Principio di tassatività in relazione alle fattispecie di stalking e disastro ambientale.
Principio di tassatività in relazione alle fattispecie di stalking e disastro ambientale.
Stefania Martinez Corso Magistratura On Line
L’esigenza di tassatività o determinatezza costituisce un principio penale proprio di uno Stato democratico, ove, focalizzando l’attenzione sul rapporto norma/cittadino, a quest’ultimo deve essere data la possibilità di muoversi nell’ambito del penalmente lecito mediante la conoscenza di un quadro normativo sufficientemente chiaro e preciso.
Se da un lato la determinatezza si rivolge, infatti, al legislatore che deve descrivere il precetto penale in modo preciso e univoco; la tassatività, dall’altro lato, è rivolta al giudice, che deve effettuare un’interpretazione conforme al tipo descrittivo così come legalmente configurato.
D’altronde, il principio di legalità verrebbe eluso nella sostanza, se il reato, prescritto dalla legge, non fosse individuabile in modo univoco e sufficientemente preciso. Ne deriva che il principio di tassatività, insieme alla riserva di legge, all’irretroattività sfavorevole e al divieto di analogia, costituisce un corollario del principio di legalità.
Se è vero che il principio di tassatività trova, dunque, il suo fondamento costituzionale nell’art. 25, comma 2 Cost., nonostante l’assenza di un espresso riconoscimento normativo, tuttavia, non si può negare, in un’ottica complessiva del sistema, che la determinatezza costituisce proiezione anche del principio di frammentarietà, quale criterio in base al quale vengono punite solo alcune condotte che aggrediscono determinati beni giuridici. A tal fine, assume particolare rilevanza la necessità che il legislatore precisi con sufficiente determinatezza le condotte aggressive.
Peraltro, spostandosi dal piano sostanziale a quello processuale, l’elusione del principio in esame creerebbe un vulnus all’obbligatorietà dell’azione penale, da una parte, in quanto verrebbe meno il criterio di verifica di tale obbligo; dall’altra, al principio di difesa, in quanto è estremamente difficile confutare un’accusa basata su un’incriminazione indeterminata.
Riconosciuto ufficialmente dalla dottrina, come si qui descritto, il principio de quo, ha trovato, formalmente, l’avallo della Corte Costituzionale, che, tuttavia, nei casi concreti, per lungo tempo, ha rigettato le eccezioni di incostituzionalità sotto il profilo della violazione del principio di tassatività. Ciò in quanto, il Giudice delle Leggi cercava di salvare le norme tacciate di indeterminatezza sulla base della loro “interpretabilità”.
Da quanto sin qui detto, si evince che la questione ruota intorno al confine tra sufficiente determinatezza della norma (e sua conseguente legittimità) ed indeterminatezza intollerabile della stessa con conseguente declaratoria di incostituzionalità per conflitto con l’art. 25, comma 2, Cost.
In quest’ottica, la Consulta ha tenuto, in un primo momento, un atteggiamento di self-restraint, rinvenendo la sufficiente determinatezza della norma tramite un criterio linguistico. Ciò in quanto ogni termine del linguaggio può essere interpretato dal giudice secondo il suo normale uso linguistico. Tuttavia, tale impostazione si sottoponeva a critiche in ordine alla legislazione penale extracodicistica, ove i termini sono tecnici o altamente specifici e, quindi, difficilmente delineabili tramite il linguaggio comune.
Viceversa, altro filone della giurisprudenza costituzionale dichiarava costituzionalmente legittima la norma, denunciata di indeterminatezza, facendo leva sul diritto vivente. In altri termini, la norma veniva considerata sufficientemente determinata se applicata in modo conforme all’orientamento giurisprudenziale prevalente della Corte di Cassazione. Cionondimeno, in assenza di un orientamento unanime, il giudice di merito doveva interpretare la norma secondo l’indirizzo ermeneutico, a suo avviso, preferibile. Peraltro, la determinatezza della norma restava salva fin quando l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale, a parere del Giudice delle Leggi, non superasse la soglia di una normalità fisiologica.
