CONCORSO IN DIFFAMAZIONE DEL DIRETTORE E ARTICOLO FIRMATO CON PSEUDONIMO
CONCORSO IN DIFFAMAZIONE DEL DIRETTORE E ARTICOLO FIRMATO CON PSEUDONIMO.
di Carmen Oliva
Nel nostro ordinamento giuridico la libertà di stampa, quale manifestazione e espressione del proprio pensiero, trova tutela rafforzata nell’art.21 della Costituzione secondo il quale “tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, con lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Una simile tutela rafforzata è apprestata agli utenti e ai giornalisti anche dall’art 10 della Convenzione Europea dei diritti dell’ Uomo. Tale articolato normativo e l’elevato grado di tutela evidenziano il ruolo delicatissimo ed essenziale che l’informazione svolge nella società democratica.
La nozione di stampa è contenuta nell’art 1 della L.n. 47/1948 ai sensi del quale per stampa devono intendersi tutte le riproduzioni tipografiche o comunque ottenute con mezzi meccanici o fisico-chimici, in qualsiasi modo destinate alla pubblicazione. In particolare, è richiesta la presenza congiunta di due diversi requisiti: il primo, a monte, consistente nella riproduzione meccanica dello scritto; il secondo, a valle, consistente nella divulgazione.
Proprio riguardo a tale ultimo profilo, se è pur vero che la stampa cartacea ha rappresentato un importante momento di svolta nel nostro ordinamento, altrettanto innegabile è che il mutamento del contesto sociale e della realtà odierna ha portato alla progressiva diffusione di diverse e nuove tecniche di comunicazione, quali le trasmissioni radiofoniche, televisive e le testate online.
Nel silenzio del legislatore, la giurisprudenza si è quindi di recente interrogata in merito ai connotati strutturali della nozione di stampa sopra precisati, ponendosi il problema della possibilità di operare una interpretazione estensiva tale da ricondurre nel regime della stampa anche quella online.
In particolare, la nozione di stampa è venuta in rilievo, negli ultimi anni, al fine di delimitare l’ambito applicativo di diverse fattispecie incriminatrici, come l’art 57 c.p. e l’art 16 della legge sulla stampa, ma anche di estendere in bonam partem il disposto di cui all’art 21 co 3 cost, recante la garanzia di non sequestrabilità della stampa, se non nei casi espressamente previsti dalla legge.
L’art 57 c.p. punisce la condotta di omesso controllo da parte del direttore o vicedirettore responsabile sul contenuto del periodico da lui diretto, affinchè, a mezzo della pubblicazione, non vengano commessi reati.
Nella versione primigenia del codice, i reati di stampa rappresentavano una delle ipotesi tipiche di responsabilità oggettiva, prevedendosi a riguardo la responsabilità della figura apicale per il reato commesso dall’autore dell’articolo, in ragione della sola posizione rivestita nell’organigramma aziendale e , quindi, indipendentemente dall’effettivo contributo apportato. Tale fattispecie incriminatrice è stata, però, oggetto di una profonda modifica ad opera della legge n.127/1958, alla quale si deve l’attuale formulazione della disposizione cui è stato aggiunto l’inciso “ a titolo di colpa”. Dottrina e giurisprudenza prevalenti, dunque, configurano la responsabilità del direttore del giornale per i fatti commessi a mezzo stampa quale responsabilità colpevole, in ossequio al principio della responsabilità penale personale di cui all’art 27 della Costituzione.
La ratio della riforma è stata quella di superare definitivamente l’idea di una responsabilità del direttore fondata sulla posizione formalmente occupata, in favore di una responsabilità per fatto proprio e colpevole, più ossequiosa dei dettami costituzionali.
In relazione alla fattispecie di cui all’art 57 c.p., sulla stampa periodica, è possibile affermare, in linea con la giurisprudenza prevalente, che si tratta di una autonoma fattispecie monosoggettiva di agevolazione dell’altrui reato doloso, sempre che la condotta si perfezioni con l’omesso controllo del direttore sul materiale da pubblicare. Diversamente, qualora la condotta sia animata da dolo ( e non da colpa), e dunque supportata dall’intenzionalità di concorrere nel reato presupposto con l’autore dell’articolo, il direttore risponderà di concorso nel reato, secondo le modalità predisposte dall’art 110 c.p..
Dalla disposizione in esame emerge chiaro il limite che il prestigio, il decoro e la reputazione altrui imprimono sul diritto di cronaca, quale diretta manifestazione della libertà di stampa.
