Ipotesi di svolgimento. Traccia estratta prove scritte carriera prefettizia 2021. La terza. Storia contemporanea e della pa.

“L’affermazione del ruolo della donna dal secondo dopoguerra alle conquiste degli anni ’70.”

Riguardo a questa traccia si propone quale ipotesi di soluzione quella estratta dal volume Temi svolti e casi pratici per la carriera prefettizia 2021 a cura di Serafino Ruscica di contenuto analogo.

L’evoluzione storico-giuridica della condizione della donna in Italia ed il suo progressivo accesso alla pubblica amministrazione ed ai ruoli istituzionali.

di Serafino Ruscica

Schema preliminare di svolgimento della traccia:

  • L’evoluzione della condizione femminile dall’unità d’Italia ai primi del novecento
  • La condizione femminile durante il periodo fascista
  • La condizione femminile durante l’epoca repubblicana
  • Il movimento femminista e le rivendicazioni politiche degli anni ’60.
  • L’attuazione di politiche nazionali e comunitarie finalizzate alla parità di genere

Svolgimento

L’ampio dibattito sui temi dell’uguaglianza, all’interno del quale si collocano l’obiettivo della parità di genere e la questione della tutela dei diritti delle donne, coinvolge da sempre giuristi, sociologi e, in generale, studiosi di diverse discipline, nella ricerca di soluzioni in grado di scalfire alcune consolidate convinzioni collegate al progetto democratico, che già sul nascere escludeva il genere femminile dalle possibilità giuridiche e politiche del cittadino maschio.
 Come è noto, molti sono gli argomenti utilizzati a sostegno della necessità di un riequilibrio tra condizione femminile e maschile: primo fra tutti quello che invoca l’esigenza di realizzare, in ossequio ad uno dei cardini del costituzionalismo democratico, un’uguaglianza realmente sostanziale (e non solo formale) tra persone di sesso diverso, secondo una prospettiva di solidarietà e giustizia sociale . Il problema dell’esigua presenza femminile ai vertici della piramide economica, sociale e politica dei vari Paesi, europei ed extraeuropei, ha così acquisito una crescente rilevanza nell’ambito del dibattito relativo allo statuto di genere nelle società contemporanee. Se infatti sul piano normativo la parità può dirsi realizzata, altrettanto non può dirsi sul piano dei rapporti concreti; ancora oggi, seppure in maniera senz’altro diversa rispetto al passato, permane una situazione di sostanziale disparità di trattamento rispetto a quella assicurata agli uomini.
Ciò è particolarmente evidente sotto il profilo specifico della rappresentanza; nonostante l’indubitabile mancanza di ostacoli di carattere giuridico che limitino l’accesso delle donne alle cariche politiche, permane tuttora un problema di fondo che limita sostanzialmente la possibilità delle donne di accedere alla funzione rappresentativa. Va infatti riconosciuto che farsi votare e diventare rappresentanti è per queste ultime ancora molto difficile.
Il tema del riequilibrio della composizione della rappresentanza in un’ottica di genere viene spesso rappresentato come condizione necessaria per il « completamento della democrazia », così come specularmente la scarsa presenza femminile nei più alti livelli decisionali è considerata un « deficit democratico ». Ancor più significativamente, sul piano costituzionale la rivendicazione paritaria tende ad erigere il principio di uguaglianza fra uomini e donne a diritto fondamentale, acquistando in tal modo la legittimità di un interesse generale.
Come è noto, l’affermazione dei diritti delle donne è avvenuta, pur con molti distinguo, progressivamente, partendo dalla necessità di superare, inizialmente, un diverso riconoscimento di status rispetto a quello sancito per il genere maschile. Una volta conseguita la parità giuridica intesa come divieto di discriminazione, si è passati ad una fase successiva, in cui di fatto si è potuto assicurare effettività ai diritti delle donne attraverso la predisposizione di misure di «protezione». Inoltre nell’impegno ad ampliare e spostare in avanti la nozione di pieno rispetto dei diritti umani per tutte e per tutti, il divieto di discriminazione ha potuto essere riletto non come irrilevanza delle differenze davanti alla legge, ma come garanzia di tutte le differenze.
Si è trattato di un processo pluridecennale di trasformazione delle società, contraddistinto da battaglie epocali, per lo più combattute dalle sole donne, segnato da conquiste e riconoscimenti ma altresì da brusche involuzioni, soprattutto in quelle realtà politiche e culturali che si basavano sui valori tradizionali, fortemente influenzate dalla concezione della naturale inferiorità della donna e dalla conseguente inevitabilità del dominio maschile.