Non manca di rilevare come, in tempi più recenti, in un’ottica garantistica, la giurisprudenza della Consulta ha accolto le eccezioni di illegittimità costituzionale per violazione del principio di tassatività e, più in particolare, ha dichiarato l’incostituzionalità, ex multis, del reato di plagio. A tale specifico riguardo, la fattispecie di cui all’art. 603 c.p. va interpretata quale riduzione di una persona in uno stato di totale soggezione psichica. Il che mostra come si è in presenza di un’ipotesi non verificabile né nel risultato né nel suo stesso venir in essere. Con maggior impegno esplicativo, il concetto descritto non trova un riscontro nella realtà empirica e, di conseguenza, non è suscettibile di accertamento da parte del giudice.
Dall’assunto appena prospettato si deduce come il legislatore nella tecnica di redazione della fattispecie abbia utilizzato degli elementi vaghi e indeterminati, che contrastano palesemente con il principio di cui all’art. 25, comma 2, Cost., in quanto superano la soglia di indeterminatezza tollerabile.
Accanto a tali elementi, si rinvengono nella normativa penale i cosiddetti elementi rigidi, di natura descrittiva (naturalistici/numerici) ovvero di natura normativa, il cui significato, però, si deve ricavare da altre norme giuridiche dal contenuto ben individuabile e determinato. In tali ipotesi, la norma è costituzionalmente legittima in quanto tramite tali elementi è agevole ricondurre la fattispecie concreta a quella astratta ad opera del giudice.
Parimenti legittimi vengono reputati, nel nostro ordinamento, dalla prevalente dottrina gli elementi elastici (realtà non aprioristicamente tipizzabili dal legislatore ovvero elementi normativi che richiamano parametri metagiuridici). Nello stesso senso, la Corte Costituzionale ammette l’ammissibilità di tali “valvole di sicurezza” nella formulazione delle norme penali, subordinandola, però, ad alcune condizioni. In primis, l’elemento elastico deve costituire un fondamento ermeneutico controllabile, in base al quale il giudice deve poter ricondurre la fattispecie concreta a quella astratta. A tal fine, valutata anche la finalità dell’incriminazione, il giudice deve interpretare il concetto elastico in relazione con gli altri elementi della fattispecie incriminatrice, nonché prendendo in considerazione l’intera disciplina normativa in cui si colloca tale fattispecie.
I criteri ermeneutici appena descritti sono stati applicati dalla giurisprudenza costituzionale in ordine alla nozione di disastro innominato ai sensi dell’art. 434 c.p., norma quest’ultima di chiusura del sistema (volta ad evitare eventuali lacune).
In tal senso, la Consulta ravvisa il vocabolo “disastro”, contenuto nella locuzione “altro disastro” di cui all’art. 434 c.p., quale espressione sommaria, alla quale possono essere ricondotti numerosi significati diversificati; tuttavia, ritiene la norma sufficientemente determinata, in quanto il vocabolo generico può essere delineato alla luce della finalità dell’incriminazione, nonché dalla sua collocazione sistematica tra le norme che disciplinano i reati contro la pubblica incolumità. A tale specifico riguardo, la Corte Costituzionale individua degli elementi distintivi comuni tra i disastri tipizzati dal legislatore al fine di circoscrivere la valenza dell’elemento “disastro”. Dal vaglio analitico dei delitti di cui al Capo I del Titolo VI c.p. (strage, incendio, inondazione, frana, valanga, naufragio, disastro aviatorio, disastro ferroviario, crollo et similia) è, infatti, possibile, registrare alcuni elementi idonei a qualificarli: da un lato, sotto il profilo dimensionale, la necessità di un evento distruttivo di portata straordinaria, seppur non immane, da cui devono derivare conseguenze gravi ed estese; dall’altro lato, sotto il profilo dell’offensività, l’evento deve mettere in pericolo la vita o l’integrità fisica di più individui, senza che da questo debba necessariamente derivare la morte o la lesione degli stessi.
In sintesi, il disastro innominato, omogeneo ai disastri nominati degli articoli che lo precedono nel Capo I, si configura in presenza di un evento straordinariamente grave e complesso, idoneo a cagionare un nocumento di notevole portata espansiva e a mettere in pericolo l’incolumità di un numero indeterminato di persone.
La nozione di disastro innominato, come sin qui descritta, veniva adoperata, per vero, dalla giurisprudenza di legittimità al fine di reprimere le condotte che cagionavano un disastro ambientale. Quest’ultimo veniva definito dai giudici della Suprema Corte come una progressiva e smisurata contaminazione, con sostanze nocive per la salute pubblica, dei suoli, dell’acque e dell’aria, da parte di soggetti che tengono condotte reiterate e diluite nel tempo (ex multis, Cass. 2014 caso Eternit, che richiama Cass. 2006 caso Porto Marghera).
