La violenza sessuale di gruppo e la rilevanza dell’abuso di autorità
La violenza sessuale di gruppo e la rilevanza dell’abuso di autorità
La rilevanza dell’abuso d’autorità nel reato di violenza sessuale è una tematica complessa e
dibattuta, tanto da meritare, in tempi recenti, l’intervento delle Sezioni Unite.
Ed invero, prima di addentrarsi nei meandri della specifica questione, è indispensabile, ai fini di una
miglior comprensione, una panoramica dell’evoluzione legislativa dei reati in materia di violenza
sessuale.
Nell’originaria stesura del codice del ‘30, i delitti di violenza sessuale rientravano nei delitti “contro
la moralità pubblica e il buon costume”.
Altresì, il legislatore distingueva le condotte di violenza carnale (art. 519 c.p.) e gli atti di libidine
violenta (art. 521 c.p.), prevedendo pene diverse.
Ebbene, dalla collocazione sistematica delle fattispecie in oggetto appare chiaro che la libertà
sessuale non era considerata un bene personale ed individuale, bensì ritenuto appannaggio dello
Stato. Infatti, in un regime autoritario e fascista, l’individuo non veniva tutelato come valore in sé,
ma nella misura in cui era strumentale per aumentare “la potenza della razza” e, dunque, dello Stato
medesimo.
Il predetto quadro viene scardinato dall’avvento dello Stato repubblicano e della Costituzione del
‘48, che pongono al centro del sistema l’individuo ed i suoi diritti: basti pensare all’art. 2 Cost., il
quale riconosce e garantisce “i diritti inviolabili dell’uomo”.
In tale ottica, deve attribuirsi alla storica L.66/96 il merito di aver innovato e reso i delitti di
violenza sessuale compatibili con il nuovo assetto valoriale delineato dalla Costituzione.
In prima battuta, la legge ha abrogato il precedente titolo dedicato ai delitti contro la moralità
pubblica ed il buon costume, “trasferendo” i delitti di violenza sessuale nella sezione dedicata ai
“delitti contro la libertà personale”, segnatamente agli artt. 609-bis e s.s. c.p.
Or dunque, il bene giuridico tutelato assume una caratura individuale, consistendo nella libertà
sessuale, ossia nel diritto di ciascun individuo di autodeterminarsi liberamente ed autonomamente
con riguardo alla sua sfera più intima e privata.
Rappresentano un’importante eccezione rispetto a quanto appena asserito i reati di violenza sessuale
commessi in danno di minori, il cui esempio più significativo è rappresentato dall’art. 609-quater
c.p., rubricato “atti sessuali con minorenne”.
Il legislatore, infatti, ritiene che il minore, poiché presenta una personalità in via di sviluppo e di
costruzione, non sia in grado di manifestare un consenso reale ed effettivo. Di conseguenza, in tali
ipotesi, il bene giuridico tutelato non è l’autodeterminazione sessuale del minore, bensì la sua
crescita serena ed equilibrata ed il suo normale sviluppo psico-fisico.
Altresì, la L. 66/96 ha eliminato le suesposte fattispecie di violenza carnale e di atti di libidine,
accorpandole nell’unico art. 609-bis c.p., rubricato come “violenza sessuale”.
Da ultimo, deve darsi atto che una delle modifiche più degne di nota recate dalla legge del ‘96 è
indubbiamente l’introduzione dell’art. 609-octies c.p., rubricato come “violenza sessuale di
gruppo”. Ai sensi dell’art. 609-octies comma 1° c.p. la violenza sessuale di gruppo “consiste nella
partecipazione, da parte di più persone riunite, ad atti di violenza sessuale di cui all’art. 609-bis
c.p”.
Ebbene, la ratio della norma neofita si ravvisa, chiaramente, nella “voluntas legis” di punire lo
stupro di gruppo con una pena di gran lunga più severa di quella che discenderebbe
dall’applicazione delle norme disciplinanti il concorso di persone nel reato monosoggettivo (artt.
