Autonomia negoziale e contratti di garanzia atipici

di Serafino Ruscica

Schema preliminare di svolgimento della traccia:

  1. Autonomia negoziale e garanzie personali e patrimoniali;
  2. Garanzie reali atipiche;
  3. Il divieto di patto commissorio;
  4. Le alienazioni a scopo di garanzia;
  5. Il patto marciano;
  6. Conclusioni.

Svolgimento

L’autonomia contrattuale si sostanzia nel potere di scegliere se e con chi concludere il contratto, nonché di decidere di farsi sostituire nel compimento dell’attività negoziale. L’art 1322, al comma 2 c.c. chiarisce, altresì, che le parti possono liberamente determinare il contenuto del contratto nei limiti imposti dalla legge, nonché concludere contratti misti, atipici o collegati. I contraenti possono, inoltre, utilizzare contratti tipici per perseguire finalità atipiche, purché le stesse siano meritevoli di tutela secondo l’ordinamento giuridico. Le parti, infine, possono scegliere la forma del contratto, salvo i casi previsti dalla legge (artt. 1350 e 1352 c.c.), e inserire elementi accidentali nel regolamento contrattuale.

In altri termini, si può affermare che l’autonomia contrattuale è generalmente molto ampia, salvo i limiti imposti dalla legge e dal vaglio di meritevolezza secondo l’ordinamento giuridico del contratto atipico. Questa tendenza spiccatamente elastica che caratterizza la libertà di predeterminazione del contenuto contrattuale da parte paciscenti si è affermata con forza nell’ambito delle garanzie personali e patrimoniali del credito, talvolta anche in parziale sovrapposizione alla garanzia patrimoniale generica di cui all’art 2740 c.c.. La norma, invero, dopo aver stabilito che il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri, chiarisce che non sono ammesse limitazioni a tale forma di responsabilità, se non nei casi previsti dalla legge. Da ciò se ne deduce, quindi, che l’autonomia contrattuale non può spingersi sino al punto di derogare al disposto di cui all’art 2740 c.c., ma può solo prevedere degli strumenti più incisivi che ne rafforzino la portata. La ratio di tale limitazione va ravvisata nell’esigenza di garantire la par condicio creditorum, ossia il generale principio secondo cui ciascun creditore ha uguale diritto di essere soddisfatto sui beni del debitore, salvo il caso in cui esistano cause legittime di prelazione (individuate dalla stessa legge nel privilegio, nel pegno e nell’ipoteca).

Dunque, l’atipicità delle garanzie si scontra, già ab origine, con il limite posto dalla disposizione di cui all’art 2740 c.c.. che non consente di derogare, se non per legge, alla garanzia patrimoniale generica ma solo di rafforzarla. Inoltre, un ulteriore ostacolo al riconoscimento di garanzie atipiche è rappresentato, per quanto riguarda le garanzie reali atipiche, dal fatto che, essendo le due delle garanzie reali legislativamente previste diritti reali sub specie di garanzia, esse mutuano dai diritti reali le caratteristiche della tipicità e del numerus clausus. In altre parole, l’esigenza di tassatività avvertita dal legislatore emerge con forza proprio con riguardo al pegno ed ipoteca, i quali, trattandosi di diritti reali (seppur di garanzia) mutuano dai diritti reali ordinari le caratteristiche principali, ossia inerenza del diritto al bene cui accede, ambulatorietà (e cioè permanenza del diritto nella res anche laddove, rispetto ad essa, si avvicendino più proprietari), assolutezza od opponibilità erga omnes del vincolo costitutivo e tassatività.

Tale ultimo requisito, in particolare, ha una portata generica perché riferibile all’interno novero di diritti reali, ma nello specifico, pone dei limiti sia interni che esterni ai singoli diritti.

Sicuramente è tassativo sia l’elenco che il codice ha predisposto con riguardo alle tipologie di diritti reali esistenti nel nostro ordinamento sia il contenuto, normativamente previsto, di ciascuno di essi.

Alla luce, dunque, delle puntuali individuazioni effettuate dal legislatore, ai privati prima e all’interprete poi, in sede di vaglio di ammissibilità del negozio stipulato tra le parti, è impedito di costituire diritti reali che non siano ricompresi nell’elenco stilato dal legislatore. Da un lato, cioè, il legislatore individua puntualmente il diritto, dall’altro ne tipizza il contenuto segnando una linea di confine oltre la quale l’autonomia privata non può spingersi. Il principio del numero chiuso e della tipicità dei diritti reali rappresentano i risvolti di una medesima medaglia: il primo esprime il divieto per i privati di creare altri diritti reali rispetto a quelli già espressamente disciplinati dalla legge; il secondo evidenzia come sia, di regola, precluso ai privati di modificare la disciplina legale dei singoli diritti reali.