Il diritto di cronaca, infatti, può essere esercitato, pur derivandone una lesione all’altrui reputazione, prestigio o decoro, soltanto qualora vengano rispettate dal cronista alcune condizioni, e cioè: che la notizia pubblicata sia vera; che esista un interesse pubblico alla conoscenza dei fatti riferiti in relazione alla loro attualità ed utilità sociale; che l’informazione venga mantenuta nei giusti limiti della più serena obiettività. Sono quindi giustificate intromissioni nella sfera privata dei cittadini quando esse appaiono necessarie per contribuire alla formazione di una opinione pubblica su fatti oggettivamente rilevanti per la collettività. Questi principi, hanno rilevanza oltre che per il giornalista autore dell’articolo, anche per il direttore responsabile, con la differenza che per quest’ultimo deve farsi riferimento alla peculiare funzione del suo ruolo. Per il direttore responsabile,inoltre, assumono particolare rilievo i criteri dell’obiettività e della continenza. Egli, infatti, oltre a vigilare a che nessuno venga offeso attraverso gli articoli del giornale, ha la funzione di disporre, o quanto meno approvare, l’impaginazione e quindi la presentazione degli articoli, attraverso la loro disposizione nelle pagine e la redazione grafica e letterale dei titoli. L’aggressività di alcune espressioni usate da un giornalista, in linea di massima, non comporta in modo automatico la responsabilità del direttore, ma va valutata la correttezza dell’informazione anche in relazione alle modalità di presentazione, le quali possono alternativamente esaltare l’obiettività del contenuto dell’articolo, ovvero sottolinearne il carattere offensivo. Il direttore responsabile risponde quindi, del reato di cui all’articolo 57 c.p. qualora, nell’adempimento delle sue funzioni, venga meno all’obbligo di attestare la veridicità dei fatti narrati, anche se contenenti giudizi non lusinghieri per altri soggetti. In tal caso però deve essere rispettato il principio della continenza, sia evitando gratuite aggressioni all’altrui reputazione, sia proponendo, nel caso in cui ciò sia possibile, il confronto con il soggetto della cui reputazione si tratta. Il corretto bilanciamento del diritto di cronaca con quello del rispetto dell’altrui dignità, reputazione, prestigio e decoro, deve costituire il riferimento costate di chi dà l’informazione, senza per questo modificare il fatto per renderlo meno offensivo, ma anche evitando forme, modi o espressioni non necessarie, che ne aggravino il contenuto.
La natura della fattispecie delittuosa delineata dall’art. 57. c.p. è oggetto di dibattito. Secondo una risalente tesi tale reato andrebbe ricondotto alla categoria delle fattispecie colpose d’evento, giacchè il comportamento omissivo del direttore avrebbe incidenza eziologica sulla commissione di un reato a mezzo stampa che costituisce l’evento materiale del reato.
Come accennato, la problematica va rivolta all’alternativa configurabilità dell’illecito posto a carico del direttore come ipotesi di reato colposo autonomo oppure di concorso colposo in reato doloso: nel primo caso, ricorre una responsabilità per fatto proprio a condotta omissiva, punibile a titolo di colpa; nel secondo caso, invece, si ravvisa un reato in cui il direttore concorre con un terzo secondo la ordinaria disciplina normativa.
Dunque, quando viene commesso un delitto di diffamazione a mezzo di pubblicazione su un periodico, l’illecito in questione può essere rimproverato al direttore sotto duplice forma: o per colpa, ai sensi dell’art 57 c.p., qualora sia possibile ritenere che egli non abbia volontariamente contribuito alla realizzazione del reato; oppure per concorso, ex art 110 c.p. in combinato disposto con la fattispecie di parte speciale, quando sussistano indici che, in ordine al fatto concreto, consentano di ritenere un coinvolgimento volontario nel delitto realizzato dall’autore dell’articolo.