L’art. 3 della Costituzione Italiana stabilisce che «tutti i cittadini hanno pari dignità sociali e sono uguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.». Il principio di uguaglianza e di parità giuridica, su cui si basa la gran parte degli ordinamenti giuridici contemporanei, è stato riconosciuto solo in tempi recenti dopo secoli di battaglie contro le discriminazioni nei confronti delle donne e delle minoranze etniche e religiose.

Una prima evidente manifestazione delle diverse possibilità di accesso alle cariche pubbliche emerge dagli ostacoli che le donne incontrato per poter accedere ai gradi più elevati dell’istruzione. Il diritto allo studio è uno dei diritti fondamentali della persona, riconosciuto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’uomo del 1948. Tuttavia, quello che oggi viene considerato un diritto inalienabile, tutelato dalle leggi di tutti i paesi civili, fino a qualche secolo fa era un privilegio del solo genere maschile. Fino al XVIII secolo sono pochissime le donne a cui era consentito ottenere un grado di istruzione superiore e portare a termini gli studi universitari. Il motivo alla base di tale diseguaglianza e di disparità di diritti era l’idea comune, secondo la quale le donne non sarebbero state adatte a svolgere determinati lavori e cariche pubbliche, di conseguenza dovevano essere “tenute lontano da tutte le magistrature, i luoghi di comando, i giudizi, le assemblee pubbliche e i consigli, così che si occupino solo delle loro faccende donnesche e domestiche” .Persino nel 1700 – il secolo dei Lumi, degli ideali rivoluzionari di libertà ed uguaglianza – non si verificarono progressi nell’ambito dell’emancipazione e dei diritti della donna, il cui ruolo nella società era limitato a quello di madre e moglie, soggetta prima all’autorità del padre e poi a quella del marito. Tuttavia, verso la fine del XVIII secolo si manifestò un crescente interesse per il tema dell’educazione femminile: in Francia, in Inghilterra ed in altri paesi europei furono introdotte delle modifiche al sistema educativo nazionale, in modo da permettere alle donne di apprendere le scienze e le arti per avere una cultura laica e sostenere la conversazione maschile, poiché, come sosteneva Montesquieu «non esiste alcuna legge naturale che assoggetti le donne agli uomini e la diversità risiede nell’educazione.» Questa forma di apertura, peraltro fermamente osteggiata dai pensatori tradizionalisti e conservatori, permise ad un numero limitato di donne di poter accedere agli studi universitari, fino a quel momento privilegio degli uomini. In Italia, che all’epoca non era ancora una nazione unita, vi furono alcuni casi sporadici di donne che poterono addottorarsi. Tuttavia, come è possibile notare, il numero delle donne che riuscivano ad addottorarsi era ancora molto limitato poiché, nonostante alcune riforme del sistema educativo, in Europa predominava l’idea secondo la quale alle donne non spettasse nessun’altro compito se non quello di madre.

