione esclusiva di agente provocatore non appare più rispondente alle nuove forme di attività investigativa introdotte sin dai primi anni novanta: così, riuscire a distinguere la figura dell’agente provocatore dall’agente infiltrato non acquisisce un valore meramente concettuale, ma si rivela fondamentale per valutare la legittimità stessa dell’indagine undercover.

Quando parliamo di “agente infiltrato” si indica una tecnica di indagine, per cui un collaboratore o appartenente alle Forze di Polizia, pone, nell’ambito di un’attività investigativa ufficiale, una condotta di mera osservazione o di contenimento dell’eventuale attività illecita.

L’agente infiltrato s’inserisce in una o più attività penalmente illecite o rilevanti col solo obiettivo di raccogliere prove su reati a carico di persone che li abbiano commessi; in altre parole, l’obiettivo della sua attività è cogliere in flagranza i responsabili di uno o più delitti, senza però assumere un ruolo attivo.

L’“agente provocatore”, invece, è colui che pur trovandosi nelle stesse condizioni dell’agente infiltrato, a differenza del primo, pone in essere una condotta “attiva”, ossia di induzione, ideazione di uno o più fatti penalmente illeciti.

L’attività dell’agente infiltrato è certamente molto complessa, poiché è necessaria innanzitutto una copertura biografica completa, con nuovi documenti, sentenze di condanna e fogli di uscita da istituti di pena, inseriti nelle banche dati consultabili dalle Forze di Polizia.

Indispensabile inoltre, una preparazione psicologica e culturale dell’operatore. La specificità è essenzialmente quella di inserirsi in un tessuto criminale, comprenderne le dinamiche, le regole, prevenirne le mosse e, naturalmente, individuare i responsabili dei fatti di reato, acquisendo le fonti di prova, per prevenire e reprimere le condotte delittuose.

Tuttavia, entrambe le figure possono utilizzare, nel rispetto delle norme che le disciplinano, azioni sotto copertura, chiamate anche azioni simulate. È possibile, infatti, che l’agente infiltrato svolga attività di provocazione del reato (acquisti e consegne simulate, riciclaggio, ecc.), o che l’agente provocatore impieghi le modalità operative tipiche dell’infiltrato (falsa identità, documenti di copertura).

Si viene a delineare, pertanto, un agente che non assolve esclusivamente alla funzione di infiltrato o si limita ad eccitare al reato un soggetto che compie abitualmente tale attività, ma un ufficiale di polizia dotato di particolari competenze tecnico-professionali che si può onnicomprensivamente definire “agente sotto copertura”. Ad ogni modo occorre precisare come, anche in passato, non siano mancati tentativi di ricondurre le due figure all’interno della medesima categoria concettuale, pur in assenza di dati normativi certi cui fare riferimento. Attenta dottrina aveva così sostenuto che “la figura dell’agente infiltrato nelle organizzazioni criminali potesse essere avvicinata a quella dell’agente provocatore considerato che, da un lato, l’esigenza di un intervento dell’agente provocatore si giustifica più facilmente nei confronti delle strutture criminali organizzate, dall’altro, l’infiltrato altri non è che un agente provocatore che, inserito stabilmente in una associazione criminale, opera al suo interno allo scopo di distruggere l’organizzazione stessa.

Il delicato strumento investigativo e professionale dell’agente sotto copertura, è stato, negli ultimi decenni, disciplinato da singole disposizioni legislative, spesso discordanti. Il legislatore spinto dalle nuove emergenze criminali, è stato costretto a definire meglio queste nuove metodologie di investigazione, poi recepite, disciplinate e imposte anche a livello europeo, avviando un audace tentativo di reductio ad unitatem di tutte le disposizioni contemplate dalle singole legislazioni di settore che fanno riferimento a specifici contesti criminali.

Oggi, l’utilizzo dell’attività undercover, trova un proprio autonomo statuto nella legge 16 marzo 2006 n. 146 sorta dopo un lungo e tormentato iter parlamentare, che, nel ratificare la Convenzione ed i protocolli delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transazionale – tenutasi a Palermo nel dicembre 2000 –, ha razionalizzato e coordinato la disciplina con la normativa previgente introducendo, per mezzo dell’art. 9, il c.d. “statuto delle operazioni sotto

copertura”.

In verità, dopo questa importante opera di rinnovazione del quadro legislativo, risultano ancora in vigore, in quanto non espressamente abrogate, alcune tra le più importanti normative sulla materia de qua, rendendo necessaria un’opera analitica dell’interprete volta a verificare prima, quali norme si pongono al di fuori dello “statuto”, poi se e quali differenze possano eventualmente intercorrere tra le azioni sotto copertura regolate ad hoc e la normativa che possiamo oramai definire “generale”.