110 e 609-bis c.p.). E tale scelta legislativa deve ritenersi pienamente coerente con il principio di
necessaria offensività (ricondotto agli artt. 49 comma 2° c.p. e 25 comma 2° Cost.), attesa la
maggior scarica lesiva che deriva da una violenza gruppale: infatti, non è revocabile in dubbio che
la vittima, di fronte ad un “branco” di assalitori, si senta senza scampo e sottomessa, tanto da poter
rinunciare, già “ab origine”, a qualunque atto di resistenza e di difesa.
Ciò posto, atteso che, come già riportato, l’art. 609-octies c.p. opera un rinvio “per relationem”
all’art. 609-bis c.p., è proprio dall’analisi di tale ultima norma che può ricavarsi il contenuto e la
struttura della violenza sessuale di gruppo.
L’art. 609-bis c.p. è da considerarsi, anche alla luce del bene giuridico tutelato, un reato a c.d.
“dissenso implicito”. Di conseguenza, la presenza di consenso non opera come scriminante ex art.
50 c.p., ma incide sulla tipicità del reato, rendendo il fatto non punibile perché non tipico.
Ed invero, a proposito della sussistenza del consenso che esclude la tipicità, deve darsi atto che la
giurisprudenza si mostra alquanto rigida e rigorosa.
Infatti, si richiede non soltanto un consenso effettivo e consapevole, ma, altresì, si ritiene non
bastevole un consenso manifestato all’inizio dell’atto sessuale, pretendendosi, invece, che esso
perduri per tutta la durata del rapporto: di conseguenza, se il consenso viene meno in un momento
successivo ed il partner, pur consapevole di ciò, non interrompe l’amplesso, risponderà di violenza
sessuale. Ancora, con specifico riguardo alle pratiche estreme (per esempio le pratiche “BDSM”), è
stata ribadita in più occasioni non soltanto la necessità che il consenso sia effettivo, ma anche che
esso perduri per tutta la durata del rapporto ed in relazione a tutte le pratiche poste in essere. Ed
altresì, è stato più volte affermato in sede pretoria che la mancanza di consenso non debba
necessariamente ricavarsi da gesti eclatanti che dimostrino la resistenza attiva della vittima (vestiti
strappati o lividi), essendo sufficiente anche un suo contegno meramente passivo (magari indotto
dal timore per la propria vita), purché ad esso non si accompagni alcuna manifestazione di
consenso.
Ciò posto, chiarita la rilevanza del consenso, deve precisarsi che, a seguito dell’introduzione
dell’art. 609-bis c.p. ad opera della L. 66/96, la condotta incriminata consiste nel far compiere o far
subire alla vittima “atti sessuali”.
E pur tuttavia, è apparsa problematica proprio l’esatta decodificazione dell’espressione “atti
sessuali”. Infatti, secondo una tesi ormai recessiva, essi devono essere intesi in un’ottica soggettiva,
tenendo conto dell’intenzione dell’agente, da ricavarsi in relazione alle frasi pronunciate ed ai gesti
compiuti. E pur tuttavia, attesa la difficoltà di un’indagine sul “foro interno” dell’agente, allo stato
attuale è nettamente maggioritaria la tesi oggettiva, la quale considera “atto sessuale” qualunque
atto, da individuarsi anche con l’ausilio di scienze mediche, che presenti un connotato sessuale ed
appaia idoneo ad attentare all’autodeterminazione sessuale altrui.
Ancora, come chiarito, gli atti sessuali devono essere, da parte della vittima, o “subiti” o
“compiuti”: sotto quest’ultimo profilo, è ormai pacifico che integra il reato in disamina non soltanto
il compimento – non libero e volontario – di atti sessuali, da parte della vittima, sulla persona del
soggetto agente, ma anche quelli che è costretta a compiere su se stessa (il c.d. “autoerotismo”) per
soddisfare il piacere sessuale del reo.