Tuttavia, la discriminazione e l’ineguaglianza dei diritti erano giustificate non solo dall’idea che la donna fosse incapace di ricoprire determinati ruoli e svolgere determinate professioni, ma era avvalorata dall’asserita certezza che le donne non aspirassero a tali incarichi: « per quanto riguarda il diritto allo studio, solo nel 1859 fu compiuta una piccola riforma: con la legge Casati sulla pubblica istruzione n. 3725 (artt. 315-327), infatti, fu resa obbligatoria l’istruzione elementare per garantire il diritto all’istruzione ad entrambi i sessi e per combattere il dilagante analfabetismo. Grazie a questa riforma, era concesso alle donne anche il diritto di frequentare i licei e accedere all’istruzione superiore. Pochi anni dopo, nel 1876, si compì un considerevole passo in avanti nel riconoscimento dei diritti delle donne, in quanto con il regolamento universitario dell’8 ottobre 1876 si stabilì che anche le donne potessero «attendere agli studi universitari ed addottorarsi in giurisprudenza». Nonostante ciò, alle donne non era ancora possibile accedere alle cariche professionali e meno che mai a quelle politiche, poiché infatti la popolazione femminile all’epoca non godeva nemmeno del diritto di voto. Inoltre, pur essendo stata approvata la legge Casati e pur essendo stata data l’opportunità alle donne di conseguire la laurea, il numero di laureate fino ai primi anni del Novecento è irrisorio, ed occorre considerare che, una vota terminati gli studi, trovavano molte difficoltà nell’esercitare una professione a causa dei pregiudizi secondo cui la donna non fosse degna di svolgere le stesse attività dell’uomo. Ben rappresentativa è la dichiarazione tradizionalista e conservatrice del Ministro della Giustizia Giuseppe Zanardelli: «La donna è diversa dall’uomo; essa non è chiamata agli stessi uffici, non è chiamata alla vita pubblica militante; il suo posto è la famiglia, la sua vita è domestica, le sue caratteristiche sono gli affetti del cuore che non si convengono coi doveri della vita civile; la forza della donna non è nei comizi, ma nell’impero del cuore e del sentimento sul freddo calcolo e sulla ragione crudele. I diritti delle donne a partire dal XX secolo Nei primi decenni del Novecento furono avanzate alcune proposte legislative a favore dell’estensione del diritto di voto alle donne e circa «l’eguaglianza dei due sessi nell’esercizio delle professioni», tra cui il progetto Socci; tuttavia, dominava ancora l’idea secondo la quale alla donna dovessero essere precluse alcune professioni a causa della sua minore intelligenza, del suo ruolo insostituibile nella famiglia, della sua instabilità e incostanza, del suo disinteresse per le questioni politiche e sociali. È nei primi anni del Novecento che il movimento femminista comincia a crescere e a far sentire la sua voce nel panorama politico e sociale dell’epoca, in nome della rivendicazione dei diritti sociali, civili e politici, nonostante l’ostilità dei partiti politici conservatori e dei socialisti. Bisognerà aspettare il 1919 per assistere ad un considerevole passo in avanti: con la legge n. 1176 del 1919 finalmente, fu abolito l’istituto dell’autorizzazione maritale, cosicchè le donne ottennero l’emancipazione giuridica; inoltre si stabilì che: «Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionari o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento».

