Gli accordi amministrativi nell’ambito della gestione del territorio

di Valentina Praticò

La materia degli accordi afferisce all’esercizio consensuale dell’attività amministrativa, posto che l’art. 11 della l. 241/1990 istituzionalizza l’utilizzo del modulo consensuale nell’attività amministrativa, già noto ad alcune normative di settore, come in materia urbanistica.

Con siffatto strumento, il legislatore del 1990 intende dare veste canonica ad un modus procedendi alternativo a quello classico, affiancando al provvedimento, risultato di esercizio solitario e unilaterale dei pubblici poteri, un modulo di azione paritetica e partecipata, che si connota altresì per il superamento del carattere di facoltatività che lo aveva in precedenza contraddistinto e qualificato, in nome della riconosciuta vincolatività per entrambe le parti, chiamate a rispettare gli impegni assunti in tale sede.

In particolare, con l’accordo, la  P.A. può. concorrere alla determinazione del contenuto dell’accordo, accettando la proposta del privato o formulandola essa stessa, configurandosi, in siffatta circostanza, il cd. accordo endoprocedimentale, che, così posto, non contraddice uno dei principi base del diritto amministrativo, ovvero quello secondo cui si configurerebbe un vizio di legittimità, sub specie di eccesso di potere, sotto forma di omesso o insufficiente esercizio del potere discrezionale, dovendo essa soltanto stabilire il contenuto sostanziale dell’atto.

Dall’adozione dell’accordo endoprocedimentale consegue, naturaliter, l’adozione di un provvedimento amministrativo che recepisca l’accordo intercorso tra P.A. e privato, il quale di norma accetta clausole gravose con una implicita rinuncia ad un successivo contenzioso, facendo affidamento sul fatto che la P.A. non adotti immotivatamente un provvedimento dal contenuto diverso.

Tuttavia, il testo di legge recato dall’art. 11 della legge sul proc. Amm. Teorizza la possibilità di adottare accordi cd. sostitutivi del provvedimento finale, il cui ambito di applicazione è oggi coincidente con quello degli accordi endoprocedimentali, essendo caduta la riserva che originariamente ne limitava l’impiego ai soli casi autorizzati  dalla legge. Infatti, la legge di riforma del 2005 ha soppresso tale inciso, sicchè il soggetto pubblico può ricorrere al modulo convenzionale qualora lo ritenga opportuno, al fine di evitare contestazioni da parte del privato, che, dal canto suo, può beneficiare dello strumento consensuale per ottenere vantaggi che gli sarebbero in altro modo preclusi.

Va da ultimo rilevato che tali accordi hanno da sempre avuto grande applicazione nel campo della pianificazione urbanistica.

Tale è, esemplificativamente, il caso in cui il privato chieda il rilascio agli OO. Comunali competenti del permesso di costruire e questi, a loro volta, chiedano la realizzazione di una prestazione supplementare, sul presupposto che essa non possa costituire l’oggetto di una condizione apposta al provvedimento, perché sarebbe illegittima.

Trattasi, dunque, di un accordo sostitutivo di un provvedimento costituente titolo abilitante alla costruzione, la cui conclusione consente di concordare con il privato tutti quegli aspetti rientranti nel contenuto discrezionale del provvedimento e alla p.a. di esercitare ulteriori poteri, di controllo, sanzionatori,  di ius variandi in materia urbanistica, previsti dalla legge a garanzia del corretto e permanente perseguimento dell’interesse pubblico in quella data materia.

Tra le ulteriori ipotesi di accordi amministrativi ricadenti nella materia di gestione del territorio figura la cd. cessione volontaria. Trattasi di fattispecie regolata ex art. 45 T.U. Espr., che rappresenta una modalità di trasferimento del bene alternativa al decreto di esproprio.