Premesso ciò, deve darsi atto che l’art. 609-bis c.p. prevede, in realtà, nei suoi due commi, due
ipotesi distinte di violenza sessuale, seppur assoggettate al medesimo trattamento sanzionatorio.
Infatti, il comma 1° prevede la violenza sessuale “per costrizione”, da ravvisarsi laddove il reo
“costringa” la vittima a compiere o subire atti sessuali “con violenza” (ossia tramite l’impiego di
una forza fisica), con “minaccia” (prospettando un male ingiusto) oppure “mediante abuso
d’autorità” (ossia mediante la strumentalizzazione della propria posizione). Il comma 2°, invece,
prevede la violenza sessuale “per induzione”, punendo chiunque “induce” al compimento di atti
sessuali: viene in rilievo una condotta che, seppur non atteggiandosi come costrittiva, è comunque
idonea ad alterare la volontà della vittima. Nello specifico, per espressa disposizione della norma,
l’induzione può avvenire, innanzitutto, “abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica
della persona offesa”: secondo l’orientamento dominante, la condizione di inferiorità può essere
anche temporanea ed anche non dovuta ad un’infermità mentale (per esempio uno stato di
ubriachezza), purché la predetta condizione abbia impedito alla vittima la possibilità di
autodeterminarsi e di esprimere un consenso reale. Altresì, l’induzione può essere commessa
“traendo in inganno la persona offesa per essersi, il colpevole, sostituito ad altra persona”, per
esempio approfittando di una situazione di buio e oscurità.
Ed ancora, deve precisarsi che sia il reato “monosoggettivo” di violenza sessuale sia quello di
violenza di gruppo sono puniti a titolo di dolo generico: or dunque, lo stupratore, oppure gli
stupratori, devono essere mossi da volontà e rappresentazione del compimento di atti sessuali pur
nella consapevolezza dell’insussistenza del consenso della vittima: di conseguenza, il mancato
consenso rientra nel “fuoco del dolo”.
Ebbene, alla luce di ciò, può agevolmente contestarsi il reato di violenza sessuale di gruppo laddove
gli atti sessuali siano stati compiuti, costringendo od inducendo la vittima, da “più persone riunite”,
tutti consapevoli del mancato consenso della persona offesa. Or dunque, si è in evidente presenza di
un reato necessariamente plurisoggettivo nonché plurisoggettivo “proprio”, in quanto tutti i
concorrenti sono assoggettati a pena. Altresì, secondo la giurisprudenza, ai fini della sussistenza del
reato, è necessario e nel contempo sufficiente la presenza di almeno due persone.
E pur tuttavia, è opinione dominante che non sia indispensabile che tutti i soggetti partecipino
attivamente all’aggressione sessuale, ma è bastevole che essi siano presenti in loco (“riunite”), che
la loro presenza sia stata avvertita dalla vittima e che abbiano apportato un contributo materiale (per
esempio conducendo la vittima con minacce nel luogo) o almeno morale (aver istigato lo stupro). A
tal proposito, con riguardo alla posizione di chi assiste inerte alla violenza (il c.d. “voyeur”), si
ritiene che se egli ha tenuto un contegno meramente passivo, senza aver rafforzato l’altrui atto di
violenza e senza che la vittima abbia percepito la sua presenza, allora si verserà nell’ipotesi di mera
connivenza non punibile. Di contro, se la sua presenza è stata avvertita dalla persona offesa ed ha
anche rafforzato l’altrui proposito criminoso, risponderà del reato, potendo, al massimo, beneficiare
dell’attenuante prevista dall’art.609-octies comma 4° c.p., laddove il suo contributo venga ritenuto
“di minima importanza nella preparazione o nell’esecuzione del reato”.