Orbene, la responsabilità del direttore per non avere impedito la commissione del reato è ben diversa da quella a titolo di concorso, la quale ultima, intanto può sussistere, in quanto siano presenti tutti gli elementi generalmente occorrenti a norma dell’art. 110 c.p., sicché l’addebito della sola omissione del controllo dovuto configura la fattispecie colposa di cui all’art. 57 c.p.. Ne deriva che sussiste l’ipotesi del reato “proprio” quando il direttore ometta il dovuto controllo e tale omissione sia l’espressione o di una consapevole volontà del soggetto o di mera negligenza o di superficialità. Pertanto, l’art. 57 c.p. codifica un’autonoma fattispecie di agevolazione colposa e dà soltanto rilevanza ad una condotta, analogamente alle previsioni incriminatrici di cui agli art. 254, 335 e 387 c.p., non perseguibile in applicazione delle disposizioni sul concorso di persone, in quanto l’art. 113 c.p. esclude la configurabilità di una partecipazione a titolo di colpa in un reato doloso, sicché la condizione per ammettere una forma di partecipazione sarebbe, di conseguenza, quella che il reato commesso in concorso fosse previsto dalla legge anche nella forma colposa.
La norma,poi, disciplina la responsabilità del direttore “fuori dai casi di concorso”, pertanto è ovvio che, qualora il direttore responsabile desse luogo ad una ipotesi di concorso di persone nel reato, la pena da irrogare sarebbe quella comminata per il reato stesso, e non quella prevista dall’art 57 c.p.. Nel caso di diffamazione, quindi, ricorrendo il concorso doloso del direttore nella fattispecie dolosa ex art 595 c.p.., la disciplina applicabile sarà quella del combinato disposto dell’art 110 e 595 c.p e non quella prevista dall’art 57 c.p..
Orbene, chiarita la distinzione tra la fattispecie di cui all’art 57 c.p. ed il concorso di cui all’art 110 c.p. nella diffamazione a mezzo stampa , la questione di maggiore rilievo ha riguardato la possibilità di estendere la suindicata disciplina al direttore del giornale telematico. Un orientamento giurisprudenziale, ormai consolidato, ha escluso l’estensibilità della disciplina analizzata al direttore del giornale online sulla base dell’impossibilità di interpretare estensivamente il concetto di stampa di cui all’art 1 della legge sulla stampa, cui l’art 57 c.p. implicitamente rinvia. In particolare, la diretta applicazione dell’art 57 c.p. al direttore della testata online, sarebbe dettata dall’impossibilità di ricomprendere tale testata nel concetto di stampa periodica, difettando di entrambi i requisiti previsti dalla normativa di riferimento. Inoltre la stessa velocità e portata massiva della divulgazione dell’articolo on line, cui accedono di propria iniziativa un numero indefinito di utenti, comportano l’impossibilità per il direttore di impedire la pubblicazione di contenuti diffamatori pubblicati direttamente dall’utenza. Osta, altresì, all’applicazione analogica della norma in questione anche l’art 14 delle preleggi, che vieta l’applicazione analogica di una norma incriminatrice, interpretata in malam partem, in contrasto con il principio di tassatività della fattispecie penale.
Un’altra questione di particolare rilevanza è, poi, quella che attiene alla responsabilità del direttore nel caso di articolo non firmato o firmato con pseudonimo.
In generale, la pubblicazione di un articolo senza nome comporta l’attribuzione dell’articolo alla redazione, e quindi al direttore. La firma ha la funzione di individuare la persona che si assume professionalmente la responsabilità delle notizie pubblicate. Nel caso di articolo sottoscritto, pertanto, il direttore è chiamato a rispondere solo del reato “proprio” previsto dall’art. 57 c.p. Il direttore che consenta, invece, la pubblicazione di un articolo anonimo assume in prima persona la responsabilità del contenuto, avendo comunque utilizzato lo strumento, di cui egli stesso può disporre, per la sua diffusione. Non si tratta di una “responsabilità obiettiva”, bensì di una consapevole condotta volta a diffondere uno scritto diffamatorio.
Nel caso di articolo diffamatorio firmato con pseudonimo, che viene associato per gli effetti al caso di articolo non firmato, la giurisprudenza più recente ha aderito in modo netto all’orientamento secondo cui, in tali ipotesi, il direttore responsabile del periodico risponde di concorso in diffamazione ex artt. 110 e 595, terzo comma, c.p., e non del reato di omesso controllo ex art. 57 c.p.. Tale conclusione non è altro che la diretta applicazione del principio già applicato in tema di articolo non recante alcuna firma. Perciò, anche a voler escludere che l’identità celata sia quella del direttore del giornale, ovverosia che lo stesso sia quantomeno coautore dello scritto, i Giudici hanno rafforzato il principio di diritto in base al quale l’articolo diffamatorio il cui autore rimane ignoto in assenza di diverse allegazioni, deve considerarsi di produzione redazionale ed è quindi riferibile al direttore della redazione, nella specie coincidente con il direttore responsabile del mensile per la sua consapevole condotta volta a diffondere lo scritto.