Nello specifico, l’art. 45, comma 1, t.u. prevede la possibilità per il proprietario del bene oggetto della procedura ablatoria reale di bypassare l’emanazione del decreto di esproprio, per effetto della sostituzione del medesimo  con un atto di cessione volontaria, da stipulare in un arco temporale predeterminato e dietro liquidazione in suo favore di un corrispettivo da quantificare sulla base di criteri fissati dallo stesso art. 45, comma 2, in relazione alle diverse tipologie degli immobili interessati al trasferimento altrimenti coattivo.

Così disponendo, l’art. 45 ripropone una possibilità di scelta per il proprietario fra l’atto autoritativo e l’accordo volontario già prevista da una legge che, all’inizio degli anni ’70, riconosceva al soggetto in questione il diritto di concordare con l’espropriante, entro 30 giorni decorrenti dalla notificazione della determinazione in via provvisoria della misura dell’indennità di esproprio, la cessione volontaria, per un prezzo maggiorato rispetto a detta indennità, dei terreni inizialmente ricompresi nei piani di zona per l’edilizia residenziale pubblica.

Altri studiosi, per converso, rinvenivano un più lontano precedente del cit. art. 45 nella legislazione postunitaria che, sul finire del’800, prevedeva la possibilità per le parti interessate di definire amichevolmente fra di loro, senza necessità di interventi da parte di soggetti terzi, l’ammontare dell’indennità.

La scelta operativa compiuta dal legislatore degli anni ’70 viene ritenuta valida, tanto da essere estesa dall’art. 5 bis, d.l. 11 luglio 1992, n. 333, convertito in l. 8 agosto 1992, n. 359,  a tutte le aree edificabili, nel senso di privilegiare ed incentivare l’accordo rispetto all’ordinario procedimento espropriativo e alla liquidazione autoritativa della relativa indennità.  

Ciò detto, si deve accertare la natura giuridica del contratto o atto di cessione volontaria del bene espropriando, trattandosi di questione da tempo dibattuta con esiti diversi in dottrina, posto che si sono fronteggiate due tesi: la prima riconduce l’accordo in questione nella categoria dei contratti di diritto privato, accumunandola ai comuni contratti di compravendita, l’altra, invece, inquadra la cessione nella categoria dei contratti di diritto pubblico, sul rilievo che si tratta di atto che del contratto ha solo la struttura, ma non anche la funzione e gli effetti, che sono quelli propri del decreto di espropriazione.

A favore della prima tesi, volta ad assegnare un ruolo centrale alla volontà del proprietario dell’immobile soggetto a procedura ablatoria, in sede di opzione fra trasferimento autoritativo del bene e trasferimento volontario, si osserva che il procedimento espropriativo in atto costituisce solo un motivo che induce alla cessione volontaria e che, in quanto tale, non è in grado di incidere sulla natura giuridica dell’accordo, del tutto assimilabile ad una normale compravendita.

In senso favorevole alla riconducibilità dell’accordo nella categoria dei contratti pubblici è stato, per converso, osservato che non è possibile riconoscere i connotati della completa autonomia all’atto di volontà del privato proprietario del terreno in una vicenda nella quale egli non agisce su un piano paritetico né può opporsi alla cessione del terreno, ma può intervenire nel procedimento solo con il limitato obiettivo di ottenere un giusto indennizzo e di verificare che in sede di quantificazione dello stesso siano rispettati i predeterminati criteri legislativi di calcolo.

La posizione di preminenza che l’amministrazione espropriante conserva anche in caso di cessione volontaria, è invece riconosciuta dalla giurisprudenza che, dopo iniziali esitazioni è da tempo orientata nel senso di ricondurre detto accordo fra i contratti pubblici, pur nella consapevolezza di non escludere l’applicabilità dei principi civilistici che regolano la conclusione del contratto la sua interpretazione, l’automatica sostituzione di clausole in esso contenute e contrarie a norme imperative, la nullità del contratto per illiceità ovvero mancanza dell’oggetto, l’annullamento o risoluzione dello stesso, la convalida ex art. 1444 c.c., la revocabilità della proposta fino alla conclusione dell’atto.