Ciò nonostante, il Giudice delle Leggi dubitava che il concetto di disastro ambientale fosse riconducibile al disastro innominato, in quanto il primo era privo di quegli elementi che qualificano i “disastri”, quali, per l’appunto, l’istantaneità, la violenza, il carattere distruttivo, nonché la sussistenza di una situazione provocata da una componente naturalistica e non da una condotta umana. Peraltro, tale operazione ermeneutica, compiuta dalla giurisprudenza di legittimità, comportava una dilatazione dell’applicazione della norma di cui al 434 c.p. oltre i limiti della sua interpretazione letterale, con il rischio di compromette la separazione dei poteri legislativo e giudiziario.
Cionondimeno, la Cassazione ha continuato ad identificare danno ambientale e disastro, riconducendo in quest’ultimo non più un unico evento, di eccezionali dimensioni, istantaneo e di prorompente diffusione, bensì anche più micro – eventi ripetuti nel tempo, che, però, accorpati risultavano straordinariamente gravi e complessi e creavano un pericolo in concreto per la salute o la vita di un numero indeterminato di persone. Per di più, i giudici della Suprema Corte hanno obiettato alla ricostruzione della Corte Costituzionale, in base alla quale si delineano i confini della nozione di “disastro”, che dal vaglio analitico delle disposizioni di cui al Titolo VI Capo I si può agevolmente dedurre che non tutte le ipotesi di “disastro” integrano gli estremi di un macroevento visivamente percepibile in modo immediato. Ciò fa leva sul reato di cui all’art. 426 c.p., in base al quale, in primis, la “frana” può consistere in piccoli spostamenti del terreno che si verificano in un lungo arco temporale; nonché l’“inondazione” può verificarsi per un lento propagarsi delle acque sulle terre emerse. Non ultimo, viene eccepito che il concetto di “disastro”, così come tassativizzato dalla Consulta, è caratterizzato dalla “portata distruttiva” dell’evento, che se, di fatto, è conforme all’interpretazione linguistica comune del termine (inteso quale “catastrofe” o “calamità naturale”), però, ad avviso di una parte della dottrina e della Suprema Corte, è una definizione arbitraria. Ciò in quanto non sarebbe conforme alle esigenze di determinatezza della norma individuare gli elementi costitutivi del disastro innominato in base ai caratteri qualitativi e quantitativi dei disastri nominati, posto che vi sono dei fenomeni altamente distruttivi, diffusi e silenti, che perdurano per lunghissimo tempo e sono idonei a produrre un pericolo per la salute della collettività.
Ebbene, al fine di superare i contrasti interpretativi, dando attuazione all’auspicio proveniente dalla stessa Corte Costituzionale, il legislatore del 2015 (L. 68/2015) ha introdotto il reato di disastro ambientale all’art. 452quater c.p.
In un’ottica di maggiore determinatezza, la norma in esame prescrive tre fattispecie incriminatrici: 1) l’alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema; 2) l’alterazione dell’equilibrio di un ecosistema la cui eliminazione risulti particolarmente onerosa e conseguibile solo con provvedimenti eccezionali; 3) l’offesa alla pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per l’estensione della compromissione o dei suoi effetti lesivi ovvero per il numero delle persone offese o esposte a pericolo.
Si è dubitato, sin dai primi commenti, della legittimità costituzionale della norma per violazione del principio di determinatezza, poiché i concetti di “alterazione irreversibile dell’equilibrio di un ecosistema” e di “provvedimenti eccezionali” o “particolare onerosità” sarebbero indeterminati e, di conseguenza, sarebbe compito dell’interprete definire i presupposti del disastro ambientale.
In ordine alla locuzione “alterazione dell’equilibrio di un ecosistema” di cui ai punti 1 e 2 dell’art. 452quater c.p. è palese come il legislatore si sia discostato dall’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità e da quella costituzionale in relazione alla nozione di “disastro”. Ciò in quanto tale ipotesi manca del carattere distruttivo proprio del disastro. Peraltro, dall’esame del punto 3 della norma, da un lato, e dei primi due punti, dall’altro, si deduce come, divergendo dalla pronuncia della Consulta, in base alla quale, per aversi “disastro” si richiedeva cumulativamente un requisito dimensionale e uno offensivo, l’offesa alla pubblica incolumità (punto 3) è alternativa all’evento straordinario grave, esteso e complesso (punti 1 e 2). Ne deriva che, de iure condito, è ammissibile un macrodanneggiamento all’ambiente che non metta in pericolo l’incolumità pubblica.
