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SIMULABILITA’ ED INVALIDITA’ DELL’ACCORDO DI SEPARAZIONE CONSENSUALE.

SIMULABILITA’ ED INVALIDITA’ DELL’ACCORDO DI SEPARAZIONE CONSENSUALE.

di Carmen Oliva pubblicato il 13.04.2017

L’autonomia dei coniugi in occasione della crisi coniugale che si manifesta attraverso una variegata costellazione di accordi destinati a regolare l’assetto delle reciproche relazioni personali e patrimoniali, ha sollevato il forte timore di simulazioni e frodi in danno, tanto della sacralità dell’unione matrimoniale e dei principi di ordine pubblico, che delle legittime pretese dei creditori.

 In alcuni casi, questi accordi perseguono scopi tutt’altro che compositivi della crisi matrimoniale, essendo finalizzati esclusivamente ad un risparmio d’imposta o ad un’elusione del credito, le quali determinano delle situazioni patologiche su cui occorrerà concentrare l’attenzione.

D’altro canto, come è noto l’accordo di separazione consensuale presenta molteplici vantaggi: da un lato, pur sciogliendo la comunione legale, non compromette i diritti ereditari e non penalizza le prospettive pensionistiche; dall’altro, costituisce il contesto ideale per l’effettuazione di atti traslativi di diritti su beni mobili ed immobili o crediti, assistiti da condizioni fiscali particolarmente favorevoli.

Prima di affrontare la problematica della simulabilità ed invalidità dell’accordo di separazione consensuale con un approccio attento alla casistica giurisprudenziale, occorrerà analizzare una questione principale, ad essa strettamente legata, ossia quella della natura del negozio che si pone alla base della simulazione/invalidità, perché è da tale natura  che si deduce l’esperibilità ( o meno) delle relative azioni.

In ordine alla natura degli accordi di separazione, l’orientamento dottrinario e giurisprudenziale prevalente è giunto a delle conclusioni favorevoli al pieno riconoscimento del carattere negoziale delle intese raggiunte dai coniugi durante la crisi coniugale. Da tale qualificazione ne consegue quindi l’applicabilità della normativa contrattuale, a partire dal principio-cardine di cui all’art 1322 c.c., tanto al negozio di separazione personale, che a quello di divorzio su domanda congiunta, che a quelle intese particolari di carattere patrimoniale concluse in sede ( o anche solo in occasione) della separazione o del divorzio ( c.d. contratti della crisi coniugale). Il richiamo alle regole dell’autonomia privata, anche nel campo dei rapporti patrimoniali tra i coniugi, costituisce ormai un dato accettato, sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, la quale con riferimenti, impliciti o espliciti, al principio di libertà contrattuale  ha punteggiato tutta la complessa vicenda  dei trasferimenti immobiliari e mobiliari in sede di separazione personale tra i coniugi. Per quanto attiene, più specificamente, le intese costituenti il contenuto dell’accordo di separazione consensuale non sembra esservi dubbio sulla natura non solo negoziale di questi atti, bensì addirittura sul relativo carattere contrattuale, quando gli stessi abbiano ad oggetto prestazioni di tipo patrimoniale.

Si rileva come in questo ambito l’art. 1322 c.c. abbia ricevuto concreta applicazione in un’innumerevole serie di casi che hanno portato, in nome del principio dell’autonomia privata, ad una vera e propria dilatazione dell’usuale contenuto dell’accordo di separazione. Per la Corte di Cassazione,infatti,i rapporti patrimoniali tra i coniugi separati hanno rilevanza solo per le parti, non essendovi coinvolto alcun pubblico interesse, per cui essi sono pienamente disponibili e rientrano nella loro autonomia privata(Cass. 6426/1987).

Il lungo percorso dei giudici è culminato, infine, in una nota decisione nella quale la Corte di Cassazione ha ribadito la legittimità dei trasferimenti operati con efficacia reale nello stesso accordo di separazione, riconoscendo al relativo verbale la natura di atto pubblico idoneo alla trascrizione nei registri immobiliari. Anche sul versante dottrinale, molti autori si sono mostrati, negli ultimi anni, favorevoli all’espansione della negozialità degli aspetti patrimoniali della crisi coniugale, facendo riferimento ad una causa tipica, definita “familiare”, giustificativa dei negozi in oggetto.

Una volta ribadita la natura negoziale degli accordi di separazione consensuale e di divorzio su domanda congiunta, va però constatato che l’applicabilità di alcuni classici rimedi negoziali a siffatte intese- e più esattamente, la possibilità di impugnare queste ultime per incapacità naturale, vizi del consenso e simulazione- trova ancora qualche ostacolo nella giurisprudenza di merito così come in dottrina.