La norma che scrimina le attività sotto copertura in materia di lotta contro il traffico degli stupefacenti è prevista dall’art. 97 D.P.R. 309/90, articolo che costituisce la risultante normativa della elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria concernente la responsabilità penale del c.d. agente provocatore cioè di colui che provoca un delitto al solo fine di assicurare il colpevole alla giustizia. Tale figura è stata tradizionalmente studiata nell’ambito del concorso di persone nel reato in particolare, quale forma di istigazione a commettere il delitto, includendola nel concorso morale perché l’attività tipica dell’agente consiste nel rafforzare o suscitare in altri un proposito criminoso già esistente. Si tratta, nella maggioranza dei casi, di appartenenti alle forze dell’ordine che si prefiggono l’obiettivo di raccogliere prove da utilizzare contro organizzazioni criminali o comunque di attività dirette alla scoperta di gravi reati.

La dottrina tradizionale riconosce la responsabilità penale dell’agente provocatore sulla base del rilievo che l’intenzione di denunciare gli autori di un reato nel nostro ordinamento non assume efficacia scriminante non potendosi comunque ammettere un comportamento che, oggettivamente e soggettivamente, ha contribuito a ledere o mettere in pericolo un bene giuridico.

Sulla linea di tale interpretazione la giurisprudenza afferma che – in applicazione della scriminante dell’adempimento di un dovere prevista dall’art. 51 c.p. e di quanto dispone l’art. 55 c.p.p. che fa obbligo alla polizia giudiziaria di assicurare le prove dei reati e di ricercarne i colpevoli – l’agente provocatore deve andare esente da pena soltanto nei casi in cui la sua opera si risolva soltanto in osservazione, controllo e contenimento delle azioni illecite altrui.

Esula quindi dall’area coperta dalla scriminante ogni attività, materiale o morale, che abbia contribuito alla realizzazione del reato e quindi anche l’attività dell’istigatore in senso stretto e, a maggior ragione, quella del determinatore, o dell’infiltrato, le cui condotte hanno portata sicuramente più ampia e varia rispetto a quella della semplice istigazione e sono tutte riconducibili nella sfera della oggettiva illiceità penale. Inquesti termini ed anche sui rapporti esistenti tra la scriminante speciale prevista dall’art. 97 D.P.R. 309/90 e la causa di giustificazione prevista dall’art. 51 c.p. la Cassazione con sentenza 11 aprile 1994 n. 6425 ha stabilito che “fuori dalle ipotesi disciplinate dall’art. 97 D.P.R. 309/90, l’attività del c.d. agente provocatore che, d’accordo con la polizia giudiziaria, propone ad uno spacciatore e realizza la compravendita di droga al fine di farlo arrestare, è del tutto fuori dalla sfera di operatività dell’art 51 c.p. , ossia dell’adempimento di un dovere di polizia giudiziaria. Non può farsi discendere dall’obbligo della polizia giudiziaria di ricercare le prove dei reati e di assicurare i colpevoli alla giustizia l’esclusione, ex art. 51 c.p., dell’agente provocatore di polizia giudiziaria, giacché è adempimento di un dovere (ex art. 55 c.p.p.) perseguire i reati commessi, non già suscitare azioni criminose al fine di arrestarne gli autori“.

La dottrina più recente ha invece ritenuto che l’agente provocatore non debba essere punito per “mancanza di dolo” quando agisca al solo scopo di assicurare i colpevoli alla giustizia e non abbia neppure accettato il rischio della commissione del reato avendo agito nella convinzione che questo non si sarebbe consumato.

Le ipotesi della provocazione che la dottrina risolveva sul terreno della colpevolezza o quelle ritenute giustificate dalla giurisprudenza restavano tuttavia molto lontane dalla fenomenologia ricorrente nella prassi delle indagini più complesse, ove il c.d. agente provocatore, non poteva limitarsi ad es. all’acquisto, condotta riconducibile ad un messaggio latu senso istigatorio, esigendo la ricerca della prova una penetrazione più ampia in strutture organizzate altrimenti impermeabili, con la realizzazione di condotte ben più poderose ed oggettivamente illecite.

Il legislatore, a partire dagli anni 90, sotto la spinta del diritto internazionale convenzionale, ha introdotto nel nostro ordinamento, cause di giustificazione speciali proprio allo scopo di autorizzare attività di polizia giudiziaria che mai avrebbero potuto essere ricondotte nella figura dell’agente provocatore, scriminata secondo la giurisprudenza, dall’art. 51 c.p. negli angusti limiti sopraindicati.

Si tratta di strumenti individuati, sotto l’onda emergenziale, per rafforzare l’azione di contrasto di  fenomeni criminali di rilevante allarme sociale assicurando alla polizia giudiziaria attribuzioni investigative adeguate alla realtà dei fenomeni da contrastare e non contenibili nella  mera istigazione, ma  sottraendo la prassi ai rischi di un vero e proprio terreno minato, quale diventava nell’esperienza concreta un panorama giurisprudenziale nient’affatto chiaro ed univoco e perciò affidabile.

