LA NULLITÀ DEL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO: PROFILI SOSTANZIALI E PROCESSUALI
LA NULLITÀ DEL PROVVEDIMENTO AMMINISTRATIVO: PROFILI SOSTANZIALI E PROCESSUALI
Pubblicato il 27/02/2016 autore Valentina Zuccherino
La categoria della nullità, come forma radicale di invalidità riferita al provvedimento, costituisce una relativa novità nell’ambito del diritto amministrativo. E’ solo con la legge n. 15/2005, infatti, che il legislatore ne detta una disciplina positiva, introducendo l’art. 21-septies nella legge n. 241/90. La sanzione della nullità, compiutamente disciplinata dal codice civile, ha infatti tradizionalmente ad oggetto i negozi di diritto privato e non i provvedimenti, per i quali, fino all’intervento riformatore citato in apertura, era previsto il solo rimedio generale dell’annullabilità. Per comprendere le ragioni alla base della storica esclusione della categoria della nullità dall’ambito del diritto amministrativo occorre preliminarmente guardare alle caratteristiche del rimedio di matrice civilistica. La nullità è una forma di invalidità, figura che la teoria generale del diritto individua come sanzione che colpisce il negozio (o il provvedimento) la cui difformità rispetto al paradigma legale produce una lesione del concreto interesse che la norma violata intende tutelare. L’invalidità può assumere, a seconda della gravità della divergenza tra fattispecie concreta e modello legale, la forma della annullabilità o -appunto- della nullità. In particolare, il primo rimedio è generalmente volto a sanzionare i casi in cui un elemento della fattispecie risulti viziato ed è posto a tutela di interessi particolari mentre la più radicale figura della nullità è tradizionalmente legata alla mancanza di un elemento costitutivo della fattispecie ed è posta a tutela di interessi generali. La diversa gravità delle due figure si riflette anche nella loro disciplina: l’annullabilità del negozio (o del provvedimento) produce l’inefficacia dello stesso a partire dalla pronuncia costitutiva che la accerta (inefficacia ex nunc), è connotata da una legittimazione attiva relativa ( può invocarla soltanto il titolare del diritto/interesse leso dal negozio/provvedimento viziato), è previsto un termine di decadenza entro il quale farla valere, non è rilevabile d’ufficio dal giudice ed è oggetto di possibile convalida; al contrario la sanzione della nullità accerta l’inefficacia ab origine del negozio/provvedimento (inefficacia ex tunc), opera di diritto, è rilevabile ex officio dal giudice e, in ogni tempo, da chiunque vi abbia interesse (legittimazione attiva generale e imprescrittibilità) e non può essere oggetto di convalida. La sanzione della nullità è quindi una sanzione radicale volta a rimuovere dall’ordinamento giuridico un negozio affetto da gravi patologie quali, secondo la disciplina civilistica dell’istituto, la mancanza di un elemento essenziale ( nullità strutturale), la contrarietà del negozio a norme imperative (nullità virtuale) o a specifiche norme di cui l’ordinamento impone l’osservanza a pena di nullità (nullità testuali). La categoria della nullità è stata da alcuni interpreti accostata e talvolta sovrapposta a quella dell’inesistenza che tuttavia è oggi considerata una figura concettualmente diversa dal rimedio in analisi. In effetti, a parità di effetti ( inidoneità del negozio a produrre effetti ab origine), le due categorie descrivono fenomeni diversi. L’inesistenza ricorre nei casi in cui è impossibile ricondurre la fattispecie concreta ad una fattispecie astratta tanto che la prima risulta sostanzialmente inqualificabile sulla base delle categorie giuridiche. L’inesistenza è cioè una figura che attiene alla ricorrenza o meno della fattispecie descrivendo un difetto di tipicità che rende il negozio ontologicamente inqualificabile e quindi sterile sotto il profilo dell’efficacia. La nullità è invece la sanzione che ha ad oggetto un negozio esistente e “qualificabile” , ma tuttavia inidoneo a produrre i suoi effetti