Da ultimo, per completezza, deve darsi atto che il trattamento sanzionatorio dei reati di cui agli artt.
609-bis e 609-octies c.p. è stato inasprito dalla recente L. 69/19 (c.d. “Codice Rosso”).
Ebbene, dopo la suesposta e necessaria introduzione, è ora possibile nonché doveroso discorrere
della rilevanza dell’abuso d’autorità laddove il gruppo abbia costretto la vittima a compiere o a
subire atti sessuali “mediante abuso d’autorità”, ex artt. 609-bis comma 1° e 609-octies comma 1°
c.p.
Infatti, è da sempre dibattuta la riconducibilità alla nozione di “autorità” della sola posizione
pubblicistica (per esempio un pubblico ufficiale) oppure anche di ogni posizione di supremazia, pur
se privatistica (per esempio un insegnante privato).
Ed invero, la problematica si è posta con riguardo alla fattispecie monosoggettiva ex art. 609-bis
c.p., ma, atteso il rinvio ad essa “per relationem” da parte dell’art. 609-octies c.p., la questione ben
può porsi anche con riguardo allo stupro di gruppo.
A tal proposito, una prima tesi – allo stato minoritaria e recessiva – interpreta la predetta nozione di
“autorità” secondo un’accezione squisitamente pubblicistica.
In prima battuta, si adducono le primarie esigenze di rispetto del principio di legalità e del divieto di
analogia (artt. 2 c.p., 25 comma 2° Cost. e 14 prel. c.c.), che precludono l’estensione della punibilità
al di fuori dei casi tassativi previsti ex lege. Alla luce di ciò, l’interprete deve sempre privilegiare
l’interpretazione letterale della norma penale, attribuendo ad essa soltanto il senso “fatto palese dal
significato proprio delle parole secondo la connessione di esse e dall’intenzione del legislatore” (art.
12 prel. c.c.). Ebbene, è proprio l’interpretazione letterale dell’art. 609-bis comma 1° c.p. che
converge verso l’accoglimento di un’interpretazione semantica restrittiva: infatti, l’espressione
“mediante abuso di autorità” è troppo generica per ricomprendere anche un’autorità privatistica,
atteso che il suo tenore letterale richiama esclusivamente una posizione di supremazia pubblicistica,
l’unica a potersi definire come “autorità”.
Ancora, la tesi in oggetto ritiene che anche sotto il profilo sistematico emergono valide
argomentazioni a sostegno di quanto asserito. A tal proposito, viene richiamato il già citato art. 609-
quater c.p., il quale punisce, al comma 2°, il genitore, il tutore o la persona alla quale il minore è
stato affidato, il quale, “con l’abuso dei poteri connessi alla sua posizione”, compie atti sessuali col
minore che ha compiuto gli anni 16. Ebbene, secondo la tesi oggetto di disamina, la norma appena
citata incrimina gli atti sessuali compiuti con minore mediante abuso di autorità privatistica.
Ma allora, se si interpretasse l’art. 609-bis c.p. come comprensivo anche dell’abuso di autorità
privatistica, laddove la vittima del reato sia un minore ultrasedicenne, si avrebbe una
sovrapposizione tra l’art. 609-bis c.p. e l’art. 609-quater c.p., con il rischio di una non corretta opera
di sussunzione del fatto concreto nella fattispecie astratta. E ciò avrebbe gravi ed evidenti
ripercussioni anche sul principio di legalità della pena, atteso il diverso trattamento sanzionatorio
previsto dalle due norme analizzate.
Da ultimo, secondo la tesi in oggetto, non meno pregevole è l’interpretazione storico-evolutiva.
Viene ricordato come la celeberrima L.66/96 abbia eliminato le pregresse fattispecie di violenza
sessuale accorpandole nell’unico art. 609-bis c.p. Or dunque, deve ritenersi confluito in tale norma
anche l’art. 520 c.p., il quale puniva la congiunzione carnale commessa “con abuso della qualità di
pubblico ufficiale”.