Più in particolare, è, altresì, vero, che nel nostro ordinamento manca una definizione legale di ecosistema. Sul punto, l’Ufficio Massimario della Cassazione nella relazione sulla L. 68/2015 ha affermato che per ecosistema si deve intendere la comunità, quale insieme degli organismi viventi, l’habitat, come ambiente fisico circostante, nonché le relazioni biotiche e chimico – fisiche all’interno di uno spazio definito della biosfera. Tuttavia, attenta dottrina ha evidenziato come per la pubblica accusa è difficile dimostrare la consumazione del delitto, poiché la definizione di “ecosistema”, come sopra delineata, non appartiene all’uso comune del linguaggio ed è cosa diversa dall’ambiente.
Ancora, la locuzione “offesa alla pubblica incolumità” è altamente indeterminata, oltre a non essere presente in nessuna altra norma del codice penale. Tale espressione, di fatto, potrebbe essere intesa, sia come pericolo per l’incolumità pubblica di un numero indeterminato di persone, sia, per quanto di difficile configurazione, quale danno per la salute di un numero indeterminato di persone.
Secondo una parte della dottrina, il concetto di offesa andrebbe interpretato, dunque, come pericolo.
In altri termini, il punto 3 dell’art. 452quater c.p. è un’ipotesi di reato di mera condotta, che viene integrato quando la condotta posta in essere dall’agente appare idonea a cagionare la morte o la lesione di un numero indeterminato di persone. Sotto tale profilo, occorre evidenziare che a fronte di un reato di tal tipo, in assenza di evento naturalistico, la precisione della norma è tanto maggiore quanto più dettagliatamente viene descritta la condotta. Ciò nonostante, nel caso in esame, la condotta è ancorata solo al suo carattere “abusivo”, requisito quest’ultimo che non contribuisce a descrivere il fatto penalmente rilevante, ma, nella sua qualità di clausola di antigiuridicità espressa, serve solo a sottolineare che il fatto, oltre che tipico, è in contrasto con l’intero ordinamento giuridico. Per quanto detto, i fautori di tale tesi sostengono che la norma de qua, al suo punto 3, solleva consistenti dubbi di illegittimità costituzionale in quanto intollerabilmente indeterminata.
Analoghi dubbi di illegittimità costituzionale per violazione del principio di tassatività sono sorti in relazione al reato di atti persecutori (c.d. stalking) di cui all’art. 612bis c.p., introdotto dal D.L. 11/2009, così come convertito dalla L. 39/2009 e modificato, infine, dalla L. 94/2013.
È noto che ai sensi della norma in oggetto vien punito chiunque “con condotte reiterate minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero a costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
Dall’esame della norma sopra riportata si evince che l’elemento costitutivo caratterizzante è la reiterazione delle condotte e, di conseguenza, a parere della dottrina, tale disposizione può essere considerata una “norma di chiusura” del sistema, che, volta a colmare il dato normativo pregresso, assicura la punibilità di tutte quelle condotte violente, minacciose o moleste di tipo seriale.
Orbene, la giurisprudenza si è interrogata sulla compatibilità della norma de qua con il principio di tassatività ripartendo due ambiti di indagine: a) la notevole ampiezza delle condotte di “minaccia” e di “molestia” incriminate; b) la tecnica di tipizzazione usata dal legislatore per descrivere i seguenti eventi alternativi: 1) il perdurante stato di ansia o paura della persona offesa; 2) il fondato timore per la propria incolumità o per quella di una persona affettivamente legata alla vittima; 3) la costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita.
Sotto il primo profilo, la giurisprudenza prevalente ha ritenuto la norma in esame sufficientemente determinata, facendo leva su quel filone della giurisprudenza costituzionale che ammette la definizione dell’elemento normativo, in via interpretativa, sulla base del diritto vivente. In tal senso, si è ritenuto che il confine degli atti persecutori di minaccia e molestia può essere interpretato alla luce degli orientamenti consolidati della giurisprudenza di legittimità che si è pronunciata in ordine a tali reati.