Rispetto a queste cause di giustificazione speciali la scriminante prevista dall’ art. 51 c.p., fatta oggetto di esplicita riserva legale con la locuzione “fermo il disposto dell’art. 51 codice penale”, opera quindi in via residuale e sussidiaria ove, per qualche motivo, non risulti applicabile l’esimente speciale nel tentativo di rendere comunque più ampia l’area di intervento della polizia giudiziaria. Ed, in effetti, le numerose ipotesi di “attività sotto copertura” introdotte nel nostro ordinamento appaiono riconducibili alla scriminante indicata dall’art. 51 c.p. perché tutte prevedono un obbligo di agire per l’ufficiale di polizia giudiziaria derivante da un ordine legittimo della pubblica autorità, tuttavia, contengono elementi specializzanti diretti ad introdurre controlli e cautele per coloro che risultino “autorizzati” a commettere gravi reati e ad ampliare la sfera di operatività loro consentita. Gli elementi comuni a tali esimenti speciali possono riassumersi:

a) nella possibilità di applicare tali scriminanti soltanto a coloro che appartengono alle unità specializzate (l’eccezione era originariamente prevista solo nel caso della legge 15 dicembre 2001 n. 438 in materia di contrasto del terrorismo internazionale ove vi era la possibilità per l’ufficiale di P.G. di avvalersi di “interposta persona” : tale limite è stato oggi superato dall’art. 97 D.P.R. 309/90 come riformulato dalla legge 21 febbraio 2006 n. 49 che prevede la possibilità per l’ufficiale di P.G. di avvalersi di “ausiliari ed interposte persone”, nonché dall’art. 9  della legge 16 marzo 2006 n. 146, che ha abrogato, riformulandole, tutte le previsioni speciali di attività sotto copertura, introducendo in tutti casi la possibilità dell’ufficiale di p.g. di avvalersi di ausiliari e di persone interposte);

b) nella necessità che l’attività sotto copertura sia eseguita in esecuzione di operazioni disposte da particolari organismi di livello centrale o provinciale (ma d’intesa con i primi) preposti istituzionalmente al contrasto del fenomeno criminale che si intende reprimere al fine di impedire iniziative di carattere personale come tali fuori controllo possibile fonte di abusi o potenzialmente pericolose e comunque per garantire un efficace coordinamento tra le forze di polizia impegnate nell’azione di contrasto;

c) nella necessità che l’attività sotto copertura sia svolta al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti specificamente previsti dalle norme autorizzatrici;

d) nella necessità che tale attività venga svolta con il coinvolgimento dell’autorità giudiziaria sotto la forma della necessità dell’informazione preventiva o quantomeno dell’immediata comunicazione al P.M..

La prima esimente speciale per l’agente provocatore o infiltrato è stata introdotta proprio in materia di delitti concernenti le sostanze stupefacenti dall’ art. 25 legge 26 giugno 1990 n. 162 che ha interpolato gli artt. 84 bis e 84 ter alla legge 22 dicembre 1975 n. 685.  Tali norme costituivano il recepimento nel nostro ordinamento dell’art. 11 della convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico di stupefacenti approvata aVienna il 20 dicembre 1988 ratificata in Italia con legge 5 novembre 1990 n. 328. Immediatamente dopo, con l’approvazione del D.P.R. n. 309/1990 quelle norme sono diventate gli artt. 97 e 98 del citato D.P.R. che hanno disciplinato, oltre al ritardo o all’omissione degli atti di cattura, di arresto o di sequestro, per quanto specificamente ci occupa, la specifica ipotesi dell’acquisto simulato di droga.

Sempre alla tradizionale figura dell’agente provocatore fa riferimento l’art. 7 del D.L. 15 gennaio 1991 n. 8 convertito con modificazioni nella legge 15 marzo 1991 n. 82 (norma tuttora vigente) che prevede che quando è necessario acquisire rilevanti elementi probatori ovvero per la individuazione o cattura dei responsabili del delitto di sequestro a scopo di estorsione, il pubblico ministero può richiedere che venga autorizzata la disposizione di beni, denaro o altra utilità per l’esecuzione di operazioni controllate di pagamento del riscatto. Ai medesimi fini il PM può, con decreto motivato, ritardare l’esecuzione o disporre che sia ritardata l’esecuzione dei provvedimenti che applicano una misura cautelare, dell’arresto, del fermo dell’indiziato del delitto o del sequestro.

Norma analoga, anche se solo in parte, è stata introdotta dall’art. 10 del D.L. 31 dicembre 1991 n. 419 convertito con modificazioni nella legge 18 febbraio 1992 n. 172 successivamente interpolata dall’ art. 8 comma 2 della legge 7 marzo 1996 n. 108 e dall’art. 8 comma 1 della legge 11 agosto 2003 n. 228 recante misure contro la tratta di persone. Tale norma prevedeva (è stata infatti ora abrogata dall’art. 9 della legge 146 /2006) che quando è necessario per acquisire rilevanti elementi probatori ovvero per la individuazione o cattura dei responsabili dei delitti di cui agli artt. 600, 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600 quinques, 601, 602, 629, 644, 648 bis e 648 ter del c.p. e di cui all’art. 3 della legge 20 febbraio 1958 n. 75, il PM può, con decreto motivato, ritardare l’esecuzione dei provvedimenti che applicano una misura cautelare, dell’arresto, del fermo dell’indiziato del delitto o del sequestro. Per gli stessi motivi gli ufficiali di polizia giudiziaria possono omettere o ritardare gli atti di propria competenza, dandone immediato avviso, anche oralmente al pubblico ministero, competente per le indagini.