Per tale motivo, le garanzie reali devianti rispetto alla fattispecie reale tipica non erano viste, originariamente, di buon occhio dalla dottrina e dalla giurisprudenza, rappresentando il principio di tipicità dei diritti reali un retaggio della visione prettamente dominicale degli scambi economici che rinveniva nella proprietà il principale strumento di produzione della ricchezza.

Tuttavia la complessità e l’evoluzione dei traffici commerciali ha visto consolidarsi l’uso di garanzie reali atipiche, talune delle quali sono state, negli ultimi anni, recepite dallo stesso legislatore che, come vedremo, per ragioni sistematiche, ha ritenuto opportuno codificarle.

Fatta questo doverosa premessa, ci si può soffermare sulle singole garanzie atipiche poste al vaglio di meritevolezza da parte dei giudici, facendo particolare attenzione a quelle reali, che come già affermato, sono quelle che hanno incontrato la maggiore renitenza di dottrina e giurisprudenza.

Nell’ambito dei diritti reali, a fronte di un orientamento tradizionale che negava la possibilità, per i privati, di apportare qualsivoglia modifica al contenuto dei diritti reali esistenti, si è affermata, negli ultimi anni, una tesi più moderna che tende ad estendere la possibilità per i privati di modificare nei tratti non essenziali la disciplina dei diritti de quibus, purché perseguano interessi meritevoli di tutela.

Negli ultimi tempi si sono affacciati, così, nel panorama dei rapporti giuridici nuove fattispecie di diritti reali di difficile ma accertata nuova esistenza.

Gli autori che condividono questa tesi favoritista evidenziano che non esiste all’interno del nostro ordinamento nessuna norma che vieta espressamente ai privati la costituzione di diritti reali atipici. Lo stesso art. 1322, co 2,

c.c. consente, inoltre, ai privati di predisporre operazioni contrattuali non conformi ai tipi legalmente tipizzati dal codice, purché perseguano interessi meritevoli di tutela giuridica secondo l’ordinamento. In sostanza, il giudizio di meritevolezza di un negozio rimesso alla volontà delle parti, qualora non sia stato fatto a monte dal legislatore attraverso una disposizione ad hoc, viene rimesso, a valle, al vaglio dell’autorità e non comporta una assoluta preclusione per le parti di addivenire ad un accordo non tipizzato. Una estrema rigidità degli schemi negoziali, non adeguati alla evoluzione della contrattualistica attuale, rischierebbe anzi di limitare la circolazione della ricchezza, scopo questo sotteso all’intero ordinamento civilistico.

Di talché, si sono iniziati a declinare i diritti reali secondo paradigmi diversi da quelli ordinari: si pensi alla multiproprietà, alla proprietà risolubile, alle servitù irregolari.

Le fattispecie attorno alle quali gravitano i maggiori dibattiti sono le varianti del pegno, ossia pegno irregolare, rotativo e omnibus, le cui coordinate normative vanno rinvenute negli artt.2784 e ss c.c..

Il pegno è un contratto reale predisposto per volontà del debitore o di un terzo e avente ad oggetto beni mobili, universalità di mobili e crediti. Il contratto si perfeziona con la consegna della res al creditore, il quale è il solo a poterne disporre fintantoché il debitore non abbia adempiuto la propria prestazione.

Va precisato che, in caso di inadempimento del debitore, il bene oggetto del pegno non passerà in proprietà al creditore, ma quest’ultimo potrà soddisfarsi, con preferenza rispetto agli altri creditori, sul ricavato della vendita del bene all’incanto. L’art. 2744 c.c., rubricato “divieto del patto commissorio”, vieta, infatti, le pattuizioni in

cui, in caso di inadempimento del credito garantito, si conviene che la cosa data in pegno o in ipoteca passi in proprietà del creditore.