In effetti, le opinioni contrarie all’ammissibilità dei rimedi negoziali poggiano sostanzialmente su un unico argomento “forte”: vale a dire la supposta inconciliabilità di detti rimedi, che presuppongono la non integrità ( o inesistenza) del consensus contrahentium, con  la circostanza che questo sia manifestato dinanzi al Presidente del Tribunale, quasi che la sacralità del contesto in cui l’intento negoziale si esprime potesse fornire un’assoluta certezza circa la genuinità dello stesso e/o l’assenza di vizi di sorta.

In materia di simulazione e di vizi del consenso non fanno difetto pronunzie di merito che considerano d’ostacolo all’applicazione della disciplina contrattuale la presenza, al momento dello scambio dei consensi, del presidente del tribunale, enfatizzandone in maniera del tutto ingiustificata il significato e l’incidenza.

Riguardo al tema della capacità naturale delle parti,  possiamo citare due pronunce di merito contenenti conclusioni diametralmente opposte. Con la prima delle due decisioni ,il tribunale di Napoli  ha negato l’applicabilità dell’annullamento previsto dall’art. 428 c.c. all’accordo di separazione consensuale, in considerazione della «attiva partecipazione» del presidente all’accordo dei coniugi sulle condizioni della separazione. In senso opposto è invece successivamente andata la Corte d’appello di Milano, che ha affermato, in linea generale, l’applicabilità all’accordo di separazione consensuale dell’azione di annullamento ex art. 428 c.c. per incapacità naturale di una delle parti, argomentando dalla natura di negozio familiare della separazione consensuale, cui sono applicabili solo quelle norme del contratto che esprimono principi generali del negozio giuridico, quali, appunto, quelle in tema di vizi del consenso e di capacità dei soggetti.

Svolgendo qualche osservazione sulla tesi di chi nega l’impugnabilità del negozio di separazione per simulazione, vizi del consenso o incapacità naturale, fondando le proprie argomentazioni sul ruolo del presidente del tribunale in sede di udienza ex art. 708 c.p.c., va tuttavia osservato che gli adempimenti svolti da quest’ultimo (o dal collegio, se si tratta di divorzio su domanda congiunta), non dissimilmente da quelli prescritti al notaio rogante, non appaiono di per sé in grado di escludere a priori (esattamente come avviene per un rogito notarile) che la volontà dei contraenti possa essere in qualche modo viziata. Si pensi all’ipotesi paradigmatica della violenza morale, così come a quella della presenza di una situazione di incapacità naturale non manifesta, oppure a quella della simulazione, ove nessun segno esteriore può ingenerare il sospetto che la volontà dei paciscenti sia, in realtà, inesistente .

Voler attribuire a tutti i costi al presidente l’improprio ruolo di «garante» dell’esistenza e della genuinità del consenso delle parti significa presupporre una norma che non esiste nel nostro ordinamento : una norma, anzi, che, se esistesse, dovrebbe essere dichiarata incostituzionale per contrasto con l’art. 24 Cost., per il fatto di inibire al soggetto altrimenti legittimato il diritto di far valere in giudizio l’invalidità dell’accordo .

Questa posizione rinviene – proprio con specifico riguardo alla simulazione – dei precedenti, nella giurisprudenza di legittimità, che, come vedremo, ha ammesso (ancorché in astratto,) la simulazione «della procedura» di separazione.

L’indirizzo favorevole all’impugnabilità per simulazione dell’accordo di separazione consensuale, viene sostanzialmente confermato da una decisione della Corte di Cassazione del 2001  ( Cass. N. 3149/2001).

In particolare, nel caso posto al vaglio della Suprema Corte non ci si trovava di fronte ad una simulazione della separazione in quanto tale, bensì ad una simulazione di un accordo inserito nel più ampio contesto delle condizioni concordate ex art. 158 c.c. ed omologate dal tribunale. Da un punto di vista teorico, però, i due profili – quello, cioè, della simulazione della separazione e quello della simulazione nella separazione– investono comunque la medesima serie di questioni, tutte imperniate sulla astratta configurabilità di un procedimento simulatorio  in relazione ad atti per il perfezionamento dei quali è previsto un intervento giurisdizionale.