tipici in ragione della grave difformità rispetto al modello legale. Nonostante il giudice accerti e dichiari l’invalidità originaria dell’atto ( sub specie nella forma della nullità) è infatti ben possibile che il negozio nullo abbia prodotto degli effetti da un punto di vista materiale o degli effetti che discendono dalla legge ( esso ad esempio può produrre gli effetti di un diverso negozio di cui presenti tutti gli elementi essenziali ai sensi dell’art. 1424 c.c.) cosa che invece non può accadere nel caso di negozio inesistente che è per l’ordinamento assolutamente irrilevante. E’ evidente comunque che risulta superato il risalente approccio funzionale- nato con riferimento al diritto civile ed esteso all’ambito del diritto amministrativo- che collegava l’esistenza del negozio (o atto) alla sua efficacia (un negozio/ atto può ritenersi giuridicamente rilevante solo se produttivo di effetti) a favore di un approccio sostanziale in base al quale l’accertamento circa l’esistenza/rilevanza del negozio o del provvedimento deve essere fatta ex ante e a prescindere dalla sua idoneità a produrre effetti, valutazione che che costituisce logicamente un posterius. Svolta questa premessa sullo statuto generale della nullità e degli istituti con essa confinanti risulta più agevole comprendere la ragione per cui sino agli anni duemila essa sia stata categoria non prevista- in via generale -nell’ambito del diritto amministrativo. In particolare in passato si è ritenuto che la sanzione della nullità – trasferita nell’ambito del diritto amministrativo- mal si conciliasse con la immediata eseguibilità del provvedimento amministrativo : l’ordinamento avrebbe infatti previsto allo stesso tempo l’immediata eseguibilità del provvedimento amministrativo e la sua inidoneità a produrre effetti ab origine in caso di nullità così cadendo in una (apparente) contraddizione di sistema. Parimenti si è ritenuto che il rimedio civilistico della nullità, così come disciplinato dal codice civile, non potesse essere automaticamente applicato nell’ambito del diritto amministrativo data la inconciliabilità tra gli schemi negoziali e la struttura del provvedimento amministrativo: contratto e provvedimento assolvono infatti a funzioni completamente diverse, il primo è espressione di autonomia negoziale fra la parti ed è sostanzialmente libero nelle forme e nei fini mentre il secondo è espressione di discrezionalità amministrativa la quale è esercitata in conformità alla legge attributiva del potere e funzionalizzata alla cura dell’interesse pubblico. Sulla base dell’impostazione citata ( c.d. pan-pubblicistica) quindi non si sarebbe potuto procedere alla mera trasposizione della nullità civilistica nel diritto amministrativo essendo questo connotato da elementi di autonomia e specialità rispetto al diritto comune. Nei casi di più grave patologia del provvedimento amministrativo si sarebbe al limite dovuti ricorrere alla categoria dell’inesistenza. Inoltre si è sostenuto che l’annullabilità, unica forma di invalidità storicamente riconosciuta nel processo amministrativo, è una figura autonoma e per certi versi più ampia rispetto alla corrispondente figura civilistica: alcune delle patologie che il codice civile colpisce con la sanzione della nullità infatti ricadono- mutatis mutandis- tra i vizi dell’atto amministrativo determinandone la mera annullabilità. Si pensi alla nullità virtuale prevista dall’art. 1418 c.c.: il provvedimento amministrativo adottato in violazione di leggi imperative ( e le leggi che attribuiscono o regolano l’esercizio del potere amministrativo sono sempre imperative) è un provvedimento annullabile risultando affetto dal vizio di violazione di legge. Ci si chiedeva inoltre come potesse configurarsi una nullità strutturale del provvedimento mancando nella disciplina amministrativa una previsione analoga all’art. 1325 c.c. che ne individuasse gli elementi essenziali. Altra impostazione, invero minoritaria, ha ritenuto che che l’assenza di una specifica disciplina