Più specificamente riferibile alla figura dell’agente provocatore appare la scriminante introdotta dall’art. 12 quater del D.L. 8 giugno 1992 n. 306 convertito con modificazioni nella legge 7 agosto 1992 n. 356 (anch’essa  abrogata  dall’art. 9 della legge 146 /2006)  che stabiliva, ferma l’applicabilità dell’art. 51 codice penale, la non punibilità degli ufficiali di polizia giudiziaria della D.I.A. o dei servizi centrali o interprovinciali delle forze di polizia (ora soppresso ad eccezione del R.O.S. Carabinieri) che, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti di cui agli artt. 648 bis e 648 ter c.p. procedono alla sostituzione di denaro, beni o altre utilità provenienti da taluno dei delitti indicati nei suddetti articoli o altrimenti procedono in modo da ostacolarne l’identificazione della provenienza ovvero in modo da consentirne l’impiego. Il secondo comma della disposizione in esame stabilisce che i medesimi soggetti non sono punibili quando, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine a delitti concernenti armi, munizioni od esplosivi, acquistano ricevono od occultano o comunque si intromettono nel far acquisire ricevere od occultare le armi, le munizioni o gli esplosivi. Delle operazioni è data immediata notizia alla autorità giudiziaria che, con decreto motivato, può differire il sequestro del denaro, dei beni o delle altre utilità, ovvero delle armi, delle munizioni o degli esplosivi fino alla conclusione delle indagini.

Ancora l’art. 14 della legge 3 agosto 1998 n. 269 – che detta norme contro lo sfruttamento della prostituzione, della pornografia, del turismo sessuale in danno di minori quali nuove forme di riduzione in schiavitù – prevedeva (il comma 4 è stato abrogato dall’art. 9 della legge 146 /2006) che gli ufficiali di P.G. delle strutture specializzate per la repressione dei delitti sessuali o per la tutela dei minori ovvero di quelle istituite per il contrasto dei delitti di criminalità organizzata, possono, nell’ambito di operazioni disposte dal questore o dal responsabile almeno provinciale dell’organismo di appartenenza, previa autorizzazione della autorità giudiziaria, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti di cui agli artt. 600 bis primo comma, 600 ter commi primo, secondo e terzo, e 600 quinques c.p., procedere all’acquisto simulato di materiale pornografico e alle relative attività di intermediazione nonché partecipare alle iniziative turistiche presumibilmente organizzate per lo sfruttamento sessuale minorile.  Inoltre l’organismo di polizia preposto svolge, su richiesta motivata dell’autorità giudiziaria le attività occorrenti per il contrasto dei medesimi delitti anche utilizzando indicazioni di copertura per attivare siti nelle reti di telecomunicazioni disponibili al pubblico, realizzare e gestire aree di comunicazione o scambio su reti o sistemi telematici ovvero per partecipare ad esse. Anche in tal caso l’autorità giudiziaria può, con decreto motivato ritardare l’emissione o disporre che sia ritardata l’esecuzione dei provvedimenti di cattura, arresto o sequestro quando sia necessario per acquisire elementi probatori ovvero per la individuazione o la cattura dei responsabili dei delitti di sfruttamento sessuale minorile sopra indicati.

Di particolare rilievo risulta altresì la previsione di una analoga causa di giustificazione in materia di terrorismo internazionale introdotta dal D.L. 18 ottobre 2001 n. 374 convertito nella legge 15 dicembre 2001 n. 438 che, all’art. 4  (abrogato dall’art. 9 della legge 146 /2006) stabiliva la non punibilità degli ufficiali di P.G. che, in esecuzione di specifiche operazioni di polizia, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti commessi per finalità di terrorismo, anche per interposta persona, acquistano, sostituiscono, ricevono od occultano denaro, armi, documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della provenienza o ne consentono l’impiego.  Gli ufficiali ed gli agenti di P.G. destinati al servizio possono utilizzare documenti, identità o indicazioni di copertura anche per attivare o entrare in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione, informandone il pubblico ministero.

Ancora con decreto legge 14 settembre 2004 n. 241 convertito nella legge 12 novembre 2004 n. 271 è stata estesa la scriminante introdotta dalla legge 11 agosto 2003 n. 228 sopra citata (e come detto oggi abrogata previa riformulazione) – contenente misure contro la tratta delle persone – ai delitti previsti dall’art. 12 comma 3 del D.lgs 25 luglio 1998 n. 286 che incriminano il favoreggiamento della immigrazione clandestina con finalità di profitto.

La ricognizione sommaria del quadro normativo sopra enucleato consente di ritenere che il legislatore ha fatto ricorso allo strumento dell’agente provocatore,  con normativa di settore, introdotta ogni qual volta abbia riconosciuto l’insufficienza dei metodi investigativi tradizionali rispetto alle aspettative collettive di repressione di fenomeni criminali difficili da scandagliare ed idonei a suscitare crescente allarme sociale.