Fermo restando che l’oggetto del pegno, secondo la disciplina comune a tutti i contratti, deve essere determinato o determinabile (oltre a possibile e lecito), si è profilata l’ipotesi di contrarre un pegno con oggetto generico. Si parla di pegno c.d. omnibus in relazione al diritto della banca – esplicitamente previsto dalle norme uniformi bancarie – di far sottoscrivere al cliente la clausola con la quale abbia facoltà di ritenere tutti i titoli o valori di proprietà del correntista e già detenuti a qualsiasi titolo e/o ragione e addirittura pervenuti successivamente nel possesso della banca, ad estinzione di un credito di quest’ultima.

L’anomalia rispetto al contratto di pegno ordinario risiede nel fatto che il diritto di espropriazione di cui beneficia l’istituto di credito non è circoscritto alla res materialmente gravata dalla causa di prelazione; al contrario, il perimetro operativo del pegno può abbracciare anche i beni di cui il debitore disporrà in futuro.

I dubbi posti dal pegno omnibus riguardano proprio la genericità del suo oggetto e di riflesso, la validità dell’operazione negoziale tout court.

Dal momento che il pegno omnibus è previsto dalle norme bancarie uniformi, quali leggi speciali ai sensi dell’art. 2785 c.c., la sua regolamentazione può invero sfuggire a quella delle norme-base del codice. Esso, però, non può essere carente di quei requisiti che connotano la fisiologia dei contratti, pena la predisposizione di un negozio che tale non può essere considerato.

La Cassazione, in una nota pronuncia, ha negato la possibilità di pattuizione da parte e a favore della banca di una clausola omnibus, sanzionandola con la nullità per contrarietà al terzo comma dell’art. 2787 c.c. il quale richiede, affinché il contratto di pegno possegga tutti i crismi di validità, la sufficiente determinazione dell’oggetto. La nullità della clausola contenente un generico riferimento ad ogni altro eventuale credito presente e futuro, diretto o indiretto, vantato dal creditore, oltre alla puntuale indicazione di quello per il quale il pegno è stato convenuto, però, non travolge ipso facto l’efficacia della prelazione pignoratizia anche con riferimento al singolo credito ritualmente indicato nel contratto, qualora il giudice di merito pervenga alla conclusione che la singola convenzione rappresenti una mera clausola di stile, la cui nullità parziale non si comunica al contratto. Altra giurisprudenza, invece, per evitare che il pegno omnibus venisse espunto dal nostro ordinamento, l’ha considerato ammissibile nei limiti in cui la clausola del contratto che lo prevede contenga una indicazione sì generica, ma comunque idonea ad individuare i beni che costituiranno oggetto del vincolo, a prescindere dalla loro testuale disamina.

Alla luce di quanto dinanzi esposto, il pegno omnibus rappresenta un’ipotesi di pegno che si discosta dalla fattispecie ordinaria, assurgendo a garanzia reale atipica.

Considerazioni non dissimili devono svolgersi anche con riguardo al c.d. pegno rotativo ossia quel contratto costitutivo di garanzia reale con il quale un soggetto, al fine di ottenere un’anticipazione bancaria o di costituire una garanzia per i propri debiti (presenti o futuri) offre come oggetto di pegno una somma di denaro (ad esempio depositata su libretti di risparmio o titoli non individuati) in modo che, una volta scaduto il titolo, la banca con il ricavato dello strumento finanziario possa acquistare altri e nuovi titoli o strumenti finanziari da sottoporre all’originario vincolo di garanzia reale.

Si parla di “rotatività” proprio per indicare la sostituibilità o mutabilità nel tempo del bene oggetto della garanzia reale, senza comportare, ad ogni mutamento, la rinnovazione del vincolo per il sorgere della prelazione. La caratteristica del pegno rotativo consiste dunque nella clausola di rotatività, con la quale le parti si accordano sulla possibilità di sostituire il bene originariamente costituito in garanzia, senza che questa sostituzione comporti novazione del rapporto di garanzia e sempre che il bene offerto in sostituzione abbia identico valore del bene sostituito. La giurisprudenza è consolidata nel riconoscere validità ed efficacia al pegno rotativo. La tesi negativa, invece, fonda le proprie conclusioni sull’impossibilità di trasferire il vincolo originario impresso sulla res su un diverso oggetto, senza che occorra ripetere le formalità richieste in sede di costituzione.