della nullità amministrativa non fosse d’ostacolo all’ammissibilità della figura di invalidità nel diritto amministrativo, imponendosi soltanto l’assoggettamento della relativa azione alla disciplina civilistica dell’istituto (tesi negoziale). A ridosso dell’intervento riformatore invero la giurisprudenza maggioritaria ha mostrato di aderire ad una posizione intermedia tra le due appena menzionate, ammettendo tra le forme di invalidità del provvedimento amministrativo anche la categoria della nullità, ma nelle sole ipotesi di nullità testuale e strutturale. Ebbene, il legislatore interviene nel 2005 consacrando in parte la posizione più temperata attraverso la tipizzazione della categoria della nullità nell’art. 21-septies della l. 241/90 il quale prevede che “ è nullo il provvedimento amministrativo che manca degli elementi essenziali, che è viziato da difetto assoluto di attribuzione, che è stato adottato in violazione o elusione di giudicato, nonché negli altri casi previsti dalla legge”. La scelta del legislatore, a bene vedere, è quella di tipizzare le ipotesi di nullità disegnando un rimedio tipico contrapposto al rimedio della annullabilità che invece resta la forma di invalidità generale del provvedimento amministrativo. Nell’individuazione delle ipotesi di nullità il legislatore del 2005 disegna un rimedio autonomo e speciale rispetto al corrispondente rimedio civilistico: accanto alle ipotesi di nullità strutturale e testuale che rimandano alla formulazione dell’art. 1418 c.c. compaiono infatti le ipotesi di nullità per difetto assoluto di attribuzione e la nullità del provvedimento per elusione o violazione del giudicato le quali rispondono a specifiche esigenze del processo amministrativo e con le quali sono state recepite le posizioni già espresse da parte della giurisprudenza. Da subito gli interpreti si sono interrogati sull’esatta interpretazione dell’espressione “difetto assoluto di attribuzione” pervenendo a conclusioni differenti. Per la giurisprudenza maggioritaria con tale espressione il legislatore ha inteso riferirsi alle ipotesi di “ carenza di potere in astratto” e di “incompetenza assoluta”: la prima patologia è riferita all’ipotesi in cui la p.a. abbia emanato un provvedimento in assenza di una norma attributiva del potere mentre la seconda si riferisce all’ipotesi in cui il provvedimento sia stato emanato da un organo appartenente ad un plesso dell’amministrazione diverso rispetto a quello cui la legge attribuisce il potere. In entrambe i casi la posizione giuridica soggettiva del privato rispetto all’atto emanato ha la consistenza del diritto soggettivo e quindi la giurisdizione spetta al giudice ordinario. Non ha infatti avuto riconoscimento il tentativo della Corte di Cassazione, quale organo regolatore della giurisdizione, di attrarre alla giurisdizione del giudice ordinario anche l’ipotesi della “carenza di potere in concreto” e cioè l’ipotesi in cui la norma attributiva del potere esista, ma la p.a. abbia esercitato il potere in assenza dei presupposti e delle condizioni previste dalla legge: la giurisprudenza oggi consolidata fa infatti rientrare questa ipotesi nel vizio di violazione di legge sanzionato con la mera annullabilità e attribuisce dunque la giurisdizione al giudice amministrativo. Parte della dottrina ritiene tuttavia che con l’espressione “ difetto assoluto di attribuzione” il legislatore abbia inteso riferirsi alla sola ipotesi di “incompetenza assoluta” come contrapposta all’incompetenza relativa ( ipotesi in cui il provvedimento viene emanato da un organo della p.a. diverso da quello individuato dalla legge, ma appartenente allo stesso plesso dell’amministrazione) che, come noto, costituisce un vizio del provvedimento cui corrisponde il rimedio della annullabilità. Secondo i fautori di questa tesi l’atto adottato in “carenza di potere in astratto” sarebbe invece inesistente in quanto, mancando una legge attributiva del potere, l’atto non sarebbe riferibile ad un’autorità né quindi qualificabile