L’autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali alla luce della riforma del titolo quinto della Costituzione: delineare i principi ispiratori, le modalità previste ed i limiti nell’attuazione
L’autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali alla luce della riforma del titolo quinto della Costituzione: delineare i principi ispiratori, le modalità previste ed i limiti nell’attuazione
Svolgimento a cura di Agostina Alabiso
Il sistema finanziario e tributario degli enti locali è oggetto delle disposizioni dell’art. 119 della Costituzione, come novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3. Esso considera, in linea di principio, sullo stesso piano Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, stabilendo che tutti tali enti “hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa” (primo comma); hanno “risorse autonome” e “stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri”, sia pure “in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, ed inoltre “dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio” (secondo comma).
Le risorse derivanti da tali fonti, e dal fondo perequativo istituito dalla legge dello Stato, consentono agli enti di “finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite” (quarto comma), salva la possibilità per lo Stato di destinare risorse aggiuntive ed effettuare interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni, per gli scopi di sviluppo e di garanzia enunciati dalla stessa norma o “per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio” delle funzioni degli enti autonomi (quinto comma).
L’attuazione del c.d. federalismo fiscale ha implicazioni profonde sull’assetto dei rapporti interistituzionali da riguardare l’intera forma di Stato, non solo nella sua accezione territoriale di distribuzione del potere sul territorio, ma anche in quella più ampia di rapporto tra Stato e società.
Ciò vuol dire che la disciplina dei rapporti finanziari tra livelli di governo incide sulla parte I della Costituzione, dedicata ai principi e ai diritti/doveri fondamentali
Non a caso, una delle questioni più delicate disciplinate dalla legge n.42 del 5 maggio 2009, contenente Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione, riguarda quei livelli essenziali di prestazione che costituiscono la parte centrale dei diritti (non solo) sociali. L’attuazione dell’art.119 Cost. rappresenta quindi l’occasione per una nuova ponderazione non solo dei rapporti tra Stato, Regioni a statuto ordinario, Regioni a statuto speciale e Province autonome ed enti locali (alla luce dell’art.5 Cost.) ma anche, più in generale, del più ampio rapporto tra Stato e società.
L’attuazione di questo disegno costituzionale richiede però come necessaria premessa l’intervento del legislatore statale, il quale, al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali.
È evidente come ciò richieda altresì la definizione di una disciplina transitoria che consenta l’ordinato passaggio dall’attuale sistema, caratterizzato dalla permanenza di una finanza regionale e locale ancora in non piccola parte “derivata”, cioè dipendente dal bilancio statale, e da una disciplina statale unitaria di tutti i tributi, con limitate possibilità riconosciute a Regioni ed enti locali di effettuare autonome scelte, ad un nuovo sistema. Così che oggi non si danno ancora, se non in limiti ristrettissimi, tributi che possano definirsi a pieno titolo “propri” delle Regioni o degli enti locali (cfr. sentenze n. 296 del 2003 e 297 del 2003), nel senso che essi siano frutto di una loro autonoma potestà impositiva, e quindi possano essere disciplinati dalle leggi regionali o dai regolamenti locali, nel rispetto solo di principi di coordinamento, oggi assenti perché “incorporati”, per così dire, in un sistema di tributi sostanzialmente governati dallo Stato.
Come ha sottolineato la Corte Costituzionale, il processo di attuazione dell’art. 119 Cost. esige necessariamente l’intervento del legislatore statale che, “al fine di coordinare l’insieme della finanza pubblica, dovrà non solo fissare i principi cui i legislatori regionali dovranno attenersi, ma anche determinare le grandi linee dell’intero sistema tributario, e definire gli spazi e i limiti entro i quali potrà esplicarsi la potestà impositiva, rispettivamente, di Stato, Regioni ed enti locali” (sent. n. 37 del 2004).
La definizione del quadro costituzionale in materia di autonomia finanziaria si perfeziona sia con il rinvio diretto all’art.117, c.3, Cost., che comprende, tra le materie di competenza concorrente, appunto il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario, sia con il rinvio indiretto all’art.117, c.2, Cost., che comprende tra le materie di competenza esclusiva dello Stato il «sistema tributario e contabile dello Stato» e la «perequazione delle risorse finanziarie». Non può essere infine tralasciato il contenuto della clausola residuale contenuta nell’art.117, c.4, Cost., che è stata intesa da alcuni studiosi come fondamento della competenza regionale residuale in materia di tributi regionali e locali.