Per ciò che attiene ai fatti di causa, le parti avevano convenuto, in sede di separazione consensuale ( tra le altre cose) l’ affidamento alla moglie del figlio minore, L’ assegnazione della casa coniugale al marito e l’ erogazione di un assegno di mantenimento per la moglie ed il figlio a carico del marito.   Successivamente, la moglie aveva convenuto in giudizio il marito con procedura ex art. 710 c.p.c., facendo valere l’invalidità dell’intesa, sia per via di un’asserita situazione di violenza morale, che per effetto di una pretesa simulazione dell’accordo omologato, per ciò che atteneva il diritto del marito di permanere nella casa coniugale. Sulla base di queste premesse la moglie aveva chiesto la modifica delle condizioni della separazione, ma il tribunale aveva rigettato la domanda, in quanto in essa non erano stati dedotti mutamenti della situazione dei coniugi, ma circostanze non deducibili con la procedura attivata, consistenti nell’allegata esistenza di accordi diversi da quelli sottoscritti in sede di separazione consensuale.  La moglie aveva allora proposto reclamo contro il provvedimento di prime cure, deducendo che il mutamento della situazione doveva essere ravvisato nella scoperta del «programma espoliativo» posto in essere dal marito, che l’aveva a tal fine indotta ad accettare le suddette condizioni di separazione, assicurandole la permanenza nella casa coniugale con il figlio, la vendita di essa con la divisione del prezzo e il pagamento dell’assegno pattuito, mentre poi aveva preteso la consegna della casa e aveva smesso di pagare l’assegno. La corte d’appello aveva però confermato la decisione di primo grado, osservando che il thema decidendum introdotto riguardava la simulazione dell’atto di separazione e non la sua modifica, cosicché la domanda non poteva essere proposta con la procedura adottata, nella quale non poteva essere accertato neppure un eventuale vizio del consenso.

La Cassazione, nella sentenza predetta, conferma tale impostazione, riconoscendo, senza esitazioni, quanto meno in linea di principio, l’ammissibilità nei confronti dell’accordo di separazione consensuale dei classici rimedi negoziali, da esperirsi attraverso un’azione ordinaria e non già con il procedimento ex art. 710 c.p.c. Tramite quest’ultima procedura, secondo i Supremi Giudici, può farsi valere unicamente – giusta il disposto dell’art. 156, settimo comma, c.c., applicabile analogicamente alla separazione consensuale – la «sopravvenienza di fatti nuovi, che abbiano alterato la situazione preesistente, mutando i presupposti in base ai quali il giudice o le parti avevano stabilito le condizioni della separazione». La decisione in commento conferma inoltre il giudizio espresso dalla corte d’appello, secondo cui «la contestualità di diversi accordi verbali, coevi a quelli scritti ed omologati, non integra modifica di questi ultimi, ma simulazione dell’atto omologato».

 Riassumendo il decisum della pronunzia suddetta, si potrà affermare che, secondo la decisione emessa dalla Cassazione nel 2001, simulazione e vizi del consenso sono astrattamente configurabili nei confronti di un accordo di separazione consensuale omologato e possono essere fatti valere solo tramite un giudizio ordinario ( e non un giudizio camerale ex artt710 e 711 c.p.c.). Ai fini dell’esperibilità dell’azione ordinaria, inoltre, non è necessario agire sul decreto di omologazione, chiedendone la modifica o la revoca  (posto che nessun riferimento viene fatto, nella pronunzia in esame, al rimedio ex art. 742 c.p.c.). In particolare,  per ciò che attiene più specificamente all’ipotesi della simulazione, il rapporto tra intese a latere (eventualmente anche solo verbali) coeve all’accordo scritto ed omologato e quest’ultimo si pone esattamente come si potrebbe porre in relazione a qualsiasi contratto di cui si alleghi la nullità per simulazione.

Quanto illustrato solleva immediatamente il problema del rapporto tra la decisione di legittimità del 2001 e quella nota giurisprudenza (sempre di legittimità) secondo cui, per ciò che attiene alle intese coeve o precedenti alla separazione consensuale omolo­gata, la libertà negoziale dei coniugi incon­trerebbe un limite nel principio di «non interferenza» con quanto stabilito nell’accordo omologa­to, a meno che gli accordi non omologati si trovino in posizione di conclamata e incontestabile maggior rispondenza rispetto all’interesse tutelato (come, ad esempio per l’assegno di mantenimento concordato in misura superiore a quella sottoposta ad omologazione). La decisione del 2001 sembra però imporre una decisa sterzata in favore dell’opinione secondo cui tra intese omologate ed intese coeve segrete non può porsi altro rapporto se non quello normalmente sussistente tra due negozi conclusi contestualmente sul medesimo oggetto e con pattuizioni tra di esse divergenti.

In effetti, dottrina e giurisprudenza, prima degli ultimi interventi della Cassazione, avevano assai raramente distinto i patti successivi da quelli anteriori o coevi alla separazione, preferendo invece parlare in generale di accordi non omologati e manifestando comunque, nella maggior parte dei casi, perplessità in ordine alla validità dei medesimi .