come provvedimento. Per quanto riguarda le nullità testuali invece occorre rilevare che, ben prima dell’intervento riformatore del 2005, già esistevano nella disciplina amministrativa ipotesi specifiche di nullità con cui il legislatore aveva voluto sanzionare con una forma di invalidità più radicale della annullabilità gli atti affetti dalle patologie più gravi. In particolare, in alcuni settori “sensibili” del diritto pubblico, il legislatore aveva ritenuto non ammissibile assoggettare il regime di invalidità degli atti alla disciplina dell’annullabilità ed in particolare al termine decadenziale per l’impugnazione e alla legittimazione relativa e così aveva previsto delle specifiche (testuali) ipotesi di nullità fra le quali, a titolo esemplificativo, quella dell’atto emanato oltre i termini di prorogatio (l. n. 444 del 1994), quella prevista per gli accordi sottoscritti tra privati e p.a. in assenza di forma scritta (art. 11 l. 241 del 1990) o quella prevista per l’assunzione di dipendenti pubblici in assenza di concorso (d.P.R. n. 3 del 1957). L ‘art. 21-septies della l. 241/90, con l’espressione “ nonché negli altri casi previsti dalla legge” non fa altro che rinviare a tutte le specifiche ipotesi di nullità (presenti e future) dettate dalla disciplina amministrativa. L’art. 21-septies fa poi riferimento all’ipotesi del provvedimento mancante degli elementi essenziali (nullità strutturale) prevedendone appunto la nullità: il dettato normativo ha dunque indotto gli interpreti ad interrogarsi su quali siano gli elementi essenziali del provvedimento, mancando una norma corrispondente all’art. 1325 c.c. nell’ambito del diritto amministrativo. Ebbene, l’esegesi della novella ha comportato il definitivo superamento dell’impostazione panpubblicistica alla stregua della quale la mancanza strutturale del provvedimento poteva tradursi soltanto (e alternativamente) nella sua inqualificabilità e quindi nella sua inesistenza oppure nella sua illegittimità e quindi in un vizio comportante la mera annullabilità. E’ prevalsa infatti l’impostazione negoziale che traspone, adeguandola, la categoria della nullità strutturale prevista in ambito civilistico in ambito amministrativo: la nullità in questione atterrebbe quindi al difetto dei requisiti essenziali del provvedimento individuati nel soggetto, nell’oggetto, nella forma e nella causa. Ricadranno quindi nell’ipotesi di nullità strutturale ad esempio i provvedimenti emanati dal soggetto la cui investitura sia viziata o inesistente, quelli dal contenuto indeterminato o indeterminabile con riferimento all’assetto di interessi predisposto, quelli aventi ad oggetto un bene inesistente o incidenti sulla posizione giuridica di un soggetto inesistente, quelli rispetto ai quali manchi la volontà della p.a. (come nell’ipotesi di provvedimento emanato dal funzionario per effetto di coercizione) o ancora quelli che presentano difetti essenziali di forma come la mancanza di sottoscrizione (ipotesi che in passato rientrava nei casi di inesistenza e che oggi, al contrario, può degradare a mera ipotesi di irregolarità se il provvedimento risulti comunque riferibile ad un organo della pubblica amministrazione grazie ad elementi diversi dalla sottoscrizione). Fra le ipotesi tipiche di nullità inoltre il legislatore indica il caso del provvedimento emanato in violazione o elusione del giudicato: questa formula individua l’ipotesi in cui la pubblica amministrazione emetta un provvedimento il cui contenuto violi o eluda il preciso obbligo conformativo che sulla stessa incombe per effetto di una pronuncia definitiva del giudice amministrativo. L’opzione del legislatore è stata infatti quella di parificare l’ipotesi di elusione e quella di violazione del giudicato prevedendo per entrambe i casi la sanzione della nullità. In passato, invero, la giurisprudenza maggioritaria ha distinto l’ipotesi di violazione da quella di elusione del giudicato individuando nel grado di vincolatività del dictum contenuto nella pronuncia definitiva