Cionondimeno, la Corte Costituzionale, con una recente pronuncia del 2014, ha dichiarato la norma coerente con il principio di precisione, argomentando su un’interpretazione integrata e sistematica che deve essere compiuta dal giudice, il quale, così come la stessa Consulta ha affermato in relazione alle clausole elastiche alcuni anni prima, deve valutare non il singolo elemento ma quest’ultimo in collegamento con gli altri elementi costitutivi e con la normativa di riferimento. Pertanto, si è ritenuto che la descrizione della condotta del reato di cui all’art. 612bis c.p. è sufficientemente determinata, in quanto va interpretata sulla base del significato che i termini “molestia” e “minaccia” assumono nel linguaggio comune, nonché quello derivante dalla formulazione codicistica.
Ancor di più, l’orientamento prevalente della Cassazione, ha rilevato che l’elemento caratterizzante del reato di stalking non è solo la reiterazione delle condotte, ma anche la tipizzazione delle conseguenze delle condotte minacciose o violente, quali i disturbi psichici, rappresentati dagli stati di ansia o paura, ovvero il timore per l’incolumità propria o di un congiunto o altra persona cara, nonché l’alterazione delle abitudini di vita. Quest’ultimi, infatti, costituiscono gli elementi distintivi rispetto ai reati di minaccia e molestia tout court. Ne discende che, essendo in presenza di un reato di evento, la norma è conforme al principio di tassatività, qualora, pur carente sotto il profilo dell’individuazione della condotta, descriva in modo preciso e univoco gli eventi.
Alla luce di ciò, i margini di criticità si muovono dalla descrizione della condotta all’accertamento delle conseguenze psichiche della vittima.
Ci si sposta, a tal punto, nel secondo campo di indagine, ove la problematica ruota intorno alla connotazione subiettiva dell’evento (disturbi psichici della vittima) sul quale si fonda il disvalore penale del fatto. È noto che il nesso causale tra condotta ed evento deve essere accertato con alta probabilità logica o elevata credibilità razionale (Cass. 2002, Franzese). Ne consegue, secondo una parte della dottrina, che il turbamento della vittima non può essere accertato meramente sulla base di una regola scientifica e, di conseguenza, a livello processuale, verrà verificato con elevata discrezionalità.
Rispetto a tale punto, la giurisprudenza prevalente ritiene che l’accertamento del turbamento psichico della persona offesa non attiene all’indeterminatezza della norma penale, ma alla normale dinamica del processo e all’ambito della discrezionalità che è data al giudice nella sua attività di accertamento.
L’orientamento giurisprudenziale sopra brevemente delineato è stato avallato dalla recente sentenza della Corte Costituzionale, in base alla quale anche i tre diversi e alternativi eventi del reato di stalking sono descritti in modo determinato. Ciò in quanto il giudice al fine di accertare il perdurante stato di ansia e di paura, nonché il fondato timore per l’incolumità, non deve basarsi su valutazioni mediche, bensì su massime di esperienza e, in tal senso, osservare quei segni e quegli indizi del comportamento idonei a dimostrare una destabilizzazione dell’equilibrio emotivo del soggetto passivo, tramite un confronto tra la situazione antecedente e quella susseguente la condotta dell’agente. Al fine di tale attività interpretativa il giudice potrà servirsi delle dichiarazioni della vittima; del comportamento dell’agente dopo aver tenuto la condotta tipica; nonché di quelle condizioni soggettive della vittima note all’agente ed, in quanto tali, rientranti nel fuoco del dolo diretto.
Nella stessa ottica, quanto alle alterazioni delle abitudini di vita, il giudice deve accertarle a mezzo di un confronto tra i comportamenti che il soggetto passivo teneva, a titolo esemplificativo in ambito sociale e familiare, prima del reato e quelli costretto a tenere dopo la condotta persecutoria, tali da comprovare, anche in questo caso, un’alterazione dell’equilibrio della vittima.
Per quanto sin qui esposto, sia in ordine al reato di atti persecutori, sia al reato di disastro ambientale, sembrerebbe auspicabile un più rigoroso rispetto ad opera del legislatore dei criteri sulla tecnica di redazione delle norme incriminatrici, al fine di ridurre i contrasti interpretativi ed incrementare la certezza giuridica, valore quest’ultimo, peraltro, funzionale ad un principio cardine qual è, nel nostro sistema penale, quello di legalità.