La legge n.42 del 5 maggio 2009 si pone come provvedimento attuativo dell’art.119 Cost. e costituisce, in particolare, esercizio delle competenze legislative statali di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 117 Cost.
Va detto, comunque, che un giudizio definitivo sulla configurazione del federalismo fiscale italiano non è ancora possibile in quanto il testo, anche in ragione del suo carattere fortemente ordinamentale, si connota per una duplice caratteristica. È un testo di rinvio e a contenuto molto generale: il termine di 24 mesi per l’adozione dei decreti è già di per sé molto ampio (se si prescinde dal termine di 12 mesi previsto per il primo ed unico decreto applicativo); le fasi transitorie dureranno cinque anni (cfr. artt.20 e 21); il carattere aperto di alcune previsioni fa sì che molte questioni verranno sciolte solo in sede di adozione dei decreti legislativi.
Inoltre è un testo che implica altri importanti provvedimenti di diversa natura normativa: la determinazione delle funzioni degli enti locali (con legge ordinaria); la definizione della posizione delle Regioni ad autonomia speciale tramite le norme di attuazione (in proposito è importante l’art.1,c.2) e, a parere di chi scrive, quello diretto alla differenziazione del nostro bicameralismo paritario (con legge di revisione costituzionale).
Queste peculiari esigenze del federalismo fiscale sembrano aver avviato un inedito processo di raccordo tra Governo, Parlamento, enti territoriali e organi tecnici, fondato su quel principio fondamentale di «lealtà istituzionale fra tutti i livelli di governo», di cui ragiona l’art.2, c.2, lett.b.
Al rigurado, non possiamo non introdurre la distinzione in relazione alle spese, contenuta nell’art.8 della legge, cioè quella tra spese riconducibili al vincolo dell’art.117, c.2, lett.m) (spese per i Lep) e spese c.d. libere, vale a dire spese non riconducibili al vincolo suddetto.
La distinzione tra spese per i Lep e spese libere rileva ai fini delle fonti di finanziamento. Le prime sono da finanziare integralmente soprattutto con il gettito di tributi propri derivati, dell’addizionale regionale all’imposta sull’Irpef, della compartecipazione regionale all’Iva, nonché con quote specifiche del fondo perequativo (art.8, c.1, lett.d); le seconde, per le quali non si prevede l’obbligo del finanziamento integrale, sono sostenute ricorrendo a entrate definite, per ora, in modo vago (tributi propri e quote del fondo perequativo: art.8, c.1, lett.e).
Questa distinzione non sarebbe presente nell’art.119, c.4, Cost., che richiederebbe invece il finanziamento integrale di tutte le funzioni attribuite agli enti territoriali, senza specificazioni e distinzioni.
In proposito conviene osservare che l’introduzione del costo standard come «indicatore rispetto a cui comparare e valutare l’azione pubblica» (art.2,c.2, lett.f) obbliga a spostare completamente la prospettiva di lettura dell’art.119, c.4, Cost. Il
finanziamento integrale non può essere riferito alle spese, più o meno arbitrarie, più o meno efficienti della singola Regione, ma a una media, ottenuta comparando le spese delle Regioni più efficienti con quelle delle Regioni meno efficienti. Dunque, solo in quanto riferito al valore medio dei costi standard, e non all’arbitrio e all’inefficienza della spesa storica, può essere garantito il finanziamento integrale delle funzioni. Naturalmente tutto si gioca nella individuazione degli indici che contribuiranno a determinare i costi standard.
A questa considerazione bisogna poi aggiungere che, nella versione definitiva, l’art.2, c.2, lett.f, introduce il riferimento, oltre che al costo standard, anche al ‘fabbisogno standard’. Si tratta di una previsione di estremo rilievo e, direi, di sistema: il legislatore si impegna a determinare non solo il costo dell’esercizio della funzione ma anche l’obiettivo da raggiungere. Affiancando costi e fabbisogni standard sarà più facile capire dove esistono deficienze strutturali, colmabili attraverso interventi specifici, e dove invece sprechi e inefficienze.