il criterio distintivo tra le due figure. In particolare,secondo questa ricostruzione, se la pronuncia definitiva è caratterizzata da un contenuto precettivo preciso che non lascia alla p.a. margini di discrezionalità rispetto all’obbligo conformativo allora il provvedimento adottato in violazione di quel contenuto configura un’ipotesi di elusione del giudicato che radica la giurisdizione del giudice dell’ottemperanza se invece la pronuncia definitiva non vincola la p.a. all’adozione di atti specifici ma lascia profili di discrezionalità nell’esecuzione dell’obbligo conformativo allora si configura un’ipotesi di violazione del giudicato che radica la giurisdizione del g.a. in sede di legittimità. L’art. 21-septies ha evidentemente superato questa distinzione valorizzando l’oggetto proprio del giudizio di ottemperanza e prevedendo sia per l’ipotesi di elusione che per quella di violazione del giudicato il rimedio della nullità. La giurisprudenza ha dunque specificato che la p.a. incorre nell’ipotesi di elusione o violazione del giudicato allorchè, dopo la formazione del giudicato, eserciti nuovamente la medesima potestà pubblica -già illegittimamente esercitata- in contrasto con il contenuto precettivo del giudicato amministrativo (violazione del giudicato) ovvero cerchi di ottenere il medesimo risultato (illegittimo) attraverso un’attività connotata da sviamento di potere come nel caso di esercizio di una potestà formalmente diversa in palese carenza dei presupposti che lo giustificano (elusione del giudicato). Occorre a questo punto della trattazione dare atto che alla illustrata disciplina sostanziale della forma di invalidità il legislatore del 2005 non ha fatto corrispondere una apposita disciplina processuale. In particolare, l’unica previsione processuale inserita all’epoca dell’intervento riformatore è stata quella di cui al secondo comma dell’art. 21-septies, l. 241/90 a tenore del quale “ Le questioni inerenti alla nullità dei provvedimenti amministrativi in violazione o elusione del giudicato sono attribuite alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.” Ci si è chiesti sin da subito dunque quale significato attribuire al silenzio serbato dal legislatore con riferimento alla generale disciplina dell’azione di nullità nel processo amministrativo e, in particolare, al regime giuridico della giurisdizione nelle altre ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo. La maggioranza degli interpreti hanno letto l’omissione legislativa come un implicito rinvio alla disciplina civilistica dell’azione di nullità da trasporsi, salva una valutazione di compatibilità, nel giudizio dinanzi al giudice amministrativo. Ciò evidentemente riduceva in modo rilevante l’operatività del rimedio posta la incompatibilità di fondo tra disciplina civilistica della nullità e natura caducatorio-costitutiva del processo amministrativo (si pensi al termine di decadenza dell’azione di annullamento rispetto all’imprescrittibilità dell’azione di nullità civilistica o alla natura dichiarativa e di accertamento dell’azione di nullità in sede civilistica allora non pacificamente ammissibile nel processo amministrativo). A ben vedere, inoltre, al di là della previsione contenuta nel secondo comma dell’art. 21-septies, mancava una norma che ammettesse espressamente l’ammissibilità dell’azione di nullità dinanzi al g.a. tanto da condurre parte della dottrina a ritenere che dalla giurisdizione esclusiva del g.a. sulla nullità degli atti violativi o elusivi del giudicato discendesse, a contraris, una giurisdizione esclusiva del giudice ordinario in tutte le altre ipotesi di nullità del provvedimento amministrativo. Sulla questione della giurisdizione relativa alle nullità diverse da quella espressamente disciplinata, infatti si sono confrontate tesi differenti: per un primo orientamento, da ultimo accennato, la giurisdizione sulle controversie attinenti la nullità del provvedimento amministrativo dovrebbe radicarsi sempre in capo al g.o. dato che dinanzi ad un