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Il danno da mancata acquisizione del consenso medico. 

Il danno da mancata acquisizione del consenso medico. 

di Ludovica Vaccaro

Nell’ambito dell’attività medico-sanitaria, il consenso prestato dal paziente per sottoporsi ad un trattamento medico-chirurgico è essenziale ai fini della legittimità di quest’ultimo.

Ed infatti nell’ordinamento giuridico italiano il principio del consenso informato trova riconoscimento costituzionale nell’art. 32 Cost. il quale, con specifico riguardo alla tutela della salute, sancisce al secondo comma che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per espressa disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

La disposizione ora richiamata non è peraltro l’unica a riconoscere la rilevanza costituzionale del consenso informato, dovendo essere letta in combinato disposto con gli articoli 2 e 13 Cost; come ha avuto modo di precisare la Suprema Corte il consenso manifestato dal paziente al trattamento sanitario è un atto di volontà che afferisce alla libertà morale del singolo, costituendo espressione della sua libertà di autodeterminarsi riguardo alla propria condizione di salute e alla propria dignità, ed in quanto tale rappresenta una specificazione dell’inviolabilità della libertà personale, sancita dall’art. 13 Cost e garantita come diritto fondamentale ai sensi dell’art. 2 Cost.

L’importanza giuridica del consenso informato trova numerosi riconoscimenti anche nell’ordinamento sovranazionale; tra questi vi è, a livello internazionale, l’art. 5 della Convenzione di Oviedo del 1997 sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina dispone che «un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero ed informato». A livello eurounitario, invece, l’art. 3 della Carta dei Diritti Fondamentali Dell’Unione Europea, configura il consenso libero ed informato della persona interessata come requisito fondamentale del trattamento sanitario per garantire i diritti fondamentali della persona, in particolare il diritto all’integrità psicofisica, alla dignità umana (art. 1) ed alla vita (art. 2).

Nella legislazione nazionale il diritto al consenso informato è stato riconosciuto per la prima volta con l’art. 33 della legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (legge n. 833 del 1978) il quale esclude la possibilità per il medico di condurre accertamenti o eseguire trattamenti sanitari contro la volontà del paziente, salvo il caso che quest’ultimo non sia in grado di prestare il proprio consenso in modo consapevole e ricorrano i presupposti dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p.

Ad oggi completa il quadro normativo in materia di consenso informato l’art. 1 della legge del 22 dicembre 2017 n. 219, con il quale il legislatore ha positivizzato gli orientamenti elaborati in seno alla giurisprudenza sia per quanto riguarda il fondamento giuridico del consenso informato, sia con riferimento alla individuazione dei requisiti di efficacia del consenso e delle modalità di acquisizione dello stesso, in parte già definiti dal codice deontologico medico.

Sotto il primo profilo, l’art. 1 della legge n. 219 del 2017 ribadisce innanzitutto, richiamandosi ai principi costituzionali e comunitari, il divieto di trattamenti sanitari arbitrari, ossia i trattamenti iniziati o proseguiti in assenza del consenso libero ed informato della persona interessata. A tale divieto derogano i casi espressamente previsti dalla legge, tra i quali rientrano, da un lato, i trattamenti sanitari obbligatori ex art. 32 Cost, come ad esempio quelli disposti per ragioni di tutela della sicurezza e dell’incolumità pubblica, come le vaccinazioni obbligatorie o quelli finalizzati alla tutela dell’incapace o dell’interdetto, dall’altro i trattamenti indispensabili e necessari per la cura della persona, sempreché vi sia un pericolo attuale e grave per la vita della stessa e non si possa ottenere il consenso in modo appropriato, così come previsto dall’art. 8 della Convenzione di Oviedo e dall’art. 35 del codice deontologico medico.