Con due pronunce del 1993 e del 1994 e con alcuni giudicati successivi la Suprema Corte è venuta invece a porre una distinzione piuttosto netta tra accordi conclusi posteriormente rispetto alle intese omologate, validi a prescindere dalla loro omologazione (peraltro non prevista da alcuna norma), da un lato, e quelli anteriori o coevi, dall’altro. Questi ultimi sarebbero validi, come si è appena visto, solo se in posizione di «non interferenza» rispetto all’accordo omologato (perché concernenti un aspetto non disciplinato nell’accordo formale, oppure perché aventi un carattere meramente specificativo di disciplina secondaria), ovvero in posizione di conclamata e incontestabile maggior rispondenza rispetto all’interesse tutelato.

Le decisioni di legittimità appena citate sono venute sostanzialmente a riprendere un indirizzo già maturato in seno alla giurisprudenza di merito  fondante la distinzione tra gli accordi non omologati sul carattere temporale degli stessi. Tale distinzione ha però suscitato numerose perplessità. Certo, è verissimo che, in base al dettato normativo, l’unica distinzione prospettabile in ordine agli accordi non omologati è quella tra accordi relativi alla situazione dei figli ed accordi che esauriscono la loro portata nei riguardi dei coniugi, perché è diverso il grado di autonomia privata riconosciuto alle parti nelle due ipotesi. Ma è altrettanto vero che tutte queste manifestazioni d’autonomia, che si concretano in accordi non sottoposti al vaglio dell’omologa, non possono sempre essere trattate allo stesso modo.

Un esempio lampante è costituito proprio dal fatto che i patti coevi alla separazione consensuale possono porre, rispetto alle intese omologate, un problema di simulazione, impensabile con riferimento agli altri. D’altro canto, un accordo precedente alla separazione ed incompatibile con le clausole di quest’ultima ben può intendersi (salva, ovviamente, la necessaria opera di interpretazione ex artt. 1362 ss. c.c.) come non più operante per sopravvenuta abrogazione.

Ciò che lascia perplessi, con riguardo alla ricostruzione operata dalla Corte Suprema nelle sentenze appena citate ( le pronunce del 1993 e 1994) , è  che nel caso di accordi precedenti o coevi, l’intesa delle parti abbia valore a condizione che essa sia «in posizione di conclamata e incontestabile maggior rispondenza rispetto all’interesse tutelato».

Secondo taluno la soluzione sarebbe dettata dalla preoccupazione di non privare l’istituto della omologazione di ogni senso compiuto. Ma è anche vero che  le condizioni della separazione – come elemento accessorio del contenuto del negozio di separazione in senso ampio  – possono, ma non debbono necessariamente risultare dal verbale; lo stesso vale poi per tutte le condizioni di un’eventuale separazione di fatto che, per definizione, prescinde dall’omologa.

La condizione di «conclamata e incontestabile maggior rispondenza rispetto all’interesse tutelato», è un requisito che, oltre a non trovare un appiglio normativo nell’ambito della disciplina in esame, contrasta con quegli stessi principi negoziali in cui la Cassazione ha voluto collocare i rapporti tra coniugi in crisi. Principi che vogliono – quanto meno per ragioni di coerenza – che tra due accordi tra le stesse parti e sul medesimo oggetto il secondo in ordine temporale revochi il primo, se con esso incompatibile, mentre, nel caso di contemporaneità (salve, come già detto, le possibili questioni concernenti l’interpretazione dell’intesa), si possa porre un problema di simulazione delle condizioni accedenti all’accordo di separazione sottoposto ad omologa.

Nel 2003 la Cassazione torna, invero, sul tema della simulazione della separazione consensuale dei coniugi . Qui la Corte, dopo essersi a lungo soffermata sui principi-cardine della sua ormai risalente giurisprudenza in materia di negozialità tra coniugi in crisi, conclude negando nella maniera più recisa la possibilità per i coniugi di far valere la nullità dell’accordo di separazione consensuale per simulazione.

Secondo i Supremi Giudici, non sarebbe possibile invocare, in senso favorevole al riconoscimento della possibilità di impugnare per simulazione una separazione consensuale, il precedente di cui alla citata sentenza n. 3149 del 2001. Pur ammettendo che quest’ultima – relativamente ad un giudizio di revisione delle condizioni della separazione – ha, sì, affermato che «che ogni questione relativa alla simulazione dell’accordo posto a base della separazione (…) doveva essere prospettata in apposita sede», la Cassazione viene ad affermare nel suo secondo arresto sul tema che l’espresso richiamo operato nel 2001 alla possibilità per la parte di far valere la simulazione mediante ricorso ad un procedimento contenzioso ordinario sarebbe stato effettuato «con espressione certamente non assunta a ratio decidendi» .