Tale disorganica normativa è stata ricondotta ad unità con la recente legislazione ed in particolare con la riformulazione dell’art. 97 del T.U. in materia di stupefacenti, elaborata con D.L. 30 dicembre 2005 convertito in legge 21 Febbraio 2006 n. 49 e con la di poco successiva norma inserita all’art. 9 della legge 16 marzo 2006 n. 146, che ne ricalca (se pure con alcune differenze ad es. in tema di coinvolgimento dell’A.G.)  lo schema e la disciplina (le due norme recano infatti lo stesso titolo: attività sotto copertura) ampliando, l’ambito delle attività sotto copertura non punibili con una disciplina di valenza pressoché generale ed  applicabile a tutti quei settori criminali già interessati dalle specifiche previsioni  prima enunciate.

L’art. 9 della legge 16 marzo 2006 n. 146 prevede infatti una speciale causa di non punibilità per gli ufficiali di P.G. appartenenti alle strutture specializzate  o alla DIA, i quali, al solo fine di acquisire elementi di prova in ordine ai delitti previsti dagli artt. 648 bis e ter, dal titolo XII capo III Sez. I del libro II del c.p. (artt. 600, etc.), delitti concernenti  armi, munizioni ed esplosivi, delitti in materia di immigrazione clandestina, di prostituzione, nonché delitti commessi con finalità di terrorismo, anche per interposta persona, danno rifugio o comunque prestano assistenza agli associati, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano denaro, armi, documenti, stupefacenti, beni ovvero cose che sono oggetto, prodotto, profitto o mezzo per commettere il reato o altrimenti ostacolano l’individuazione della loro provenienza o ne consentono l’impiego. Tale ipotesi di non punibilità detta una nuova, più ampia e dettagliata disciplina che si applica in tutti quei settori ove il legislatore era intervenuto a partire dagli anni 90, con l’introduzione delle varie ipotesi di esimenti speciali prima elencate (ad eccezione di quella prevista dall’art 97 D.P.R. 309/90). Ed infatti tutte quelle norme sono state espressamente abrogate di modo che oggi la regolamentazione dell’attività sotto copertura, quale che sia il settore di criminalità ove si intende ed è consentito intervenire (ossia quelle indicate nell’ art. 9 della legge 16 marzo 2006 n. 146 e nell’art. 97 T.U. stupefacenti quale riformulato con l. 49/2006), risponde ad un modello sostanzialmente unitario, ove più ampie sono le facoltà e gli strumenti affidati alle forze di polizia.

L’art. 97 nella nuova formulazione è stato rubricato “attività sotto copertura” laddove la vecchia norma risultava titolata “acquisto simulato di droga”. Si è inteso, infatti, in primo luogo ampliare il novero delle condotte sussumibili nella scriminante e quindi l’ambito di operatività della stessa allo scopo di dare maggiore sicurezza agli operatori di polizia e di risolvere alcune questioni che si erano poste nella vigenza della vecchia disciplina in ordine alla attività prodromiche o strumentali al vero e proprio acquisto simulato. La norma, infatti, ora prevede la non punibilità degli ufficiali di P.G.  addetti alle apposite unità specializzate antidroga i quali, in esecuzione di operazioni antidroga specificamente disposte dalla Direzione centrale per i servizi antidroga o, sempre d’intesa con questa, dal questore, dal comandante provinciale dei Carabinieri o della Guardia di Finanza o dal comandante del nucleo di polizia tributaria o dal direttore della Direzione investigativa antimafia, al solo fine di acquisire elementi in ordine ai delitti concernenti sostanze stupefacenti, anche per interposta persona, acquistano, ricevono, sostituiscono od occultano sostanze stupefacenti o psicotrope o compiono attività prodromiche o strumentali. Le principali innovazioni rispetto alla disciplina previgente pertanto sono:

a) il novero delle condotte ricomprese nella esimente che prima consistevano nel solo acquisto simulato dello stupefacente mentre ora risulteranno non punibili anche condotte di occultamento, sostituzione, ricezione, o attività a queste prodromiche e strumentali;

b) la possibilità per agenti ed ufficiali di p.g. di utilizzare documenti, identità o indicazioni di copertura anche per attivare o entrare in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione;

c) la possibilità di avvalersi di ausiliari e di “persone interposte”;

d) il più rilevante ruolo assunto dalla Direzione centrale per i servizi antidroga il cui assenso è richiesto “sempre”;

Tali innovazioni paiono quindi idonee a risolvere i principali inconvenienti che aveva posto la vecchia normativa, cioè la punibilità delle condotte compiute dall’agente quale inevitabile mezzo per pervenire all’acquisto dello stupefacente ed anche la possibilità di utilizzare documenti di identità di copertura e l’impossibilità di avvalersi di persone estranee alle forze di polizia.