In secondo luogo, l’art. 1 della legge 219 del 2017 valorizza la prestazione del consenso informato come momento “nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico”, in linea con quanto affermato dalla Suprema Corte in merito al rapporto tra medico e paziente, da intendersi non più come rapporto di soggezione del secondo rispetto al primo, ma come alleanza terapeutica, ossia come relazione improntata alla collaborazione e fiducia reciproca per l’individuazione e la scelta della migliore terapia.

In quest’ottica, affinché il consenso prestato dal paziente sia espressione di una consapevole e ponderata manifestazione della libertà individuale occorre che sia dotato di certi requisiti; dall’art. 1 della legge n. 219 del 2017 si evince in particolare che il consenso del paziente per essere idoneo a legittimare il trattamento sanitario deve essere personale e libero, attuale ed espresso e, soprattutto, informato e consapevole.

Il consenso, infatti, deve essere manifestato direttamente e spontaneamente dal paziente, salvo il caso in cui il paziente stesso non incarichi i familiari o persone di fiducia ad esprimere il consenso in sua vece (terzo comma); non può mai essere tacito o presunto, ma deve essere fornito espressamente nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente (quarto comma), dopo una completa ed esaustiva informazione su tutto ciò che riguarda i trattamenti terapeutici e gli accertamenti diagnostici indicati dal medico.

Nello specifico la persona interessata deve essere posta in grado di conoscere il proprio stato di salute e di comprendere le diagnosi, le prognosi, i benefici ed i rischi relativi agli accertamenti diagnostici ed ai trattamenti sanitari, nonché le possibili alternative e le conseguenze che possono derivare dal rifiuto o dalla rinuncia agli stessi (terzo comma).

Il consenso, infine, deve essere attuale, cioè deve sussistere e permanere in ogni fase del trattamento sanitario, essendo in ogni momento revocabile dal paziente (quinto comma).

Dalla breve rassegna delle disposizioni contenute nell’art. 1 della legge n. 219 del 2017 emerge che nella fase antecedente al trattamento sanitario il medico deve garantire al paziente un’adeguata e completa informazione che gli consenta di determinarsi in maniera libera e consapevole. Qualora ciò non avvenga, perché il medico viola i suddetti obblighi informativi, si può configurare una responsabilità medica per i danni subiti dal paziente in conseguenza della mancata o errata acquisizione del consenso informato.

L’esame dei profili di responsabilità del medico e della risarcibilità del danno da mancata o errata acquisizione del consenso non possono prescindere dall’inquadramento della natura della responsabilità che deriva dall’inosservanza degli obblighi informativi da parte del medico; ciò in quanto dalla qualificazione del difetto di informazione come violazione del canone di buona fede ex art. 1337 c.c. o, invece, come violazione di un obbligo contrattuale ex art. 1218 c.c. derivano importanti conseguenze sostanziali e in ordine alla ripartizione dell’onere probatorio.

Ed infatti, configurando gli obblighi informativi che gravano sul medico al momento della prestazione del consenso come obblighi che derivano dai principi di correttezza e buona fede nella fase che precede il contratto, nella specie, il trattamento sanitario, la violazione di tali obblighi assume rilievo di per sé, a prescindere dall’esecuzione del trattamento stesso o dal suo esito positivo o peggiorativo. In quest’ottica il danno da mancata o errata acquisizione del consenso è risarcibile a prescindere da un’eventuale lesione della salute del paziente ed anche in assenza della stessa, perché rileva come lesione di un diritto ulteriore e diverso, vale a dire il diritto alla libera autodeterminazione al trattamento sanitario, tutelata a livello costituzionale dal combinato disposto degli articoli 2, 13 e 32 Cost.

Sebbene questa impostazione abbia il pregio di mantenere distinte le posizioni soggettive la cui lesione determina l’insorgenza della pretesa risarcitoria, riconoscendo autonomo rilievo alla libertà di autodeterminazione del singolo rispetto alla tutela della salute, essa non tiene conto della circostanza, invero rilevante, che il dovere di dare un’informazione adeguata e completa ai fini della valida prestazione del consenso del paziente sorge in capo al medico solo nel momento in cui tra il primo ed il secondo si instaura, in forza di un contratto o di un contatto sociale qualificato, la relazione terapeutica.

