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RESPONSABILITÀ PATRIMONIALE DELLE ASSOCIAZIONI NON RICONOSCIUTE, DEI PARTITI POLITICI E SOTTOPONIBILITÀ A FALLIMENTO DELLE FONDAZIONI D’IMPRESA

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di Sara Agrifoglio

– Ai sensi dell’art. 2740 c.c. ciascun soggetto risponde delle obbligazioni contratte con tutti i suoi beni presenti e futuri. Il legislatore ha infatti imposto tale regola nel tentativo di preservare la sicurezza dei traffici giuridici, con l’intenzione di tutelare l’affidamento dei terzi e dotare il creditore di un forte  strumento di reazione.

La regola subisce tuttavia talune importanti eccezioni.

In primis non tutti i beni – presenti e futuri – del debitore risultano pignorabili, ostando all’esecuzione forzata ragioni di protezione dello stesso soggetto inadempiente (si pensi al divieto di sottoporre a pignoramento cibi, vestiti ed utensili indispensabili, onde evitare il pregiudizio di quelle che sono le esigenze di vita primarie ed fondamentali di ciascuno).

In secundis, ai sensi del secondo comma del medesimo 2740 c.c., sono ammesse solo quelle forme di segregazione patrimoniale eccezionalmente consentite dalla legge, non essendo altrimenti autorizzate limitazioni negoziali alla responsabilità patrimoniale. Si pensi, in via meramente esemplificativa, al vincolo di destinazione ex art. 2645ter, che consente di destinare alcuni beni al perseguimento di finalità meritevoli in modo da escludere la possibilità per i creditori del soggetto costituente di aggredire tali beni; similmente, si pensi al trust ovvero ai patrimoni destinati delle spa.

Tutto quanto brevemente indicato in materia di responsabilità patrimoniale vale tanto per le persone fisiche quanto per le persone giuridiche.

La responsabilità patrimoniale, infatti, riguarda ogni singolo soggetto di diritto: chiunque possa essere centro di imputazione di obbligazioni può essere chiamato a rispondere ai sensi dell’art. 2740 c.c.. Rimane però da chiedersi quali siano, appunto, i “soggetti” di diritto.

Ogni individuo è dotato di personalità giuridica ai sensi dell’art. 2 della Carta Costituzionale; gli enti, invece, acquistano la personalità giuridica in seguito al loro riconoscimento (l’ordinamento, valutato lo scopo dell’ente, l’organizzazione, l’autonomia patrimoniale e la conformità a legge dello statuto, conferisce personalità all’ente).

Con preciso riferimento alle persone giuridiche, occorre però fare un distinguo.

Se nessun dubbio si pone per le persone fisiche (rispetto alle quali soggettività e personalità giuridica coincidono, salvo ridottissime ipotesi individuate ex lege) e per le persone giuridiche dotate di personalità (a seguito del predetto procedimento di riconoscimento), lo stesso non può dirsi con riferimento agli enti privi di tale requisito.

Seppur in ambito legislativo non sia contemplato il concetto di soggettività giuridica, tale nozione è stata spesso impiegata da dottrina e giurisprudenza – senza però uniformità di vedute – per descrivere quel fenomeno in cui più individui associati, pur non dando vita ad un’autonoma persona giuridica, costituiscono un ente, che è soggetto diverso dai singoli partecipanti ma che non ha personalità.

Gli enti non personificati, infatti, sono indubbiamente soggetti di diritto pur non essendo persone giuridiche: essi agiscono in una dimensione superindividuale ma vantando un’autonomia (anche patrimoniale) solo imperfetta.

Nell’ambito delle associazioni, questa scissione tra soggettività e personalità giuridica, è quanto mai lampante: mentre le associazioni riconosciute sono vere e proprie persone giuridiche dotate di personalità, sono autonomi centri di imputazione di situazioni giuridiche soggettive attive o passive ed hanno un patrimonio totalmente separato da quello dei singoli partecipanti, le associazioni non riconosciute sono solamente dotate di soggettività giuridica.

L’associazione riconosciuta è organismo – al pari dell’individuo persona fisica – totalmente autonomo, capace di esprimere una propria volontà e di costituire centro di responsabilità patrimoniale diverso da quello proprio di ogni singolo partecipante.

Viceversa, gli enti non personificati, la cui libertà di formazione è garantita in forza degli artt. 2 e 18 della Costituzione, sono soggetti dotati di una propria capacità giuridica, di una capacità di agire, di una capacità processuale distinta da quella dei singoli componenti e di una capacità di costituire centro di imputazione di diritti e di doveri; ciononostante, mancando la personalità, la responsabilità patrimoniale si atteggia in maniera del tutto peculiare. In altri termini,  l’invocata distinzione tra soggettività e personalità traduce un differente regime di imputazione della responsabilità patrimoniale.