provvedimento privo di efficacia ab origine sussisterebbe sempre un diritto soggettivo del privato all’accertamento della nullità; per altro orientamento occorrerebbe invece ricorrere al consueto criterio di riparto della giurisdizione basato sulla consistenza della posizione giuridica soggettiva del privato nell’ambito della controversia sull’atto nullo; infine, un’ultima impostazione ha sostenuto che la giurisdizione sulle controversie relative agli atti nulli spetti sempre al g.a. posto che questi sono comunque adottati in presenza di una norma attributiva di potere ( si tratta della posizione sostenuta da chi ricollega la sola ipotesi di incompetenza assoluta alla formula “ difetto assoluto di attribuzione” ritenendo a contrario che l’atto adottato in carenza di potere in astratto sia inesistente). A breve tempo dall’intervento del 2005, tuttavia, la Corte Costituzionale afferma in via definitiva quale sia il criterio di riparto della giurisdizione prescritto dalla corretta lettura della Costituzione affermando che sussiste sempre la giurisdizione del giudice amministrativo quando viene in rilievo il potere autoritativo della P.A. , restando irrilevante la verifica circa l’efficacia degradatoria del provvedimento sulla posizione giuridica del privato. Si consolida quindi rispetto alla giurisdizione il criterio di riparto fondato sulla posizione giuridica soggettiva fatta valere in giudizio (petitum sostanziale): se l’atto nullo ha inciso su un diritto soggettivo preesistente la giurisdizione spetta al g.o., se invece a fronte dell’atto nullo sussiste un interesse legittimo (pretensivo) la giurisdizione spetta al g.a. A questo punto tuttavia gli interpreti hanno dovuto affrontare la questione di fondo dell’ammissibilità di un’azione di accertamento (quale quella di nullità) nel processo amministrativo dove il giudice, al di là delle ipotesi espressamente previste, è dotato di soli poteri cognitori diretti all’annullamento del provvedimento. A questo proposito si sono allora individuate soluzioni differenti. Una parte della giurisprudenza ha ammesso in via teorica l’azione di accertamento della nullità nel processo amministrativo, ritenendo tuttavia che il giudizio si dovesse concludere con una pronuncia di annullamento dell’atto nullo. Altra parte della giurisprudenza ha tentato di addivenire al medesimo risultato di una pronuncia dichiarativa di accertamento attraverso il ricorso alle pronunce di rito. Sulla base di tale ricostruzione, a fronte di un ricorso per l’annullamento di un provvedimento amministrativo gravemente viziato, il giudice amministrativo deve accertare incidentalmente e in via pregiudiziale la nullità dell’atto e pronunciare la conseguente inammissibilità del ricorso per difetto di interesse ad agire sulla base della sequenza logica: “assoluta inefficacia dell’atto-assenza di lesione-carenza di interesse ad agire-inammissibilità del ricorso”. Questa impostazione tuttavia non ha convinto la dottrina prevalente e parte della giurisprudenza le quali hanno criticamente osservato che qualsiasi pronuncia del giudice amministrativo, tanto quella costitutiva di annullamento tanto quelle di condanna e di esecuzione, implicano necessariamente un accertamento (dell’illegittimità o dell’illiceità o dell’obbligo di conformazione) e che quindi non sussistono ostacoli al riconoscimento di un’azione di mero accertamento in assenza di specifica previsione. Inoltre, hanno sostenuto i precursori della discplina del c.p.a., l’inefficacia ab origine del provvedimento nullo non implica automaticamente la carenza di interesse ad impugnare, ben potendo il privato avere interesse ad una sentenza dichiarativa della nullità ad esempio a fini risarcitori o per la rimozione degli effetti materiali comunque prodotti dal provvedimento nullo. L’accertamento con cui il giudice accerta incidentalmente la nullità dell’atto prima di pronunciare l’inammissibilità del ricorso, inoltre, costituirebbe un accertamento incidenter tantum inidoneo ad assumere valore di