Diversamente, qualificando gli obblighi informativi che presiedono alla manifestazione del consenso al trattamento sanitario come obblighi accessori ed integrativi, secondo il canone di buona fede ex art. 1375 c.c., della prestazione principale, ossia il trattamento sanitario, la mancata o errata acquisizione del consenso informato assume rilevanza quale lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente non ex se ma solo in quanto essa abbia avuto rilevanza causale rispetto al trattamento sanitario.

Sul piano dell’onere probatorio si osserva che aderendo alla tesi della responsabilità precontrattuale la prova della violazione del dovere di informazione e del danno da esso derivante incomberà sul paziente danneggiato, secondo il modello aquiliano previsto dall’art. 2043 c.c.

Optando per la tesi dell’inadempimento contrattuale, invece, il paziente che agisca in giudizio nei confronti del medico dovrà limitarsi ad allegare la mancata o errata acquisizione del consenso informato e i danni patiti quale conseguenza, spettando al medico l’onere ben più gravoso di dimostrare di avere diligentemente e adeguatamente informato il paziente.

Più recentemente la Suprema Corte è tornata a pronunciarsi sul tema della natura della responsabilità del medico per violazione dei doveri di informazione relativi alla prestazione del consenso, da un lato aderendo alla tesi della natura contrattuale di tale responsabilità ma, dall’altro, sostenendo la rilevanza autonoma del danno da mancata acquisizione del consenso informato rispetto alla prestazione terapeutica.

La Corte, riprendendo la distinzione tra danno evento e danno conseguenza ha affermato che la lesione del diritto del paziente all’autodeterminazione terapeutica deriva da due condotte consequenziali del medico, quella omissiva consistente nella mancata acquisizione o errata formazione del consenso, e quella commissiva data dall’esecuzione di un trattamento sanitario non autorizzato, che costituiscono il danno intrinseco dal quale discende la responsabilità del medico. Ciò in quanto la circostanza che il trattamento sanitario sia stato risolutivo della patologia che il paziente accusava non è in grado di per sé di rimuovere i danni correlati all’inadempimento del quale si è reso responsabile il medico. La Corte ha rilevato in proposito che il beneficio che il paziente trae dal trattamento sanitario non può compensare la perdita della chance di eseguirne uno meno invasivo o patire minori sofferenze se eseguito da un altro medico, o la possibilità di rifiutare l’intervento che devono essere considerate facoltà inerenti alla libertà di autodeterminazione terapeutica riconosciuta a livello costituzionale al paziente.

Secondo questa impostazione occorre dunque distinguere la lesione del diritto all’integrità psicofisica, che è del tutto eventuale e discende dall’esecuzione del trattamento sanitario, dalla lesione al diritto di autodeterminazione terapeutica del paziente, derivante dalla mancata o errata acquisizione del consenso da parte del medico; quest’ultima è risarcibile autonomamente come pregiudizio correlato ad interessi connessi alla lesione che si configura come danno evento, in questo caso l’inadempimento che nascono in forza dell’alleanza terapeutica; può consistere in un pregiudizio patrimoniale, come ad esempio i costi che derivano da trattamenti ulteriori per il recupero funzionale o la perdita di una chance lavorativa dovuta all’intervento, o più spesso consisterà in un pregiudizio non patrimoniale, inteso come sofferenza derivante dalla perdita della possibilità di autodeterminarsi liberamente riguardo al sottoporsi o meno ad un trattamento sanitario.

In quest’ultimo caso la risarcibilità è subordinata alla prova, che grava sul paziente danneggiato, che si tratti di una sofferenza grave ed apprezzabile non invece un mero fastidio riconducibile alla categoria dei “danni bagatellari” secondo il paradigma delle Sezioni Unite del 2011.

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