Altra questione sulla quale si è a lungo incentrato l’interesse della giurisprudenza e della dottrina, ma con esiti completamente opposti l’una dall’altra, è quella che attiene alla riconducibilità del contratto di cessione volontaria agli accordi sostitutividi provvedenti amministrativi, previsti e regolati dall’art. 11, l. 7 agosto 1990, n. 241.

In senso favorevole si è espressa in larga prevalenza la dottrina, mentre in senso nettamente contrario ha concluso la giurisprudenza, conformatasi alle conclusioni cui erano pervenute le Sezioni Unite dalla Corte di Cassazione, con riferimento al principio di specialità che caratterizza il settore dell’espropriazione per pubblica utilità e, quindi, agli elementi che differenziano gli accordi di cui al cit. art. 11 rispetto alla cessione volontaria del bene oggetto del procedimento ablatorio.

Infatti, nel caso di cessione volontaria, la controparte dell’espropriando non necessariamente è un Ente pubblico, come invece previsto dall’art. 11, dovendosi l’accordo ex art. 45 t.u. concludere con il beneficiario dell’espropriazione, quale può anche essere un privato, e considerato che gli accordi di cui all’art. 11 intervengono senza pregiudizio dei diritti di terzi, contrariamente a quanto si verifica per il contratto di cessione volontaria, la cui stipulazione comporta invece l’estinzione dei diritti reali parziali e dei diritti personali sul bene ceduto.

Ciò posto, può evidenziarsi che l’art. 45, comma 1, t.u. qualifica diritto soggettivo la posizione giuridica del proprietario espropriando che, con le modalità previste dal precedente art. 20, abbia dichiarato di condividere la determinazione della misura dell’indennità provvisoria di espropriazione fatta dall’espropriante e manifestato il proprio interesse ad affidare ad un atto negoziale l’effetto traslativo del bene oggetto della procedura ablativa.

Siffatta scelta del legislatore di qualificare in termini di diritto soggettivo la posizione giuridica del proprietario trova giustificazione nella duplice esigenza di ridurre i tempi e le fasi procedimentali e di contenere in limiti fisiologici il contenzioso, strumentalizzando a tal fine l’incentivazione al ricorso al modello negoziale.

Si tratta in effetti di un diritto di credito alla conclusione del contratto, che la norma riconosce al solo proprietario del bene espropriando, il quale è libero di esercitarlo o non, contrariamente a quanto accade per l’espropriante che, ove evocato, è obbligato a intervenire alla stipula dell’atto negoziale.

Resta invece il dubbio se si possa parlare di diritto soggettivo, e non piuttosto di interesse legittimo, nel caso in cui in presenza di una proprietà indivisa la richiesta di cessione sia avanzata solo da un comproprietario, sicchè non sarebbe irragionevole riservare all’espropriante uno spazio per valutare l’interesse generale ad aderire alla richiesta pur dovendo proseguire la procedura espropriativa per acquisire in via autoritativa le restati quote pro indiviso dell’area di cui ha bisogno per la realizzazione dell’opera pubblica o di pubblica utilità.

Al fine di incentivare l’utilizzo della cessione volontaria, in quanto strumento giuridico idoneo ad accelerare i tempi procedimentali per la traslazione del diritto di proprietà del bene espropriando e con funzione deflattiva del contenzioso, l’art. 45, comma 1, t.u., sia nel testo originario che in quello solo in parte modificato dall’art. 1, d.lgs. 27 dicembre 2002, n. 302, concede al proprietario un tempo molto ampio , «da quando è dichiarata la pubblica utilità dell’opera e fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio»,  per far valere il suo diritto a stipulare con il beneficiario dell’espropriazione l’atto di cessione del bene ovvero, in caso di proprietà indivisa, della sua quota.