All’ampliamento della causa di giustificazione in esame diretto a ricomprendere le condotte accessorie e strumentali si era pervenuti anche in via interpretativa dalla giurisprudenza che aveva affermato la non punibilità delle condotte che necessariamente precedono o seguono il vero e proprio acquisto dello stupefacente e che, logicamente, debbono ritenersi in essa contemplati seppur in via implicita. In proposito la Suprema Corte, nel 1998, ha stabilito che deve estendersi l’impunità non solo alla attività materiale dell’acquisto simulato della sostanza stupefacente, ma anche a quelle attività che costituiscono l’antecedente logico o l’ovvio sviluppo dell’azione dell’infiltrato. Si sono quindi riscontrati nella pratica casi in cui l’operazione sotto copertura, dopo l’acquisto simulato dello stupefacente, debba proseguire per soddisfare altre rilevanti esigenze investigative, in particolare la necessità di identificare altri componenti dell’organismo criminale o individuare il luogo ove risulti occultato altro stupefacente da sottoporre sequestro o la necessità di allontanare l’infiltrato dal luogo dell’operazione per ragioni di incolumità personale.  Ove con l’acquisto simulato, che pure rappresenta il momento culminante dell’infiltrazione nell’illecito traffico, l’attività investigativa dovesse arrestarsi, verrebbe perduta l’occasione di più cospicui risultati.  La codificazione normativa di tale indirizzo tiene quindi conto di questa realtà e comunque è importante perché arreca tranquillità agli operatori di polizia ed impedisce pronunce giurisprudenziali difformi. Nel caso si superino i limiti della esimente speciale possono ovviamente ricorrere i presupposti per ritenere applicabile la scriminante prevista dall’art 51 c.p. o lo stato di necessità previsto dall’art. 54 c.p.  .

Altra novità di rilievo riguarda la possibilità di avvalersi di “persona interposta” con notevole ampliamento della portata della scriminante dal punto di vista soggettivo.  In effetti, tale locuzione viene usata al comma primo dell’art. 97 come soggetto legittimato a porre in essere direttamente le condotte ivi previste laddove al comma quarto si prevede che gli ufficiali di polizia giudiziaria possono avvalersi di ausiliari ed interposte persone ai quali si estende pure la causa di non punibilità.  A differenza dell’ausiliario quindi la persona interposta, può procedere anche all’acquisto, all’occultamento o alla sostituzione dello stupefacente negli stessi termini nei quali tali attività possono essere compiute dall’ufficiale di P.G.. Per tale ragione il comma 3 dell’art. 97 prevede che soltanto le operazioni di cui al comma 1 debbano essere comunicate immediatamente e dettagliatamente alla Direzione centrale per i servizi antidroga ed all’autorità giudiziaria con indicazione eventuale anche dei nominativi degli ufficiali o delle persone interposte e non già le attività previste dal comma 4 attribuibili anche agli ausiliari oltre che a persone interposte che si sostanziano in attività di collaborazione materiale e di supporto delle forze dell’ordine. La differenza, risulta immediatamente percepibile tra le attività che si sostanziano nella commissione di reati e che pertanto richiedono maggiori controlli e cautele e condotte “ausiliarie” che invece di quei controlli non necessitano. Ma la nozione di interposta persona consente ora di attribuire anche agli agenti di P.G. la possibilità di procedere alle operazioni indicate al comma 1 laddove nella vecchia disciplina tale possibilità era da escludersi e gli agenti potevano invocare soltanto la scriminante prevista dall’art. 51 c.p. con i limiti per essa previsti dalla giurisprudenza.

Altra possibilità è ovviamente quella di incaricare un “privato”, spesso un collaboratore dissociato già facente parte dell’organismo da infiltrare che, per relazioni e conoscenze, può essere in grado di portare efficacemente a termine una operazione di acquisto simulato. Anche tale facoltà era da escludere sotto il vigore della preesistente formulazione dell’art. 97, sotto la cui vigenza l’attività del privato, per lo più confidente della polizia, che agiva quale agente provocatore era scriminata dall’art. 51 solo ove il suo intervento si risolvesse in attività di controllo, osservazione e contenimento della condotta criminosa altrui. L’ampliamento dal punto di vista soggettivo introdotto nella nuova formulazione dell’art. 97 induce a ritenere che la scriminante speciale possa ritenersi applicabile anche all’ufficiale di P.G. non appartenente alle unità specializzate indicate nel comma 1 anche se deve ritenersi che il necessario intervento della DCSA escluda in radice tale possibilità. L’intervento di tale organo è infatti previsto come necessario in ogni caso sia per impedire iniziative illecite, per ragioni di coordinamento tra le forze di polizia e per tutelare efficacemente l’incolumità degli agenti infiltrati. Ove tale intervento manchi l’operazione deve considerarsi illecita e pertanto non può invocarsi l’esimente speciale prevista dall’art 97 potendo tuttavia ritenersi applicabile la scriminante comune prevista dall’art 51 c.p..