Ad avviso di una risalente pronuncia positiva, la Corte di Cassazione, muovendo i passi dalla considerazione che la cosa data in pegno abbia un suo valore determinato o determinabile, ha considerato valido il patto di rotatività a condizione che il negozio costitutivo della garanzia reale abbia data certa, contenga l’indicazione della cosa data in pegno e che il valore del bene sostituito nel pegno abbia identico valore di quello originario. Sulla scorta di tali considerazioni, i giudici di merito hanno riconosciuto, ad esempio, piena validità al patto di rotatività tra cambiali scadute e cambiali rinnovate. A sostegno di tale orientamento viene spesso citato il meccanismo di cui all’art. 2742 c.c. il quale consente la surrogazione, con un’indennità, della cosa oggetto di pegno perita o deteriorata durante la vigenza della garanzia, o ancora, l’art. 2803 c.c. che prevede il trasferimento della garanzia dal titolo scaduto al suo ricavato.

Il pegno rotativo si distingue dal pegno irregolare, ossia il pegno avente ad oggetto denaro, beni o altre utilità fungibili, con la conseguenza che oggetto dell’espropriazione non è la res sulla quale cade materialmente il vincolo, ma il valore della medesima. In sostanza, quando il debitore costituisce un pegno su una data somma di denaro, il vincolo non graverà sulla somma in quanto entità tangibile e specificamente identificabile; graverà, invero, sul quantum pattuito, essendo il solo tantundem oggetto di vincolo. Rispetto al pegno ordinario le differenze sono sostanziali poiché consistono nel diverso contenuto della realità, che nel pegno ordinario si estrinseca nell’opponibilità erga omnes della causa di prelazione sulla somma ricavata dalla vendita del bene oggetto del contratto, mentre nel pegno irregolare si concretizza nell’attribuzione in proprietà delle cose consegnate al creditore. Tenendo presente l’analogia tra i due istituti si ritiene applicabile al pegno irregolare la disciplina dettata per il pegno ordinario solo relativamente agli aspetti inerenti alla funzione di garanzia; con riguardo, invece, agli aspetti diversi si ritiene applicabile la disciplina del mutuo ex art.1851 c.c.. Non è valida la clausola che consente al creditore di appropriarsi dei beni oggetto del pegno irregolare indipendentemente dal valore della prestazione garantita perché tale pattuizione concreterebbe un patto commissorio vietato.

Merita, inoltre, particolare attenzione anche il pegno non possessorio: fattispecie recentemente codificata dal legislatore con l’art 1 comma 1 d.lgs. n. 59/2016 con la finalità di incentivare il finanziamento delle imprese e l’attività d’impresa mediante l’agevolazione delle forme di recupero del credito, consentendo, attraverso una garanzia sui mezzi di produzione e sulle merci, la realizzazione del valore del bene oggetto di garanzia ad opera dello stesso creditore, attraverso il cd revolving ossia la rotatività della garanzia dalla materia prima, al prodotto finito, fino al ricavato della vendita. Trattasi, quindi, di nuova forma di garanzia la cui natura giuridica è caratterizzata dalla specialità, dalla settorialità e dalla rotatività. Quanto alla specialità si fa riferimento alla mancanza spossessamento che connota tale figura di pegno. In sostanza, la garanzia si costituisce senza consegna del bene che resta nella disponibilità del debitore; pertanto, il creditore non entra nella disponibilità del bene oggetto di garanzia.

La settorialità, invece, riguarda un triplice aspetto. Sotto il profilo soggettivo, il debitore deve essere un imprenditore iscritto nel registro delle imprese. Sotto il profilo oggettivo, il pegno può avere ad oggetto solo beni mobili (anche immateriali), purché destinati all’esercizio dell’impresa, ad esclusione dei beni mobili registrati, potendosi trattare comunque di beni mobili esistenti o futuri, determinati o determinabili. Infine, sotto il profilo funzionale, si tratta di una garanzia funzionalmente collegata ai soli crediti afferenti all’esercizio dell’impresa e non anche ai crediti personali dell’imprenditore. La rotatività caratterizza l’istituto nel senso che il bene oggetto di pegno, in mancanza di espressa previsione contrattuale in senso contrario, può essere trasformato o alienato, nel rispetto della sua destinazione economica. In tal caso il pegno si trasferisce, rispettivamente, al prodotto risultante dalla trasformazione, al corrispettivo della cessione del bene gravato o al bene sostitutivo acquistato con tale corrispettivo, senza che ciò comporti costituzione di una nuova garanzia. La forma prevista per la costituzione della garanzia è quella scritta, ad substantiam e a pena nullità e il regime di pubblicità che consente di rendere opponibili ai terzi la garanzia non possessoria ha carattere costitutivo. La specialità di tale fattispecie emerge chiaramente nella definizione di quattro modalità speciali di escussione della garanzia, predisposte al fine