Dunque, anche nei casi di pubblicazione di un articolo diffamatorio firmato con pseudonimo, la giurisprudenza dominante ravvisa un’ipotesi di concorso del direttore nel delitto di diffamazione, escludendo in via di principio che costui possa rispondere, se del caso, del reato di omesso controllo ex art. 57 c.p. Peraltro, in tale contesto, i giudici eludono puntualmente l’accertamento del dolo mediante il ricorso a logiche presuntive.
Di fronte ad una simile conclusione, un orientamento di senso opposto denuncia che il riconoscimento della responsabilità del direttore in concorso con l’autore dell’articolo, rimasto tuttavia ignoto, comporta la violazione di legge penale in relazione agli artt. 110 e 595 c.p., nonché dell’art. 27, primo comma, Cost. sul carattere strettamente personale della responsabilità penale. Ciò è ancora più vero laddove non sia possibile riscontrare alcun elemento da cui evincere il consenso o la meditata adesione del presunto reo al contenuto della pubblicazione; inoltre, non sarebbe chiara la natura morale o materiale del contestato contributo concorsuale.
La Suprema Corte, tuttavia, è decisamente orientata a far risalire la responsabilità in capo al direttore sulla base della considerazione che un articolo firmato con pseudonimo debba considerarsi, salvo prova contraria, di provenienza redazionale: in sostanza, il direttore è il dominusdel periodico, titolare di un potere pressoché assoluto su quanto viene diffuso; pertanto, qualora sia pubblicato un articolo offensivo dell’altrui reputazione senza l’indicazione della persona che si assume professionalmente la responsabilità delle notizie in esso contenute, egli risponderà di concorso in diffamazione, in ragione della sua consapevole condotta volta a diffondere lo scritto.
Tuttavia, al fine di conformare tale ricostruzione ai criteri di ascrizione della responsabilità colpevole, i giudici della Suprema Corte hanno precisato che viene in rilievo la fattispecie concorsuale ( e non la responsabilità colpevole da omissione) quando, da un complesso di circostanze esteriorizzate nella pubblicazione del testo (come la forma, l’evidenza, la collocazione tipografica, i titoli, le illustrazioni e la correlazione dello scritto con il contesto culturale caratterizza l’edizione su cui compare l’articolo) possa dedursi il meditato consenso e la consapevole adesione al contenuto dell’articolo, quali indici sintomatici di un’inequivocabile scelta redazionale.
La ragione che spinge a preferire l’affermazione della responsabilità dell’imputato ai sensi degli artt. 110 e 595 c.p., a scapito della configurazione di una culpa in vigilando, è rappresentata dalla razionale esigenza di non dar luogo a una sorta di “zona franca” e a una interpretatio abrogansdella norma incriminatrice del reato di diffamazione, allorché questo sia commesso mediante l’uso di pseudonimo.
Dunque, pacificamente escluso che il direttore sia chiamato a rispondere del reato di diffamazione quale autore o coautore del testo, si contesta al soggetto qualificato di aver fornito il proprio consapevole apporto nella realizzazione della condotta tipica.
Sotto il profilo dell’accertamento causale, rileva la circostanza di aver autorizzato, in considerazione della posizione ricoperta, la pubblicazione dello scritto, in assenza della quale non si sarebbe certamente configurata l’offesa alla reputazione.
Dal punto di vista dell’elemento soggettivo, in ossequio all’orientamento in base al quale per valutare la sussistenza, la portata e le varie forme di responsabilità della diffamazione a mezzo stampa, bisogna considerare l’intero contesto nel quale l’affermazione offensiva è stata divulgata, la Cassazione ha ancorato la responsabilità dell’imputato al riscontro degli indici del meditato consenso e della consapevole adesione al contenuto dello scritto, sintomatici di una inequivocabile volontà di diffusione dello stesso. Come già evidenziato dalla giurisprudenza, tra le circostanze da cui dedurre detti elementi, riveste un ruolo di particolare rilievo l’esame del titolo dell’articolo diffamatorio, il quale (in quanto frutto di una volontaria scelta redazionale) assume una preponderante funzione orientativa nei confronti del lettore, spesso incline a una lettura sommaria della sostanza del testo.