Ora, se è vero che, coma già chiarito, la sentenza del 2001, n. 3149, riguardava non già la simulazione della separazione in quanto tale, bensì la asserita simulazione di un accordo inserito nel più ampio contesto delle condizioni concordate ex art. 158 c.c. ed omologate dal tribunale, è però del tutto evidente che i due profili  (quello, cioè, della simulazione della separazione e quello della simulazione nella separazione) investono comunque la medesima serie di questioni, tutte imperniate sul tema della configurabilità, in astratto, di un procedimento simulatorio in relazione a negozi per il perfezionamento dei quali è previsto un intervento giurisdizionale.  La Cassazione, nella sentenza n. 3149/2001, aveva riconosciuto, come detto sopra, senza esitazioni, l’ammissibilità nei confronti dell’accordo di separazione consensuale dei classici rimedi negoziali, ivi compresa l’eventuale declaratoria di nullità per simulazione, da esperirsi attraverso un’azione ordinaria e non già con il procedimento ex art. 710 c.p.c. Nel pervenire a tale conclusione la decisione aveva confermato expressis verbis il giudizio formulato dalla corte d’appello, secondo cui «la contestualità di diversi accordi verbali, coevi a quelli scritti ed omologati, non integra modifica di questi ultimi, ma simulazione dell’atto omologato», soggiungendo che «l’allegazione degli eventuali vizi dell’accordo di separazione, ovvero della sua simulazione» sarebbe rimasta rimessa «al giudizio ordinario, secondo le regole generali».

E’ evidente, dunque, che il richiamo al concetto di simulazione dell’accordo di separazione e alla sua astratta configurabilità costituiva, nell’armamentario argomentativo di quella sentenza, una premessa o passaggio logico necessario per la soluzione della controversia (dunque, una ratio decidendi). A ciò si aggiunga che, dalla decisione si evince- quale ulteriore principio generale- che  né gli eventuali vizi del consenso rispetto all’atto di separazione omologato, né la sua eventuale simulazione sono deducibili con il giudizio camerale attivato ai sensi degli artt. 710 e 711 c.p.c.. Sembra chiaro, pertanto, che la ragione per la quale la Corte Suprema confermò in quel caso la decisione di merito andava ricercata nel rimprovero alla parte ricorrente di avere proposto una domanda sicuramente ammissibile in astratto per il tramite di una procedura preordinata a far valere altri tipi di doglianze. In caso contrario, invero, la Corte avrebbe dovuto indicare come puramente e semplicemente inammissibile la domanda, anziché espressamente indicare la via del procedimento contenzioso ordinario.

Nella decisione del 2003 la Cassazione  viene a negare la configurabilità di una simulazione della separazione, in piena contraddizione rispetto alla prima parte di questa stessa sentenza.

Secondo i Supremi Giudici, nel momento in cui i coniugi convengono, nello spirito e nella prospettiva della loro intesa simulatoria, di chiedere al Tribunale l’omologazione della loro (apparente) separazione, esse in realtà concordano nel voler conseguire il riconoscimento di uno status dal quale la legge fa derivare effetti irretrattabili tra le parti e nei confronti dei terzi, (salve le ipotesi della riconciliazione e dello scioglimento definitivo del vincolo). Sul punto andrà subito detto che se veramente fosse l’asserita irretrattabilità  degli effetti della separazione ad escludere la configurabilità di un procedimento simulatorio del negozio di separazione consensuale, non si riuscirebbe a comprendere per quali motivi il Legislatore avrebbe previsto e disciplinato la simulazione del contratto, i cui effetti (ex art. 1372 c.c.) sono «irretrattabili» almeno tanto quanto quelli di un accordo di separazione. La Corte, infatti, soggiunge che, nella situazione considerata, la volontà di conseguire lo status di separati è effettiva, e non simulata: l’iniziativa processuale diretta ad acquisire la condizione formale di coniugi separati, con le conseguenti implicazioni giuridiche, si risolve in una iniziativa (nel senso della efficacia della separazione) che vale a superare e neutralizzare il precedente accordo simulatorio, che si pone in antitesi con essa. Appare invero logicamente insostenibile che i coniugi possano disvolere con detto accordo la condizione di separati ed al tempo stesso volere l’emissione di un provvedimento giudiziale destinato ad attribuire determinati effetti giuridici a detta condizione: l’antinomia tra tali determinazioni non può trovare altra composizione che nel considerare l’iniziativa processuale come un atto incompatibile con la volontà di avvalersi della simulazione.