giudicato per cui la p.a. ben potrebbe reiterare il provvedimento o convertirlo. Ebbene, il problema è stato risolto con il codice del processo amministrativo che all’art. 31, co.4 ha espressamente previsto l’azione di nullità, disponendo che “ La domanda volta all’accertamento delle nullità previste dalla legge si propone entro il termine di decadenza di centottanta giorni. La nullità dell’atto può sempre essere opposta dalla parte resistente o essere rilevata d’ufficio dal giudice. Le disposizioni del presente comma non si applicano alle nullità di cui all’articolo 114, comma 4, lettera b), per le quali restano ferme le disposizioni del Titolo I del Libro IV”. Con una disposizione ad hoc nel codice di rito del processo amministrativo si elimina ogni dubbio circa l’esperibilità dell’azione di accertamento autonomo della nullità dinanzi al giudice amministrativo nell’ambito di un disegno generale di arricchimento delle tutele del cittadino dinanzi all’azione della pubblica amministrazione. Dalla disciplina dettata dall’art. 31, co.4 appare da subito evidente che si tratta di una disciplina autonoma e speciale rispetto alla disciplina processuale della corrispondente azione civilistica: la previsione di un termine di decadenza di centottanta giorni è particolarmente eloquente in questo senso e corrisponde ad una scelta legislativa che prende le distanze dalle tesi che si erano avvicendate prima del c.p.a. In particolare, il codice di rito non ha accolto la tesi tradizionale sulla base della quale l’azione di nullità doveva farsi valere nell’ordinario termine di impugnazione per ridurre l’incertezza circa l’efficacia dell’atto amministrativo né ha aderito all’opposto orientamento che riteneva estensibile la regola dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità prevista in ambito civilistico. La nullità, oltre che rilevabile attraverso l’esercizio della apposita azione nel termine di centottanta giorni, può sempre essere sollevata in via d’eccezione dalla parte resistente in giudizio e può essere rilevata d’ufficio dal giudice. La previsione per cui la parte resistente può sempre sollevare in giudizio l’eccezione di nullità ha sollevato qualche dubbio interpretativo: in particolare, ci si è chiesti per quale motivo la pubblica amministrazione (che è formalmente la parte resistente nel processo amministrativo) dovrebbe eccepire una invalidità che essa stessa ha prodotto. Si potrebbe pensare che in un giudizio instaurato per l’annullamento di un suo atto la p.a. eccepisca la più grave forma di invalidità del provvedimento impugnato in un’ottica di salvaguardia dell’interesse generale che le imporrebbe di perseguire la rimozione radicale degli atti affetti da gravi vizi e, nella stessa logica, la previsione consentirebbe alla p.a. convenuta di opporre in giudizio la nullità dell’atto tutte le volte in cui il privato sia incorso nel termine di decadenza per rilevarla. Questi scenari sono tuttavia poco plausibili e pertanto la dottrina maggioritaria ha optato per una differente interpretazione della norma, ricorrendo alla distinzione teorica da resistente in senso formale e resistente in senso sostanziale. Ebbene la previsione si riferirebbe non alla p.a., ma al privato quando si trova nella posizione di resistente sostanziale e cioè nelle ipotesi in cui, ad esempio, questi abbia impugnato un provvedimento esecutivo senza aver contestualmente impugnato l’atto a monte e la p.a. denunciasse in giudizio la mancata impugnazione dell’atto presupposto: il privato in questo caso, divenuto resistente sostanziale, potrebbe sempre eccepire la nullità dell’atto presupposto. Stesso discorso inoltre si potrebbe estendere al caso di azione autonoma per il risarcimento del danno esercitata senza aver impugnato i provvedimenti che hanno dato causa al danno e per i quali è scaduto il termine di impugnazione: la nullità dei provvedimenti ormai inoppugnabili sarebbe sempre invocabile dal privato che agisce per i danni. Sulla questione della rilevabilità