Alla distinzione tra spese per i Lep e spese libere si ricollega, un’altra questione: le spese per i Lep sono determinate nel rispetto dei costi standard (art.8.1.b), tale distinzione non può non portare con sé il passaggio a un criterio di spesa fondato sul principio di efficienza, com’è quello dei costi standard. Se non fosse determinato un criterio oggettivo, sul quale, tuttavia, c’è molta diversità di vedute, soprattutto in relazione all’effetto di redistribuzione delle risorse a favore del Centro-Nord, il finanziamento integrale dei Lep si trasformerebbe, come è stato fino ad oggi, in un meccanismo di de-responsabilizzazione della classe politica regionale e locale.
Potremmo dire che il passaggio, graduale o meno, dalla spesa storica ai costi standard sia reso necessario, oltre che dall’art.119 Cost., dal principio di buon andamento di cui all’art.97 Cost. per come deve essere riletto alla luce del nuovo titolo V della parte II della Costituzione.
Se il principio costituzionale innovativo introdotto dalla riforma del titolo V è infatti quello dell’autonomia degli enti territoriali (insieme a quello di solidarietà) 21, allora è chiaro che il principio dell’efficienza (economica) e quindi del buon andamento deve essere posto a governo delle relazioni finanziarie. Procedere in senso diverso (attraverso il ricorso alla spesa storica) implicherebbe una nuova dipendenza degli enti territoriali dallo Stato e quindi una negazione del principio di autonomia.
Il criterio del costo standard o comunque di altri criteri basati su principi di efficienza economica, affiancato, come si è detto, dal fabbisogno standard, sembra dunque discendere da un’interpretazione sistematica del nuovo titolo V e più ampiamente dal principio di autonomia. Del resto, anche il riferimento all’esercizio normale delle funzioni, contenuto nell’art.119, c.5, Cost., sembra rinviare a una nozione standardizzata di livelli di spesa fondata su criteri che garantiscano quella autonomia finanziaria, di cui all’art.119, c.1, Cost.
Si è appena osservato che l’art.119 Cost. contiene prescrizioni che si richiamano direttamente al principio di solidarietà, di cui all’art. 2 Cost.: in particolare il c.3, che prevede il fondo perequativo e il c.5, che prevede strumenti aggiuntivi e speciali.
Con riferimento al fondo perequativo, si è molto discusso e ancora si discute sulla sua concreta configurazione. Diverse possono essere le modalità organizzative di un fondo perequativo. L’art.119, c.3, Cost., non si esprime a favore di un fondo in senso orizzontale o verticale, rimettendo la decisione al legislatore ordinario. La tesi secondo cui, in base all’art.117, c.2, lett.e), Cost., che attribuisce allo Stato la potestà esclusiva in materia di fondo perequativo, il fondo medesimo debba essere necessariamente verticale, non convince. Niente impedisce, in astratto, che il legislatore statale disciplini un meccanismo perequativo di tipo orizzontale o misto.
La versione definitiva della legge prevede non un unico fondo ma una pluralità di fondi: uno destinato alle Regioni, uno a Province e Città metropolitane e un altro ai Comuni. Inoltre, pur affermando in via generale il carattere verticale del fondo per le Regioni (art.9, c.1), per il (o meglio, forse, la quota di) fondo relativo alle spese libere il carattere verticale non è del tutto scontato, visto che si afferma che esso è «alimentato da una quota del gettito prodotto nelle altre regioni» (art.9, c.1, lett.g), n.2).
L’attuale art.119, c.3, Cost., fa infatti riferimento ai «territori con minore capacità fiscale per abitante», mentre il testo precedente si riferiva «ai bisogni delle Regioni per le spese necessarie ad adempiere alle loro funzioni normali». Questa differenza, che non può essere passata sotto silenzio, pare implicare un riferimento a parametri solo o prevalentemente fiscali. Si avvalora così l’ipotesi che la perequazione delle capacità fiscali non miri più ad eliminare, ma solo a ridurre le differenze tra le entrate regionali. In applicazione di questa interpretazione l’art.9, c.1, lett.b), prevede che la perequazione sia applicata «in modo tale da ridurre adeguatamente le differenze tra i territori con diverse capacità fiscali per abitante senza alterarne l’ordine».