Nel ventennio fascista, il movimento femminista subì diversi “rallentamenti” nella corsa ai diritti sociali e politici: l’Associazione per la donna fu sciolta e solo i movimenti femminili allineati al fascismo e alla religione cattolica sopravvissero; inoltre, sebbene il diritto di voto fosse stato esteso ad alcune categorie di donne (tra cui le madri di caduti di guerra e le donne con la licenza elementare), in realtà, durante il governo Mussolini alla popolazione femminile furono negati molti diritti, tra cui quello all’insegnamento delle discipline umanistiche nei licei e di alcune discipline negli istituti tecnici. Come conseguenza di quanto appena detto, il tasso di occupazione femminile in questi anni calò drasticamente e si ebbe un ritorno della donna nella condizione di dipendenza dal marito: nella famiglia italiana bisognava considerare «da una parte la superiorità del marito sopra la moglie e i figli, dall’altro la pronta soggezione e ubbidienza della moglie». La donna dunque doveva essere relegata al ruolo di madre di famiglia e padrona di casa, in quanto doveva «ritornare sotto alla sudditanza assoluta dell’uomo; padre o marito, sudditanza e, quindi, inferiorità spirituale, culturale ed economica». Solo con la fine della dittatura fascista la popolazione femminile riesce ad ottenere alcuni diritti civili: il primo dei quali è il riconoscimento del diritto di voto, concesso nel 1945 su proposta di De Gasperi e Togliatti. Tuttavia, è solo a partire dalla seconda metà degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 che il movimento femminista italiano ottiene grandi progressi, tra cui l’abolizione dello sfruttamento statale della prostituzione (Legge Merlin, 1958) e l’accesso alle cariche giuridiche e diplomatiche a partire dal 1961. Tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’70, nonostante il raggiungimento di alcuni traguardi sociali e giuridici, la condizione e il ruolo della donna nella società europea era ancora inferiore rispetto a quello dell’uomo. In questi anni, l’ONU adottò una Dichiarazione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna e contemporaneamente la Comunità Europea realizzò uno studio per evidenziare le problematiche della popolazione femminile europea nel mondo del lavoro. Da questo studio risultò che, sebbene la partecipazione delle donne al mondo del lavoro fosse quantitativamente importante, non era qualitativamente significativa: alle donne non venivano attribuiti ruoli gestionali, le disparità salariali erano ancora molto significative, il tasso di occupazione femminile era ancora molto più basso rispetto a quello maschile e le lavoratrici madri non erano tutelate. Di conseguenza, a partire dal 1975 la CE promosse cinque direttive per la parità di trattamento nel lavoro e la sicurezza sociale. Pochi anni dopo, nel 1979, l’Assemblea Generale dell’ONU adottò la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, in cui si dichiara l’uguaglianza economica, sociale, civile e politica della donna e si evidenzia che ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne è una violazione dei principi di dell’eguaglianza dei diritti e del rispetto della dignità dell’uomo. La Convenzione, inoltre, stabiliva che «tutti gli Stati parti prendono tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne nella vita politica e pubblica del paese, ed assicurano loro il diritto a) di votare, b) di prendere parte all’elaborazione della politica dello Stato, […]; gli Stati parti prendono tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti delle donne al fine di assicurare loro gli stessi diritti degli uomini per quanto concerne l’educazione […]; gli Stati parti riconoscono alla donna la parità con l’uomo di fronte alla legge […].» Nei decenni successivi, le donne hanno cominciato a rivestire ruoli sempre più importanti nella politica, nel mondo del lavoro, grazie al riconoscimento di maggiori diritti. Grazie all’acquisizione dell’emancipazione femminile, la società occidentale è profondamente cambiata e anche l’idea di famiglia ha subito dei cambiamenti significativi: la donna non ha più un ruolo subalterno e gode della potestà, alla pari del marito, e dunque ha gli stessi diritti e doveri del coniuge nell’educazione e controllo dei figli. (art. 316 cod. civ.); inoltre, non essendo più considerata come proprietà del marito, la donna non ha più l’obbligo di avere lo stesso domicilio (art. 45 cod. civ.) e la stessa residenza del coniuge (art. 144 cod. civ.) ed infine, alla morte del marito, le spetta la metà del patrimonio. (art. 540 cod. civ.) Oggi giorno, grazie alle battaglie combattute dai movimenti femministi e dalle donne in nome della parità, in gran parte dei paesi del mondo alle donne è riconosciuta l’uguaglianza sostanziale con gli uomini sotto tutti i profili. Infatti, secondo quanto affermato dall’articolo 7 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo, proclamata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1948 «Tutti sono uguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna discriminazione, ad un’uguale tutela da parte della legge».