 In altre parole, dai percorsi argomentativi adottati dalle due sentenze opposte della cassazione si deduce che : o si riconduce la separazione al provvedimento del giudice, ed allora se ne deve concludere che la simulazione non è ammissibile, o si riferisce la separazione alla volontà dei coniugi, e allora si deve ammettere che l’accordo possa essere simulato e perciò impugnabile.

Nel 2008, esaminando una domanda di modifica del titolo della separazione (da consensuale a contenziosa), la Cassazione sembra voler compiere un revirement implicito, per tornare alle posizioni ed alle conclusioni espresse nel 2001. La S.C. stabilisce infatti che «In tema di separazione consensuale, la natura negoziale dell’accordo rende applicabili le norme generali che disciplinano la materia dei vizi della volontà e della simulazione, i quali, tuttavia, non sono deducibili attraverso il giudizio camerale ex artt. 710-711 cod. proc. civ.; infatti, costituisce presupposto del ricorso a detta procedura l’allegazione dell’esistenza di una valida separazione omologata, equiparabile alla separazione giudiziale pronunciata con sentenza passata in giudicato, con la conseguenza che la denuncia degli ipotetici vizi dell’accordo di separazione, ovvero della sua simulazione, resta rimessa al giudizio ordinario».

 Va notato che, nel caso in questione, la ricorrente, aveva allegato a sostegno della domanda di mutamento di titolo della separazione fatti ascrivibili ad un possibile dolo determinante posto in essere, a suo dire, dal marito.

Nella pronuncia, la Corte pone espressamente, anche se incidentalmente, in evidenza il rilievo dell’accordo nel negozio di separazione consensuale e della validità del consenso come effetto del libero incontro della volontà delle parti, accennando agli effetti di eventuali vizi del consenso e dell’ eventuale simulazione, da far valere con giudizio ordinario, secondo le regole generali.

A tali principi hanno poi aderito anche le pronunce di merito.  Per citarne alcune, Il tribunale di Genova, ad esempio, ha aperto uno spiraglio alla prova, da parte del conduttore, della simulazione della separazione del locatore, in seguito alla quale quest’ultimo aveva perso il diritto di abitare nella casa coniugale, così essendo costretto ad agire in recesso per ottenere la disponibilità dell’appartamento concesso in locazione . Ancora, la Corte d’appello di Bologna ha ammesso la revocabilità del decreto di omologazione della separazione consensuale nell’ipotesi di simulazione degli accordi stipulati dai coniugi e da questi espressamente ammessa, applicando a tali intese le disposizioni  sui contratti in generale ed osservando conclusivamente che «l’istituto della simulazione trova applicazione anche nella materia matrimoniale, tanto è vero che l’art. 123 cod. civ. prevede espressamente l’impugnazione del matrimonio per simulazione». Ora, a parte l’erroneo riferimento alla necessaria revoca del decreto d’omologazione, in contrasto, come s’è visto, con le citate decisioni di legittimità del 2001 e del 2008, non vi è dubbio che il riconoscimento del carattere negoziale dell’intesa di separazione rappresenti l’indice di una diversa sensibilità anche da parte dei giudici di merito verso la considerazione sub specie negotii degli accordi di cui si discute.

E’ bene chiarire che le osservazioni sin ora sviluppate con riguardo alla separazione consensuale, appaiono applicabili anche alle intese che si pongono alla base del divorzio su domanda congiunta, nel quale gli effetti d’ordine patrimoniale vanno direttamente ricollegati al contratto di divorzio concluso dai coniugi, rispetto al quale la pronuncia del tribunale assume il mero carattere di omologa.

Enunciata la conclusione secondo cui tanto la separazione consensuale, che il divorzio su domanda congiunta, che le singole condizioni dell’una o dell’altro possono essere riconosciuti come simulati, se ne possono analizzare alcuni corollari sulle relative alle azioni esperibili.

Benché Parte della dottrina neghi l’impugnabilità a mezzo dei rimedi ordinari dell’accordo di separazione per motivi concernenti l’esistenza e l’integrità del consenso , asserendo che l’intesa, una volta omologata, finirebbe con il confondersi con il relativo provvedimento giudiziale( con la conseguente ammissibilità dei soli rimedi del reclamo e della revoca, ex art. 742 c.p.c., da indirizzarsi verso il decreto d’omologa ),  la giurisprudenza ha affermato che il carattere non definitivo del provvedimento che chiude il procedimento di separazione consensuale consente la proposizione di autonoma azione diretta all’accertamento dell’eventuale nullità dell’accordo di separazione, così come dell’eventuale nullità del provvedimento. Il decreto di omologazione, invece, è impugnabile per vizio proprio di legittimità, cioè per la violazione di disposizioni attinenti al procedimento in sé considerato e non già al negozio che il procedimento tende meramente a controllare.