Le medesime innovazioni introdotte con la L. 49/2006 sono state estese dall’art. 9 della legge 16 marzo 2006 n. 146, con i necessari adattamenti, a tutte le altre ipotesi di attività sotto copertura consentite nel nostro ordinamento. Ed infatti la norma citata ha introdotto:

a) una elencazione specifica delle condotte ricomprese nella esimente, prima specie in alcuni settori, di portata ben più limitata;

b) la possibilità per agenti ed ufficiali di p.g. di utilizzare documenti, identità o indicazioni di copertura anche per attivare o entrare in contatto con soggetti e siti nelle reti di comunicazione;

c) la possibilità di avvalersi di ausiliari e di “persone interposte”;

d) il più rilevante ruolo assunto dagli organi investigativi centrali;

In entrambe le norme è prevista la possibilità per l’esecuzione delle operazioni sotto copertura di essere autorizzati all’utilizzazione di beni mobili ed immobili, di documenti di copertura e la possibilità di attivare siti nelle reti e di utilizzare sistemi di comunicazione o scambio su sistemi informatici (tale facoltà, pur non esplicitamente prevista dall’art. 97 a differenza  dell’art. 9, deve ritenersi consentita anche in materia di lotta al traffico degli stupefacenti, attesa la previsione  nel comma 2 dell’art.97 della possibile utilizzazione di  identità di copertura proprio per attivare o entrare in contatto  con soggetti e siti  nelle reti di comunicazione).

Parzialmente diverso è il ruolo assunto dall’A.G.: ove l’attività sotto copertura sia disposta nell’ambito della lotta al traffico degli stupefacenti è necessario dare al P.M. dettagliata ed immediata informativa dell’esecuzione delle operazioni, indicando solo se necessario o richiesto, il nominativo dell’ufficiale di p.g. responsabile delle operazioni nonché il nominativo delle persone interposte impiegate; ove l’attività sia svolta nell’ambito delle operazioni anticrimine indicate al comma 1 dell’art. 9  della legge 146/06 è invece necessaria la preventiva comunicazione al P.M. al quale è dovuta costante e tempestiva informazione  nel corso dell’operazione delle modalità della stessa, dei soggetti che vi partecipano e degli esiti raggiunti.

Come appare evidente dalla lettura delle norme che oggi disciplinano l’attività sotto copertura, la legislazione italiana in materia, a differenza dei corrispondenti modelli stranieri, è ispirata essenzialmente alla finalità di stabilire limiti e condizioni di non punibilità delle condotte dell’agente provocatore ed è dunque tutta proiettata sul piano del diritto sostanziale, laddove scarsa è l’attenzione verso le implicazioni di diritto processuale di quell’agire provocatorio: la sorte  processuale degli atti di indagine compiuti, soggiace interamente alle regole generali la cui enucleazione è tuttavia controversa e non sempre agevole e numerosi sono i problemi sorti nella pratica applicazione di tali istituti.

In primo luogo è controverso se l’agente provocatore possa essere sentito in dibattimento come testimone – ed in tale ultimo caso se possa rendere testimonianza sulle dichiarazioni ricevute dagli indagati nel corso dell’attività sotto copertura – o come indagato (o imputato) in procedimento connesso.

La questione risente sul piano teorico del complesso dibattito intorno alla qualificazione giuridica delle previsioni normative in tema di non punibilità dell’agente provocatore, poiché, ove si escludesse trattarsi di vere e proprie cause di giustificazione, ricorrendo piuttosto cause di non punibilità, diverrebbe doverosa  l’iscrizione del nominativo dell’agente sotto copertura nel registro degli indagati – sia pure al solo fine della successiva archiviazione – il che precluderebbe definitivamente la futura assunzione della qualità di testimone.

Tuttavia la giurisprudenza della Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sotto il vigore della vecchia normativa, appare prevalentemente orientata con argomentazioni tuttora condivisibili, nel senso di ritenere le fattispecie di cui all’art. 97, quali speciali cause di giustificazione, idonee come tali ad escludere l’antigiuridicità del fatto  e dunque ad impedire che l’ufficiale di P.G. possa assumere la veste di indagato: egli dovrà dunque essere sentito come testimone e alle sue dichiarazioni non sarà applicabile il divieto di cui all’art. 63 c.p.p. Appare comunque preferibile ricorrere a forme di documentazione obiettiva degli accadimenti di cui l’agente sotto copertura diviene protagonista attraverso la registrazione e/o video ripresa delle conversazioni alle quali il provocatore partecipa.

Si è posto al riguardo il problema della configurabilità, in tali casi, del limite di cui all’art. 62 c.p.p. (divieto di testimonianza sulle dichiarazioni comunque rese dall’imputato nel corso del procedimento).

La Cassazione, nel Luglio del 1997, ha stabilito che “le dichiarazioni rese all’agente di p.g. che funge da simulato acquirente di stupefacenti nella veste d’agente provocatore, devono essere collocate all’interno del procedimento, poiché il venditore deve considerarsi di fatto indagato non appena si stabilisce il contatto con l’apparente acquirente. Tuttavia in tale caso non si applica il divieto di testimonianza previsto dall’art. 62 poiché il divieto concerne solo le dichiarazioni rappresentative di precedenti fatti e non anche gli atteggiamenti e le dichiarazioni che accompagnano quei comportamenti chiarendone il significato, ovvero le dichiarazioni programmatiche di future condotte”. Non ricorre il limite del secondo comma dell’art. 63 poiché “non si tratta di dichiarazioni rese nel corso di un esame o di assunzione di informazioni in senso proprio e tali dichiarazioni non costituiscono la rappresentazione di eventi già accaduti la descrizione di condotta delittuosa precedente, ma inserendosi invece in un contesto commissivo, realizzano con esse la stessa condotta materiale del reato”.