Trattasi di norma che deve essere necessariamente coordinata con il testo del precedente art. 20 che richiede invece, come presupposto necessario perché l’espropriando possa attivare l’atto di impulso del sub procedimento di cessione del bene, la pendenza di un procedimento ablatorio pervenuto quanto meno alla fase di determinazione e comunicazione all’interessato della misura dell’indennità provvisoria determinata dall’espropriante, nella quale secondo canoni elementari di ragionevolezza è da individuarsi il materiale conoscitivo minimo da sottoporre al proprietario, perché possa effettuare una opzione consapevole fra l’atto conclusivo del procedimento unilaterale e autoritativo e quello patttizio.

L’art. 45, comma 1, riconosce, infine, al comproprietario il diritto di cedere in via negoziale al beneficiario dell’espropriazione la sua quota di proprietà sul bene espropriando anche nell’ipotesi in cui gli altri comproprietari non abbiano partecipato alla sua iniziativa o addirittura si siano ad essa opposti, preferendo la via dell’impugnazione giurisdizionale del decreto espropriativi, una volta adottato e ad essi notificato.

In effetti sull’ammissibilità di tale cessione, ad avviso di taluni, la disposizione dettata dall’art. 45, comma 1, costituisce un riflesso del riconosciuto diritto dell’espropriando alla cessione, insuscettibile in quanto tale di essere paralizzato dalle altrui determinazioni.

Diversamente, altri hanno affermato che l’acquisizione di quote ideali di una comproprietà non è risultato compatibile con le finalità del procedimento ablatorio, il quale tende all’acquisizione materiale dell’intera area sulla quale dovrà essere realizzata l’opera pubblica, e neppure con le finalità acceleratorie e deflattive del contenzioso,

In ogni caso, è determinante la considerazione che sarebbe contrastante con i principi fondamentali, che regolano la procedura ablatoria, interpretare il cit. art. 45, comma 1, nel senso che esso imporrebbe all’amministrazione l’obbligo di acquisire, mediante contratto di cessione, una o più quote ideali di un terreno appartenente a più comproprietari, divenendo in tal modo compartecipe di una proprietà pro indivisoe quindi impossibilitata ex art. 1108, comma 3, c.c. a disporre dell’area comune contro la volontà degli altri compartecipanti. Si tratterebbe infatti di un’operazione che non garantirebbe all’amministrazione espropriante e al beneficiario dell’espropriazione la disponibilità dell’area necessaria per la realizzazione dell’opera pubblica, che nella dichiarazione di pubblica utilità è perimetrata in funzione delle dimensioni di quest’ultima, da eseguirsi  entro termini prestabiliti, a pena di retrocessione.

Queste contraddizioni si superano se il testo dell’art. 45, comma 1, s’intende riferito alla comunione pro diviso, che è situazione che ricorre nel caso in cui, pur essendo unico il terreno, i comproprietari hanno proceduto a delimitarlo in zone distinte e ad assegnarne una a ciascuno, ed alla quale normalmente si accompagna la proprietà comune degli strumenti necessari per la gestione dell’immobile, sia esso terreno o manufatto, come nel caso del condominio. Né varrebbe opporre che la proprietà pro diviso non realizza una ipotesi di comunione in senso proprio, essendo agevole controdedurre che l’art. 45, comma 1, si riferisce al titolare di quota di proprietà, senza peraltro specificare se deve trattarsi di quota ideale ovvero materiale.

Nei confronti della quota materialmente definita, è palese che deve riconoscersi all’amministrazione procedente il potere-dovere di verificare la convenienza ad aderire o non alla richiesta di cessione formalizzata dal suo proprietario, convenienza che potrebbe sussistere se l’area esproprianda, così come individuata nella dichiarazione di pubblica utilità, coincide con la quota materiale offerta in cessione dal suo proprietario, e non sussistere invece ove fosse solo una parte dell’area complessivamente prevista dalla dichiarazione di pubblica utilità per la realizzazione dell’opera pubblica.

Ne consegue che, a fronte di questo ampio spazio da assicurare all’amministrazione per le sue valutazioni, la posizione del proprietario istante non può essere che quella del titolare dell’interesse legittimo.

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