 I principi generali, sono  quelli scolpiti nel codice  in materia di contratti in generale, per ciò che attiene alla simulazione, negli artt. 1415 s. e 2652, n. 4, c.c., per quanto riguarda i vizi del consenso, negli artt. 1445 e 2652, n. 6, c.c. e, per quanto attiene alla revocatoria, (cui anche faremo un breve cenno) negli artt. 2901, ult. cpv., e 2652, n. 5, c.c.

 In relazione all’azione di  simulazione,potrà citarsi un precedente del tribunale di Bologna, il quale ha ritenuto applicabile l’art. 1415 c.c. alla fattispecie seguente: durante il periodo di separazione consensuale il marito procedeva all’acquisto e quindi alla vendita di un immobile. Al momento del divorzio la moglie agiva verso il terzo acquirente dell’immobile in questione ex art. 184 c.c., chiedendo l’annullamento dell’atto per essere stato quest’ultimo posto in essere senza il suo consenso, in relazione ad un bene della comunione legale, nel frattempo instauratasi  per via del carattere meramente apparente dello stato di separazione, frutto, a dire della parte attrice, di un accordo omologato simulato.  La sentenza respingeva, tuttavia, la domanda della moglie, richiamando l’art. 1415 c.c. .

Appare chiaro, quindi, che il presupposto di applicabilità della regola ex art. 1415 c.c. risiede, per l’appunto, nella possibilità di ritenere l’atto nullo per simulazione.

Ma il problema della simulabilità dell’accordo non è l’unico problema sollevato dal caso in esame; ne emerge infatti un altro altrettanto rilevante ai fini della libera commerciabilità dei beni, ossia quello della pubblicità.

In proposito, fermo restando che, tanto l’accertamento giudiziale della simulazione (della separazione consensuale, del divorzio su domanda congiunta, così come delle relative intese), quanto la pronunzia di annullamento o di revoca, sfuggono alla annotazione a margine dell’atto di matrimonio , non rimane che riconoscere alla trascrizione sui pubblici registri immobiliari e mobiliari delle relative domande giudiziali la funzione di disciplinare i confitti con i terzi aventi causa in relazione a diritti relativi a beni immobili o mobili registrati acquistati in base ad atti soggetti alla trascrizione.

Così, per esempio, il coniuge interessato a far valere nei confronti dei terzi i diritti ex art. 184 c.c. sui beni immobili o mobili registrati acquistati medio tempore, cioè a dire in costanza di apparente regime di separazione instauratosi in seguito ad una fittizia (o viziata) causa di scioglimento ex art. 191 c.c., potrebbe procedere alla trascrizione contro l’altro coniuge della domanda diretta a colpire la validità e/o gli effetti della separazione consensuale, nonché alla trascrizione (ex art. 2653, n. 1, c.c.) della domanda di accertamento della persistenza del regime legale e del carattere comune del bene in questione. E lo stesso potrebbe valere anche per altre situazioni non annotabili a margine dell’atto di matrimonio, ma influenti su di una causa di scioglimento del regime legale: si pensi, per tutte, alle azioni tendenti alla declaratoria di nullità per un qualsiasi motivo (magari, ancora una volta, per simulazione), o alla pronunzia di annullamento, di una convenzione di separazione dei beni.

Fin qui si è discorso del coniuge interessato ad opporre ai terzi la realtà di una persistente situazione di comunione legale. Si potrebbe peraltro ipotizzare anche la possibilità che terzi, eventualmente interessati a dimostrare il carattere (in realtà) comune dei beni acquistati dopo che si sia verificata la causa di scioglimento apparente (si pensi ai creditori della comunione), siano legittimati a far prevalere la realtà sull’apparenza, provando, per l’appunto, il carattere meramente fittizio della (apparente) causa di scioglimento del regime legale . Il discorso non potrebbe però valere in questo caso che per la simulazione, atteso che l’azione diretta ad ottenere la pronunzia di annullamento per un vizio del consenso è per definizione rimessa nelle mani della sola parte il cui consenso sia stato dato per errore, estorto con violenza o carpito con dolo.

Sul punto, la Cassazione ha affermato che l’accordo di separazione ha natura negoziale e ad esso possono applicarsi, nei limiti della loro compatibilità, le norme del regime contrattuale che riguardano in generale la disciplina del negozio giuridico o che esprimono principi generali dell’ordinamento, come quelle in tema di vizi del consenso.

Di conseguenza è ammissibile l’azione di annullamento disciplinata dagli art. 1427 ss c.c., nell’ipotesi di vizi del consenso dei coniugi nella separazione consensuale omologata (sentenza n. 17902 del 2004).