Ulteriore questione fortemente controversa in giurisprudenza riguarda le conseguenze dell’inosservanza delle procedure dell’art. 97 sulla utilizzabilità delle prove acquisite.

La Cassazione, in una pronuncia del 1995 ha escluso che si traduca automaticamente in incapacità a testimoniare e conseguentemente nella inutilizzabilità delle prove raccolte, salva chiaramente la responsabilità sul piano disciplinare dell’agente (e salvo che per effetto di quell’inosservanza l’operatore di polizia sia stato sottoposto ad indagini). Di diverso orientamento alcune recenti pronunce della Suprema Corte che hanno escluso l’utilizzabilità delle prove raccolte nel corso di attività sotto copertura svolta in assenza dei requisiti di legge, ritenendo che l’attività posta in essere  dal c.d. agente provocatore non può reputarsi semplicemente irregolare  o illegittima ma, non operando l’esimente speciale della quale difettano i presupposti, deve essere considerata illecita e, conseguentemente l’inutilizzabilità delle prove così acquisite è diretta applicazione della norma di cui all’art. 191 c.p.p..

In ogni caso l’attivazione di operazioni undercover in assenza dei requisiti normativi porrebbe seri dubbi sull’applicabilità della scriminante speciale con conseguente responsabilità penale dell’infiltrato: a sua disposizione resterebbe solo il salvagente dell’art. 51 c.p. negli angusti limiti in cui ne è consentita l’operatività.

Sempre in tema di limiti di utilizzabilità degli elementi probatori acquisiti si è verificato un contrasto giurisprudenziale con riferimento alla ipotesi di acquisizione di prove in ordine a reati diversi rispetto a quelli per i quali era intervenuta l’autorizzazione a compiere l’attività sotto copertura. Con sentenza n. 17662/2005, la Cassazione ha affermato che ‹‹la legittimità e liceità dell’attività di contrasto sotto copertura deve essere valutata ex ante in relazione al momento in cui tale attività è disposta dall’autorità giudiziaria e non con riguardo ai risultati delle indagini compiute. Pertanto se nel momento in cui è intervenuta l’autorizzazione esistevano indizi per uno dei reati per i quali è prevista l’eccezionale attività di indagine, le prove acquisite sono legittime ed utilizzabili ex art. 191 c.p.p. anche se riguardano reati diversi e meno gravi di quelli originariamente ipotizzati››.

Ma su caso analogo la Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi in senso difforme. Secondo questo indirizzo restrittivo la sanzione della inutilizzabilità colpirebbe tutte le prove illegittimamente acquisite e tali debbono considerarsi sia quelle che riguardano reati per i quali non vi era stata specifica autorizzazione ex ante sia nel caso della diversa qualificazione delle fattispecie all’esito del dibattimento con conseguente derubricazione, sia nel caso ricorra un qualunque vizio che inficia l’iter acquisitivo del mezzo di prova.

Tale orientamento restrittivo appare viziato da un eccesso di formalismo che si risolve a discapito della coerenza logica delle conclusioni che divengono paradossali, poiché la legittimità delle attività investigative finirebbe per essere ancorata all’effettiva sussistenza dei reati presupposti, circostanza che solo una sentenza di condanna potrebbe certificare.

Deve inoltre rilevarsi che le esimenti speciali operano su un piano di diritto sostanziale e l’inosservanza delle regole e dei limiti che le disciplinano – sia sotto il profilo dell’inosservanza dell’iter previsto dalle norme, sia sotto quello della non configurabilità, ex ante o ex post dei reati indicati dalle norme stesse – può al più operare nel senso di rendere sanzionabile la condotta dell’agente provocatore sul piano del diritto penale sostanziale,  ossia impedire l’efficacia scriminante della norma i cui limiti sono stati violati, con la conseguenza, sul piano processuale, che la deposizione resa dall’infiltrato a sua volta indagato o imputato nel medesimo reato o in reato connesso, dovrà essere assunta e valutata secondo la disciplina degli artt. 197 bis e 210 c.p.p. (salva comunque la validità del sequestro del corpo del reato o di cose ad esso pertinenti eventualmente disposto).

Far necessariamente conseguire, come vuole la giurisprudenza più rigorosa sopra citata, l’inutilizzabilità in sede cautelare o processuale delle prove acquisite ad una qualsiasi inosservanza, anche solo formale (quale può essere la diversa qualificazione del fatto- reato all’esito del compimento delle indagini), appare una illogica sovrapposizione di profili che si ritiene debbano essere mantenuti separati e distinti

Rimane tuttavia un forte contrasto giurisprudenziale che, nel vuoto normativo rischia di porre nel nulla le risultanze di complesse e dispendiose attività investigative.

 Ad ogni modo si deve osservare come il legislatore a partire dal 2003 e soprattutto con l’art. 9 della legge 146/2006 ha operato una sistematica estensione dei reati tipici nei quali è consentito lo svolgimento di attività sotto copertura in modo da attribuire una maggiore portata operativa alle attività medesime.

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