Allo stato attuale nonostante i considerevoli progressi della condizione femminile i ritardi e le resistenze a muoversi con coerenza nella direzione di un recupero dello squilibrio di genere sono le più svariate e influenzano tutti gli ambiti della civiltà umana, dalla cultura, alla società, alla religione, alle scienze storiche, all’economia, alla politica. E per quanto vi sia un generale riconoscimento sulla necessità di una società paritaria, il risultato è ancora ben lontano dall’essere soddisfacente. Nel nostro Paese, proprio per porre rimedio a questa situazione di disuguaglianza sostanziale, da un lato alcune modifiche costituzionali hanno provveduto ad inserire nella Carta fondamentale il concetto di «pari opportunità» (si tratta delle modifiche degli artt. 51 e 117 Cost., nonché di alcune norme inserite negli Statuti delle Regioni speciali ad opera della legge cost. n. 2 del 2001), dall’altro il legislatore ordinario, in più di una occasione — con alterne fortune — ha fatto ricorso allo strumento delle c.d. « azioni positive » al fine di compensare la sottorappresentanza femminile nelle Assemblee elettive .
Con riferimento alle Regioni ordinarie, invece, la legge costituzionale n. 3 del 2001 (« Modifiche al Titolo V della Parte seconda della Costituzione ») ha introdotto nel nuovo art. 117, comma 7, Cost., la previsione per cui « le leggi regionali rimuovono ogni ostacolo che impedisce la piena parità degli uomini e delle donne nella vita sociale, culturale ed economica e promuovono la parità di accesso tra donne e uomini alle cariche elettive ».

Sulla scorta di tali previsioni, nonché della modifica degli articoli 122 e 123 della Costituzione (che ha dato avvio al processo di elaborazione di nuovi Statuti regionali e di leggi per l’elezione dei Consigli nelle Regioni a statuto ordinario), tutte le Regioni che hanno adottato norme in materia elettorale hanno introdotto disposizioni specifiche (per lo più incentrate sulle c.d. « quote di lista ») per favorire la parità di accesso alle cariche elettive e riequilibrare la rappresentanza di uomini e donne. La descritta evoluzione del quadro costituzionale e legislativo si completa a livello regionale e locale con l’approvazione della legge n. 215 del 2012, della legge n. 56 del 2014 (comma 137) e, da ultimo, della legge n. 20 del 2016, che contengono disposizioni espressamente volte a promuovere il riequilibrio della rappresentanza di genere nei Consigli e nelle Giunte degli enti locali e nei Consigli regionali. Il cammino «di parità» iniziato con la nascita della Costituzione e sviluppatosi anche grazie all’impulso dell’Unione europea e del contesto internazionale ha dunque prodotto, da un punto di vista giuridico-formale, molti cambiamenti. Il percorso dell’emancipazione femminile, per quanto concerne la rimozione della maggior parte degli ostacoli giuridici alla eguaglianza formale, può dirsi sostanzialmente concluso. Ciononostante, permane il gap che vede la presenza femminile nelle istituzioni tuttora minoritaria e poco rilevante.
Oltre ai ripetuti interventi normativi volti a promuovere la partecipazione femminile alla politica e alle pronunce del giudice costituzionale , un importante contributo a sostegno della parità di genere e a garanzia dell’effettività delle disposizioni normative introdotte dal legislatore in materia di azioni positive è riconducibile ad una serie significativa di decisioni del giudice amministrativo relativa ai ricorsi contro provvedimenti — di Sindaci o Presidenti di Provincia o Regione — di nomina dei componenti (esclusivamente o quasi di sesso maschile) delle Giunte, giurisprudenza che, nella gran parte dei casi, si è espressa a favore del riequilibrio della rappresentanza di genere all’interno degli organi degli enti locali e regionali.