Ed è proprio rispetto ai terzi che affiorano i rapporti tra azione revocatoria e simulazione della separazione,  dato che i coniugi ben potrebbero inscenare la separazione al solo fine di fornire una idonea cornice per l’effettuazione dell’attribuzione fraudolenta. L’eventuale accertamento del carattere fittizio del negozio di separazione personale non può però indurre, di per sé, a ritenere invalido il negozio traslativo, laddove risulti che i coniugi intesero realizzare effettivamente, mediante le convenzioni stipulate avanti al Presidente del Tribunale, il trasferimento della proprietà degli immobili o delle porzioni immobiliari. La simulazione – come noto – presuppone che le parti non vogliano conseguire gli effetti del negozio posto in essere, laddove è chiaro che, nei casi di consilium fraudis, ciò che non sono volute sono solo le conseguenze di carattere personale, mentre i coniugi intendono assolutamente conseguire quell’effetto traslativo che appare del tutto svincolato dalle vicende relative agli «effetti» della separazione. E’ peraltro chiaro che l’eventuale accertamento di una simulazione della separazione costituisce la miglior prova dell’esistenza di un consilium fraudis  in capo ad entrambi i coniugi.

In effetti, la giurisprudenza di merito ha già avuto modo di occuparsi in alcune occasioni del problema della revocabilità ex art. 2901 c.c. degli  accordi  conclusi in seno ad una crisi coniugale. Emblematico è il caso dei trasferimenti immobiliari . Al riguardo, l’astratta ammissibilità del rimedio ex artt. 2901 ss. è stata affermata dinanzi a diversi tribunali( Bologna,  Casale Monferrato, Roma e Torino.).

Da un punto di vista generale, andrà subito detto che indubbiamente, essendo il trasferimento operato dalla volontà delle parti e non già dal provvedimento d’omologazione, la particolare sede nella quale il negozio viene posto in essere (udienza presidenziale di separazione, seguita da decreto di omologazione da parte del tribunale, o udienza collegiale di divorzio su domanda congiunta, seguita da sentenza) non dispiega influenza alcuna sull’ammissibilità del rimedio. Per ciò che attiene poi, più specificamente, al consilium fraudis in capo al debitore, ovverosia la conoscenza, da parte di quest’ultimo, del pregiudizio arrecato alle ragioni dei creditori dal trasferimento, basterà ricordare che, come noto, tale elemento non presuppone in alcun modo l’esistenza di un animus nocendi . Peraltro, vale la regola secondo cui, come più volte ribadito dalla Suprema Corte, ad integrare tale presupposto non si richiede l’animus nocendi, e cioè la prova della collusione tra terzo e debitore, essendo sufficiente che il terzo (cioè, nella specie, il coniuge del debitore) abbia la consapevolezza del fatto che il suo dante causa, già vincolato verso creditori, mediante l’atto di disposizione, diminuisca la sua sostanza patrimoniale, e con essa la garanzia spettante alle ragioni di credito altrui, arrecando così pregiudizio. Così, i tribunali deducono la presenza di tale stato soggettivo dal fatto che il debitore, ad esempio,  sia consapevole di aver contratto quel certo debito ben sapendo di non essere proprietario di altri beni, oltre quelli che conferiva al coniuge.

La Cassazione ha, invero, avuto modo di occuparsi anche della possibilità, da parte dei creditori o del curatore fallimentare, di esperire azione revocatoria, rispettivamente, ordinaria e fallimentare nei riguardi di negozi traslativi di diritti in sede di crisi coniugale.

Il problema principale trattato da queste decisioni attiene al profilo del carattere solutorio o meno dell’atto traslativo. Essendo notoriamente sottratto a revocatoria l’atto di adempimento di un’obbligazione, è evidente che la qualificazione a tale stregua dei negozi in oggetto fornirebbe un insuperabile usbergo avverso le pretese dei creditori, in sede di azione individuale, così come concorsuale.

La Corte, infatti, in relazione alla richiesta di revocatoria fallimentare, ai sensi degli artt. 67, comma primo, n. 1, e 69 l. fall, partendo dalla premessa per cui l’atto traslativo ha carattere negoziale e non processuale, ha concluso per la revocabilità ai sensi delle norme citate dell’accordo con il quale il coniuge poi fallito – assegnatario della casa coniugale alla stregua delle condizioni della separazione consensuale omologata – a modifica di tali condizioni, aveva costituito a favore dell’altro coniuge, per tutta la durata della sua vita, il diritto di abitazione sulla predetta casa coniugale.

 

 

 

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