d’ufficio, invece, bisogna dare atto che la previsione costituisce una deroga all’impostazione di stampo soggettivo della giurisdizione amministrativa la quale, in accordo con il principio dispositivo e della domanda , è volta a soddisfare l’interesse legittimo del privato che si confronta con la pubblica amministrazione. La previsione che consente al giudice di rilevare la nullità dell’atto a prescindere dalla specifica richiesta delle parti, tuttavia, non è l’unica parentesi di giurisdizione oggettiva presente nel nuovo ordinamento processuale amministrativo ( si pensi alla legittimazione all’impugnazione degli atti della p.a. che che l’art. 21-bis, l. 287/90 riconosce in capo all’Autorità antitrust) ed inoltre non ha incontrato i medesimi limiti, legati al rispetto del principio dispositivo, che la corrispondente previsione ha trovato nell’ambito del processo civile. La preminenza dell’interesse pubblico ( con il quale gli interessi legittimi devono perennemente confrontarsi a differenza dei diritti soggettivi) orienta infatti l’attività della pubblica amministrazione e permea anche la disciplina del processo amministrativo che si configura dunque come autonoma e speciale rispetto a quella del processo civile. Infine, esaurendo la questione della rilevabilità è pressoché pacifico che anche i terzi siano legittimati ad esercitare l’azione di nullità sempre che siano portatori di un interesse personale all’accertamento dell’invalidità e alla conseguente pronuncia declaratoria. La disciplina processuale dell’azione di nullità sinora analizzata dice poco rispetto alla giurisdizione, limitandosi a prevedere quella del giudice dell’ottemperanza per le nullità relative agli agli atti adottati in violazione o elusione di giudicato. Invero questa previsione, letta in modo sistematico all’interno del c.p.a, risolve i dubbi interpretativi che il secondo comma dell’art. 21-septies (ora confluito nell’art. 133 c.p.a.) aveva suscitato nell’attribuire alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie aventi ad oggetto le nullità degli atti per violazione o elusione del giudicato senza prevedere l’estensione al merito dei poteri cognitori di tale giudice. Ebbene, dal combinato disposto delle previsioni contenute nel c.p.a. si comprende infatti che il legislatore ha inteso confermare la giurisdizione del g.a., il quale, in sede di ottemperanza, può dichiarare la nullità degli atti adottati in violazione o elusione del giudicato e al contempo ha ricondotto l’ottemperanza nella giurisdizione esclusiva del g.a. ( art. 133 co. 1, n.5) e nella giurisdizione di merito ( art. 134, co.1 lett.a). Con riferimento alle altre ipotesi di nullità, in mancanza di un’espressa indicazione della giurisdizione, la giurisprudenza e la dottrina maggioritarie fanno riferimento al canonico criterio di riparto fondato sulla consistenza della posizione giuridica fatta valere in giudizio per cui se il provvedimento nullo incide un diritto soggettivo preesistente la giurisdizione spetta al giudice ordinario mentre se il provvedimento nullo incide su un interesse legittimo ( in particolare viene in rilievo l’ipotesi di interessi legittimi pretensivi incisi da un provvedimento di diniego) allora la giurisdizione si incardinerà presso il giudice amministrativo. A tal proposito la questione che resta da indagare è se il privato titolare di un diritto soggettivo – e quindi legittimato ad esperire l’azione di nullità dinanzi al g.o. – possa scegliere di esperire l’azione di nullità dinanzi al g.a. per ottenere una pronuncia dichiarativa in sede amministrativa. La risposta offerta dalla dottrina maggioritaria è positiva posto che il privato ben può avere interesse all’ottenimento di una pronuncia del giudice amministrativo posto che dalla declaratoria di nullità discende la effettiva e radicale rimozione (valida erga omnes) dell’atto dall’ordinamento e consente al privato l’accesso al giudizio di ottemperanza per scongiurare ogni tentativo di elusione del giudicato da parte della p.a. soccombente.