Se questo è quanto, l’art. 609-bis c.p. deve necessariamente richiedere gli stessi presupposti della
norma che ha assorbito e sostituito, con la conseguenza che non può che riferirsi all’abuso di
autorità pubblicistica.
In conclusione, secondo la tesi appena esaminata, è configurabile il reato di violenza sessuale di
gruppo con abuso d’autorità laddove tutti i concorrenti abbiano costretto la vittima al rapporto
sessuale abusando della propria posizione di supremazia pubblicistica, la quale è stata
strumentalizzata per vincere la sua opposizione.
Ebbene, quanto esposto non è condiviso dall’opinione maggioritaria, che sostiene con pervicacia
un’interpretazione dell’art. 609-bis c.p. comprensiva anche dell’abuso di autorità privata.
Si sostiene, infatti, che è proprio il tenore generico e carente di specificazioni dell’art. 609-bis c.p. a
non atteggiarsi come spendibile a corredo di interpretazioni restrittive. Infatti, non può che ritenersi,
in forza del noto brocardo “ubi, voluit, dixit”, che se il legislatore avesse voluto limitare l’abuso di
autorità penalmente rivelante alla sola autorità pubblicistica, avrebbe inserito chiari indici in tal
senso, astenendosi dall’adoperare espressioni generiche ed omnicomprensive.
Così opinando, si ha violenza sessuale di gruppo commessa con abuso d’autorità laddove il branco
strumentalizzi la propria posizione di supremazia, seppur privatistica, per brutalizzare la vittima e
vincere il suo dissenso.
Ciò posto, come si è già fatto cenno in apertura della presente trattazione, la “vexata quaestio” è
stata risolta dalle Sezioni Unite.
Il Supremo Consesso, con una recente pronuncia, ha sposato la maggioritaria tesi estensiva,
confutando tutte le argomentazioni della tesi restrittiva e valorizzando il bene giuridico tutelato
dalla fattispecie in oggetto nonché il ruolo del consenso.
In prima battuta, gli Ermellini negano che dal tenore ampio e generico dell’art. 609-bis c.p. possa
ricavarsi una chiara ed univoca “voluntas legis” rivolta ad incriminare l’abuso della sola autorità
pubblicistica.
Infatti, laddove il legislatore ha inteso riferirsi a tale tipo di autorità, ha sempre inserito chiare
specificazioni: basti citare, a titolo esemplificativo, l’art. 605 comma 2° n. 2) c.p., che prevede
un’aggravante se il sequestro di persone è commesso “da un pubblico ufficiale con abuso dei poteri
inerenti alle sue funzioni”; l’art. 608 c.p., che incrimina il p.u. che, “abusando dei poteri inerenti
alle sue funzioni”, esegue perquisizioni o ispezioni arbitrarie; l’art. 61 n. 11) c.p., che prevede
un’aggravante comune se il reato è commesso “con abuso di relazioni d’ufficio”.
Così opinando, poiché, invece, l’art. 609-bis comma 1° c.p. non contiene alcuna specificazione,
ricondurre al suo ambito applicativo anche l’abuso di autorità privata non configura affatto
un’analogia vietata, ma è pienamente coerente con il tenore letterale esteso della disposizione:
infatti, interpretando “l’abuso di autorità” anche come autorità privata, non si estende la norma in
via analogica, ma si resta all’interno del suo significato semantico.
Ancora, del tutto inconferente è il paragone con l’art. 609-quater comma 2° c.p., il quale è
completamente differente dall’art. 609-bis c.p., per struttura e bene giuridico. In via principale, l’art.