Nondimeno, il fatto che la pubblicazione avvenga in forma anonima o con il ricorso a pseudonimi, ovverosia con artifici oggettivamente idonei a permettere all’autore di sottrarsi alle conseguenze della propria condotta di carattere diffamatorio, senza che il direttore operi alcun intervento sul contenuto dello scritto, dimostra che la sua condotta è stata animata dalla coscienza e volontà di cooperare alla commissione della diffamazione.
La premessa logica di un simile ragionamento si individua nella particolare figura del direttore responsabile, cui spettano il diritto di guidare la redazione in modo autonomo rispetto all’editore e la facoltà di apportare qualsivoglia modifica sul testo predisposto dal giornalista, salvo il diritto di quest’ultimo di non firmare l’articolo qualora si trovi in disaccordo.
Almeno sulla carta, dunque, le regole enunciate dai Giudici a fondamento dell’attribuzione della responsabilità concorsuale al direttore per la pubblicazione di un articolo a firma di pseudonimo sembrano rispettare i canoni della responsabilità colpevole; tuttavia, dal punto di vista pratico, il rigoroso accertamento in punto di adesione del direttore al contenuto dell’articolo, deve valutarsi, pena elusione, in concreto e tenendo conto del contesto operativo e dello spessore della diffamazione.
Quanto alla scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca, essa è configurabile solo quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto l’onere di esaminare, controllare e verificare la notizia, in modo da superare ogni dubbio, non essendo, a tal fine, sufficiente l’affidamento ritenuto in buona fede sulla fonte.
Infine, anche sul fronte della responsabilità civile, l’editore ed il direttore del giornale, in concorso, sono tenuti a risarcire il danno alla reputazione per l’articolo pubblicato in forma anonima, non potendo invocare l’esimente del diritto di critica.
In conclusione, molti dei nodi interpretativi esaminati in tema di stampa e di diffamazione a mezzo stampa, si scioglierebbero automaticamente solo attraverso un intervento del legislatore in merito.
Invero, nel marzo del 2015 si è arenato, in Senato, l’ultimo tentativo di articolata riforma della materia: il disegno di legge c.d. Costa. Nonostante la mancata approvazione della suddetta proposta, può essere utile fare attenzione ad alcune particolari soluzioni adottate dalle Camere nel testo unificato, per avere un’idea più chiara di quale fosse l’intenzione del legislatore, nonché di quali strade possano percorrersi per uscire dall’ impasseinterpretativo e dogmatico che si è tentato di mettere in luce.
Innanzitutto, il legislatore aveva optato per una esplicita equiparazione tra stampa cartacea e piattaforme onlinedi informazione. A tal fine si era pensato, in primo luogo, ad una rivisitazione dell’art. 1, l. 47/1948, cui si aggiungeva un comma finale che avrebbe esteso l’ambito applicativo della legge sulla stampa alle testate giornalistiche onlineregistrate. Inoltre, lo stesso art. 57 c.p. avrebbe dovuto essere oggetto di una profonda opera di revisione, prevedendosene l’applicabilità al direttore o vicedirettore responsabile di testata giornalistica online registrata.
Opportuna risultava, poi, la scelta di disciplinare la possibilità, per il direttore, di delegare le funzioni di controllo ad un giornalista idoneo a svolgerle. I tratti salienti della delega di funzioni ricordano quelli tipici dell’attività imprenditoriale, stante l’estensione sempre maggiore del giornalismo professionale. Non a caso, ragionando de jure condendo, una soluzione alternativa al problema potrebbe essere quella di ricorrere, anche con riferimento all’“impresa giornalistica”, al sistema di responsabilità da reato dell’ente di cui al d.lgs. 231/2001. In questo modo si eviterebbero le difficoltà di accertamento della responsabilità del direttore, nonché il rischio di sconfinamenti verso forme di responsabilità oggettiva se non addirittura di posizione. Ferma restando in ogni caso la necessità di dimostrare il difetto di organizzazione del soggetto collettivo.
In conclusione, le soluzioni al problema di una più equa ripartizione delle responsabilità scaturenti dalla commissione di un reato a mezzo stampa, in particolare nell’ipotesi in cui non ne sia noto l’autore principale, non mancano. Sarebbe auspicabile, dunque, che il legislatore riadattasse il dettato normativo alla mutata realtà, sollevando gli operatori del diritto dalla tentazione di ardite, quanto discutibili operazioni ermeneutiche.