Ciò detto, va criticata l’assoluta mancanza di criteri che diano specificazione al concetto di «minore capacità fiscale» (art.9,c.1, lett.a).
Le risorse di cui all’art.119, c.5, Cost., mirano a perequare i bisogni. Ci si è tuttavia chiesti se tali risorse aggiuntive possano essere utilizzate per finanziare i livelli essenziali di cui all’art.117.2, lett.m), Cost. A tale domanda alcuni autori rispondono positivamente in ragione della stretta attinenza dei Lep all’impegno della Repubblica «a favorire l’effettivo esercizio dei diritti alla persona» e a «promuovere la coesione e la solidarietà». Altre opinioni escludono che esse possano essere utilizzate per integrare il fondo perequativo di cui all’art.119, c.3, Cost. La questione appare superata dalla previsione secondo cui i Lep sono finanziati integralmente in via ordinaria, senza bisogno di ricorrere a interventi straordinari e aggiuntivi.
Ancora in tema di risorse aggiuntive, mentre è da criticare la mancata distinzione tra risorse aggiuntive e interventi speciali nonché la mancata caratterizzazione delle modalità d’intervento, non è altrettanto condivisibile la tesi secondo cui gli obiettivi e i criteri di utilizzazione di tali risorse stanziate dallo Stato non dovrebbero essere oggetto di intesa in sede di Conferenza unificata. Non necessariamente, infatti, la sottoposizione a intesa conduce a una divisione del fronte degli enti territoriali, come pare sottintendere la tesi criticata.
La riforma del titolo V, pur accentuando la spinta a favore del processo di federalizzazione, ha mantenuto la specificità della forma di Stato italiana, che, a differenza dei tradizionali modelli federali, non affida i poteri ordinamentali sugli enti locali alle Regioni ma li conserva in capo allo Stato (il modello, come è stato detto, non è seriale ma triangolare).
Questa opzione si riflette anche nella configurazione dell’art.119 Cost., che accomuna Regioni ed enti locali nella disciplina dell’autonomia finanziaria.
Tuttavia la equiparazione di Regioni ed enti locali in punto di autonomia finanziaria non è del tutto corretta poichè il posizionamento sullo stesso livello di Regioni da un lato e degli altri enti locali dall’altro non trova corrispondenza in un uguale potere impositivo di tutti questi enti territoriali: solo alle Regioni spetta il potere normativo in materia tributaria, mentre Comuni e Province non hanno potestà legislativa in ragione della riserva di legge posta dall’art.23 Cost.
In riferimento ai limiti all’attuazione dell’art 119 cito la Sent. n. 77 del 2005: “4.1. – Questa Corte ha più volte affermato (da ultimo con la sentenza n. 51 del 2005) che – dopo la riforma costituzionale del 2001 ed in attesa della sua completa attuazione in tema di autonomia finanziaria delle Regioni – l’art. 119 della Costituzione pone, al legislatore statale precisi limiti in tema di finanziamenti in materie di competenza legislativa regionale, residuale o concorrente.
In primo luogo, la legge statale non può, in tali materie, prevedere nuovi finanziamenti a destinazione vincolata, che possono divenire strumenti indiretti, ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell’esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza.
In secondo luogo, poiché le funzioni attribuite alle Regioni comprendono la possibilità di erogazione di contributi finanziari a soggetti privati, dal momento che in numerose materie di competenza regionale le politiche pubbliche consistono appunto nella determinazione di incentivi economici ai soggetti in esse operanti e nella disciplina delle modalità per loro erogazione, il tipo di ripartizione delle materie fra Stato e Regioni di cui all’art. 117 Cost. vieta comunque che in una materia di competenza legislativa regionale, in linea generale, si prevedano interventi finanziari statali seppur destinati a soggetti privati, poiché ciò equivarrebbe a riconoscere allo Stato potestà legislative e amministrative sganciate dal sistema costituzionale di riparto delle rispettive competenze.