609-quater comma 2° c.p. non richiede affatto – come invece sostenuto dalla tesi restrittiva – l’abuso
di autorità privata, bensì “l’abuso di poteri”, i quali sono connessi con la propria posizione. Ma,
soprattutto, la disposizione da ultimo citata non richiede, differentemente dall’art. 609-bis c.p., la
costrizione o l’induzione del minore, limitandosi a punire chi “compie atti sessuali” con il
medesimo tramite il predetto abuso di poteri. Come già chiarito, infatti, il legislatore, in tale ipotesi,
prescinde dal consenso del minore, perché lo ritiene non in grado di prestare un consenso reale e
consapevole.
Or dunque, i Giudici di Piazza Cavour ritengono inesistente il rischio di sovrapposizione tra le due
norme, attesa la loro intrinseca diversità, nonché la clausola di sussidiarietà, presente nell’art. 609-
quater, “fuori dai casi dell’art. 609-bis c.p.”.
Da ultimo, il Supremo Consesso ritiene assolutamente privo di pregio il richiamo all’abrogato art.
520 c.p. Si sostiene, a tal proposito, che il legislatore del ‘96 non si sia di certo limitato ad abrogare
le risalenti fattispecie di violenza sessuale, ma abbia anche regalato ad esse un nuovo volto: infatti,
il citato intervento ha modificato il bene giuridico tutelato, rafforzato il ruolo del consenso ed
assicurato una lotta a tali crimini più marcata ed incisiva.
Il bene tutelato, infatti, non consiste più nella morale pubblica e nel buon costume, bensì
nell’autodeterminazione sessuale, la quale deve manifestarsi ed esprimersi nel modo più libero
possibile, senza dover subire alcun tipo di coazione.
E proprio la tutela di un bene giuridico così importante ha, da un lato, spinto il legislatore a punire
anche condotte non violente o minacciose (ad esempio proprio l’abuso di autorità); dall’altro lato,
ha condotto la giurisprudenza, come già ampiamente esaminato, a mostrarsi molto rigorosa in sede
di accertamento del consenso.
Alla luce di ciò, l’art. 609-bis c.p. non può di certo ritenersi un prolungamento dell’abrogato art.
520 c.p., in quanto l’art. 609-bis c.p. non si è limitato ad assorbire le risalenti fattispecie, ma ne ha
di gran lunga ampliato l’ambito applicativo.
Ma allora, un’interpretazione restrittiva della nozione di “abuso di autorità”, che conduce ad
attribuire ad essa un significato squisitamente “pubblicistico”, è da ritenersi contraria alle finalità
della riforma, in quanto resterebbero non punibili – salvo il ricorrere di altre fattispecie – quelle
condotte predatorie basate su un’autorità privatistica il cui abuso abbia comunque comportato un
vulnus all’autodeterminazione sessuale della vittima: basti pensare ad insegnanti privati, datori di
lavoro, sacerdoti.
Or dunque, secondo le Sezioni Unite, è proprio la proiezione teleologica della disposizione, rivolta
e votata ad assicurare all’autodeterminazione sessuale una tutela il più possibile espansa e
pervasiva, ad imporre di abiurare interpretazioni restrittive e limitative, seppur sempre nel rispetto
del principio di legalità.
Alla luce di quanto esposto, le Sezioni Unite ritengono integrata la violenza sessuale di gruppo
anche laddove i concorrenti rivestano una posizione di autorità privata.
E ciò a condizione che l’autorità sia stata strumentalizzata alla violenza e sia stata proprio il mezzo
che ha vinto la resistenza della vittima e condotto allo stupro.
In conclusione, le Sezioni Unite hanno destituito l’orientamento rivolto verso un’interpretazione
restrittiva del concetto di “autorità”. In particolare, l’opzione estensiva è stata ritenuta meritevole di
accoglimento in forza del tenore letterale della norma e, soprattutto, in virtù della volontà del
legislatore – manifestata con la riforma del ‘96 – di attuare una lotta a crimini particolarmente odiosi
ed esecrabili sempre più marcata ed incisiva, regalando all’autodeterminazione sessuale la tutela
che merita.