Ai sensi dell’art. 38 c.c., in ipotesi di obbligazioni assunte dai soggetti che rappresentano l’ente, i terzi possono rivalersi sul fondo comune o anche sul patrimonio delle persone che hanno agito in nome e per conto dell’associazione. Trattasi, a parere della dottrina, di una sorta di garanzia personale, di fideiussione senza beneficio di preventiva escussione, in forza della quale è possibile escutere indistintamente il patrimonio dell’ente ovvero quello dei singoli rappresentanti.

I rappresentanti dell’ente non personificato, dunque, rispondono personalmente e solidalmente, ex art. 1294 c.c., con l’ente.

La ratio della norma appare da un lato quella di responsabilizzare in maniera maggiore proprio quel soggetto – o quei soggetti – che abbia il più ampio potere decisorio, dall’altro lato quella di preservare l’affidamento ingenerato nei terzi in ordine alla solvibilità degli impegni assunti in assenza di idonei meccanismi pubblicitari.

Resta da chiedersi quale sia il contenuto soggettivo ed oggettivo della responsabilità patrimoniale de qua.

Riferendosi la norma a coloro “che hanno agito in nome e per conto dell’associazione”, un primo filone dottrinario ha avanzato l’ipotesi che la responsabilità patrimoniale gravi su tutti gli amministratori dotati del potere di rappresentanza indipendentemente dal  fatto che abbiano agito in accordo ovvero singolarmente. In altri termini, l’art. 38 c.c. sarebbe improntato a responsabilizzare tutti i soggetti che impersonano l’ente, aggravando la posizione di ogni singolo rappresentante anche rispetto agli impegni assunti – magari all’insaputa – da altro rappresentante.

La tesi maggioritaria, invece, ritiene che a rispondere dell’obbligazione assunta siano solo i soggetti che abbiano concretamente agito in nome e per conto dell’ente, senza coinvolgere l’altrui sfera giuridica ed a prescindere dalla carica ricoperta. Tale seconda posizione pare più vicina al dato letterale e più rispondente all’esigenza di tutelare il terzo a prescindere che questi si sia premunito o meno di verificare chi abbia la rappresentanza dell’ente, mancando in tal senso una previsione ex lege che imponga un’utile forma pubblicitaria. Per il terzo, stando a tale tesi, sarebbe sufficiente affidarsi alla solvibilità dell’interlocutore agente ovvero dell’ente il cui nome sia speso. Sembrerebbe questa anche una forma di manifestazione del principio civilistico dell’apparenza, in base al quale l’ordinamento intende apprestare tutela al soggetto incolpevole che abbia confidato nell’esistenza di un potere di rappresentanza in capo al soggetto con cui abbia stipulato.

Inoltre, la responsabilità del rappresentante dell’ente permane anche dopo la cessazione della carica con riferimento a tutte quelle obbligazioni contratte durante il periodo di gestione dell’ente.

Quanto invece all’estensione oggettiva della responsabilità patrimoniale ex art. 38 c.c., l’opinione dominante in dottrina e giurisprudenza è che tale responsabilità sia riconducibile agli obblighi di natura negoziale; ciò non toglie che il fondo comune e i singoli rappresentanti possano trovarsi a dover rispondere per una responsabilità da fatto illecito, questa volta però ai sensi dell’art. 2043 c.c. e non dell’art 38 c.c..

Sempre nell’ambito degli enti non personificati, giova precisare che i partiti politici sono generalmente ricondotti al prototipo delle associazioni non riconosciute. Appaiono infatti evidenti le ragioni che inducono i partiti politici ad evitare di domandare il riconoscimento, volendo preservarsi dall’ingerenza e da ogni tipo di controllo interno da parte delle autorità deputate a concedere la personalità giuridica.

Tutto ciò premesso, se la disciplina dell’art. 38 c.c., infra analizzata, appare certamente applicabile anche con riferimento a tali enti, la stessa dovrà essere integrata dal disposto dell’art. 6 bis della legge 157 del 1999, così come parzialmente abrogata e modificata dall’art. 9 della legge 96 del 2012. Tale norma prevede una responsabilità patrimoniale del partito politico a garanzia dell’esatto adempimento delle obbligazioni assunte e specifica che i creditori dell’ente non possono pretendere direttamente dagli amministratori del medesimo l’adempimento delle obbligazioni del partito se non quando questi ultimi abbiano agito con dolo o colpa grave.

Rispetto alla più generale previsione di cui all’art. 38 c.c., l’art 6 bis della L. 157/99 limita in maniera consistente le ipotesi di responsabilità dei soggetti al vertice, sia in senso soggettivo che oggettivo.