Dalle pronunce del Consiglio di Stato e della Corte costituzionale dell’ultimo decennio emerge che il principio del riequilibrio tra i sessi nella rappresentanza politica è il frutto della veicolazione operata dal legislatore — nello specifico, dallo Statuto dell’ente locale — e non una diretta conseguenza prodotta dalla disciplina costituzionale. In altri termini, si ritiene indispensabile rinvenire nello Statuto dell’ente interessato una norma espressa e ulteriore rispetto alle prescrizioni costituzionali sulla parità. L’art. 51, comma 1, della Costituzione, come integrato dalla legge costituzionale n. 1 del 2003 (con l’aggiunta della proposizione «A tal fine la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini»), legittima le c.d. azioni positive, che il legislatore deve, però, formulare in concreto. Sembra doversene dedurre che, in mancanza di «appositi provvedimenti» legislativi di carattere attuativo, il principio non possa trovare concreta ed immediata applicazione, con conseguente impossibilità di tutela in sede giurisdizionale. Va osservato, peraltro, che la giurisprudenza amministrativa è stata tendenzialmente costante nell’esprimersi favorevolmente al riequilibrio della rappresentanza di genere, spesso interpretando in modo ampio le disposizioni degli Statuti e rinvenendovi vincoli giuridici al potere politico.
Negli anni più recenti la giurisprudenza in materia di quote e pari opportunità si è sempre più consolidata nel senso di una tutela effettiva della parità e si è ulteriormente sviluppata, arricchendosi di nuove argomentazioni, anche alla luce di importanti novità legislative. Tra queste, la disciplina contenuta nella legge n. 215 del 2012 , che ha introdotto disposizioni volte a promuovere il riequilibrio delle rappresentanze di genere nelle amministrazioni locali, da un lato intervenendo nel procedimento elettorale dei Comuni (art. 2), riservando a ciascun sesso almeno un terzo delle candidature ed introducendo la doppia preferenza di genere, creando così le condizioni per un concreto riequilibrio della rappresentanza in seno ai Consigli; dall’altro lato, modificando l’art. 6, comma 3, del T.U.E.L. (D.lgs. n. 267 del 2000), disponendo che gli Statuti comunali stabiliscano norme per assicurare condizioni di pari opportunità e per garantire la presenza di entrambi i sessi nelle Giunte comunali, e che gli enti locali provvedano ad adeguare gli Statuti comunali entro sei mesi dalla sua entrata in vigore (art. 1).
Nel mutato contesto normativo, i giudici amministrativi sono arrivati in alcuni casi ad affermare che, sul piano interno, « è oramai pacificamente acquisita la portata precettiva del principio di pari opportunità all’accesso agli uffici pubblici e alle cariche pubbliche di cui all’art. 51 della Carta Costituzionale, inteso come esplicazione del principio fondamentale di eguaglianza (art. 3) e a quest’ultimo accomunato dalla natura di diritto fondamentale  anche rispetto agli Enti locali, atteso che gli Statuti comunali e provinciali, ai sensi dell’art. 6 del D.lgs. n. 267 del 2000 — come modificato, da ultimo, dalla legge n. 215 del 2012 —, « devono stabilire norme per assicurare condizioni di pari opportunità tra uomo e donna e per assicurare la presenza di entrambi i sessi nelle giunte e negli organi collegiali del comune e della provincia, nonché degli enti, aziende ed istituzioni da essi dipendenti » .

Mentre dunque in precedenza la giurisprudenza aveva tendenzialmente sposato il principio, ribadito anche dalla Corte costituzionale, secondo cui il legislatore, ai fini della tutela delle pari opportunità, si limitava a predisporre i mezzi per il conseguimento del risultato senza precostituirlo direttamente, siffatta impostazione pare essere stata corretta dalla legge n. 215 del 2012, che ha modificato l’art. 6, comma 3, del d.lg. n. 267 del 2000, imponendo la modifica degli Statuti e «influenzando» anche le pronunce giurisprudenziali.

Le pronunce richiamate dimostrano come il principio della parità di genere abbia progressivamente trovato una propria valorizzazione grazie alla giurisprudenza amministrativa, che con pochi distinguo ne ha riconosciuto costantemente la piena giustiziabilità, contribuendo al radicamento dello stesso nel tessuto dell’ordinamento.

Nonostante gli importanti avanzamenti che queste decisioni consentono, l’uguaglianza di genere rappresenta tuttora una sfida che richiede una attenzione permanente da parte delle istituzioni e di una cultura politica e sociale egualitaria.

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