Tale ultima norma, inoltre, in deroga a quanto sopra analizzato, non influisce sulla responsabilità di coloro che agiscano in nome e per conto dei partiti politici, comunque responsabili ai sensi dell’art. 38 c.c., ma solo agli amministratori degli stessi.

Tuttavia non è chiaro a quali soggetti sia effettivamente attribuibile la qualifica di amministratore. Certamente non andranno esenti da responsabilità i soggetti che siano espressamente identificati quali amministratori dall’atto costitutivo o dallo statuto del partito; maggiore incertezza si registra invece rispetto ai vertici dell’associazione partitica ed a coloro che agiscano in attuazione dello scopo dell’ente. Ad una tesi più restrittiva se ne contrappone una maggiormente estensiva, che riconduce la qualifica di amministratore anche in capo a quei soggetti che, pur non essendo considerati tali dalla lettera dello statuto, in concreto gestiscano il partito perseguendo le finalità istituzionali.

Di recente, però, la Corte di Cassazione ha nuovamente optato per la posizione più rigorosa, andando a  ribadire che la deroga all’art. 38 c.c. introdotta dall’art. 6 bis della L.157/99 è ipotesi del tutto eccezionale e, come tale, di stretta interpretazione: la Suprema Corte ha precisato che la limitazione della responsabilità(ai soli casi di dolo o colpa grave) vale solo per chi sia dotato di poteri amministrativi ai sensi dello statuto, mentre, per chiunque altro agisca in nome e per conto del partito vale la regola comune dell’art. 38 c.c. senza alcuna limitazione.

La norma codicistica e la norma speciale, dunque, non si escludono vicendevolmente ma si pongono in rapporto di specialità e reciproca integrazione.

In definitiva, quindi, anche nell’ambito delle associazioni non riconosciute aventi forma di partito politico può rinvenirsi quello stretto legame tra mancato riconoscimento della personalità giuridica, responsabilità patrimoniale e necessaria pubblicità.

Spostando l’attenzione sulle cc.dd. fondazioni di impresa, è bene sottolineare che in tal caso si è al cospetto di enti personificati, dunque dotati di personalità giuridica. La fondazione d’impresa è una peculiare forma di fondazione che esercita anche attività di impresa: trattasi però di un’attività priva di scopo di lucro, non finalizzata alla distribuzione degli utili tra gli associati – in tal modo distanziandosi dalle società commerciali – bensì all’autofinanziamento nel perseguimento di scopi altruistici. Versandosi in ipotesi in cui è riconosciuta personalità giuridica, la fondazione d’impresa si presenta certamente quale soggetto autonomo, responsabile patrimonialmente di ogni obbligazione contratta.

Un siffatto regime, è evidente, risulta molto appetibile e si presta a facili abusi. La costituzione di un ente di tal fatta comporta la creazione di un nuovo soggetto di diritto, di un autonomo centro di imputazione di situazioni soggettive attive o passive, del tutto distinto dalle persone dei singoli soggetti costituenti o partecipanti, che possono nascondersi dietro tale schermo giuridico per limitare, rispetto a talune attività di impresa, la propria responsabilità, al contempo ottenere gli specifici benefici – anche fiscali – che la legge riserva alle fondazioni ed evitare di rischiare di incorrere nel fallimento.

Proprio l’abuso della personalità giuridica è stato oggetto di molteplici attenzioni da parte della recente giurisprudenza che, valorizzando l’abusività della prassi in parola, è giunta ad ammettere l’assoggettabilità a fallimento della fondazione d’impresa e dei suoi membri.

L’abuso della personalità giuridica è stato dunque considerato quale declinazione del più generale concetto di abuso del diritto – che, volendo sommariamente sintetizzare, si realizza ogniqualvolta un diritto venga strumentalizzato ed impiegato per fini contrari a quelli per cui è stato conferito – ed è stato invocato per  disapplicare le norme sul riconoscimento della personalità giuridica.

Negando personalità alla fondazione d’impresa che abusi di tale schema giuridico ecco che viene meno la separazione patrimoniale e che torna immediatamente a dilatarsi la sfera di responsabilità dei singoli componenti, con assoggettabilità a fallimento di tutti i soggetti coinvolti. 

In tema di persone giuridiche è dunque dato rilevare un intreccio inestricabile tra potere di rappresentanza, responsabilità patrimoniale e pubblicità, tutti concetti intimamente collegati, onde garantire tutela all’affidamento dei consociati che entrino in contatto con l’ente e preservare la certezza dei traffici giuridici.

Il grado di responsabilità patrimoniale di ciascun ente, così come dei partecipanti allo stesso, dunque, aumenta o si riduce in ragione del minore o maggiore livello di pubblicità ed influenza soggettiva nella rappresentanza e nella gestione.

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