di evitare l’aggiramento del divieto del patto commissorio. La prima modalità di escussione è la vendita dei beni oggetto del pegno, trattenendo il corrispettivo a soddisfacimento del credito fino a concorrenza della somma garantita. Tale vendita è però assistita da una serie di garanzie poste a tutela non solo del debitore ma anche degli altri creditori che possano vantare diritti sul residuo valore del bene. In particolare, il creditore ha l’obbligo di informare immediatamente per iscritto il datore della garanzia dell’importo ricavato e di restituire contestualmente l’eccedenza; la vendita, poi, deve avvenire tramite procedure competitive (non tipizzate) anche avvalendosi di soggetti specializzati, sulla base di stime effettuate (salvo il caso di beni di non apprezzabile valore) da parte di operatori esperti nominati di comune accordo tra le parti o, in mancanza, è designato dal giudice. La norma sembra introdurre, invero, una cautela marciana.

La seconda modalità di escussione, prevista nel caso in cui oggetto del pegno sia un credito, consiste nell’escussione dei crediti oggetto di pegno fino a concorrenza della somma garantita. Dunque, anche in questo caso il creditore non si può arricchire.

La terza modalità di escussione del pegno consiste, invece, nella locazione del bene oggetto del pegno imputando i canoni a soddisfacimento del proprio credito fino a concorrenza della somma garantita. Infine l’ultima modalità di escussione consiste nell’ appropriazione dei beni oggetto del pegno fino a concorrenza della somma garantita, a condizione che il contratto consenta tale possibilità e preveda anticipatamente i criteri e le modalità di valutazione del valore del bene oggetto di pegno e dell’obbligazione garantita. Tale modalità di escussione introdurrebbe, secondo i primi commentatori della disposizione, una forma di autotutela privatistica che deroga al divieto del patto commissorio.

Alla luce di quanto premesso, possiamo sostenere che a fronte di un sistema codicistico datato e rigido, si è assisto allo sviluppo, nella prassi, di figure atipiche in materia di garanzia del credito, destinate a costituire una valida e più efficiente alternativa alle vetuste garanzie codicistiche, non solo attraverso l’uso differenziato dei classici rimedi, ma anche attraverso l’utilizzazione delle fattispecie contrattuali tipiche, quali ad esempio la vendita.

Una figura particolarmente discussa è rappresentata dalle alienazioni a scopo di garanzia di crediti, le quali sembrerebbero  impattare  nel  divieto  del  patto  commissorio  sancito  dall’art.  2744  c.c. Solitamente questa alienazioni ricalcano gli schemi tipici dei contratti traslativi, come la cessione del credito di cui all’art. 1260 c.c. o la vendita di cui all’art. 1470 c.c. con la differenza che, in caso di inadempimento del debitore, la cosa alienata o il credito ceduto verranno incamerati dal creditore a soddisfazione del suo credito.

La prima questione affrontata dai giudici di legittimità ha riguardato la delimitazione dei confini entro i quali possa operare il divieto di patto commissorio: cioè se detto divieto sia limitato alle sole ipotesi di patto commissorio accessorio alle garanzie reali espressamente previste dalla legge, o se si estenda anche alla figura di patto commissorio autonomo, a quell’operazione contrattuale collegata cioè ad un’alienazione a scopo di garanzia che preveda il passaggio al creditore della proprietà della cosa alienata in garanzia, qualora il creditore stesso non ottenga il pagamento nel termine stabilito. A tale interrogativo, la Corte di Cassazione ha risposto affermativamente, rilevando che, in tal caso, il risultato dell’operazione concretamente posta in essere equivale a quello positivamente sanzionato.

In ordine poi alla ratio giustificatrice del divieto in esame, va rilevato che gli orientamenti tradizionali l’hanno individuata nell’esigenza di tutelare il debitore bisognoso dall’approfittamento da parte dei creditori ed in quella di evitare che il debitore subisca pressioni e coartazioni, sanzionando quindi la privazione della libertà di disporre. Secondo altri, invece, si è voluto in tal modo scongiurare il pericolo che il creditore acquisti, a titolo di garanzia, la proprietà di un bene del debitore di valore superiore all’importo del credito garantito; mentre da parte di altri autori si è ritenuto che la giustificazione di tale divieto andrebbe ricercata anche o esclusivamente nella necessità di tutela del principio generale della par condicio creditorum.

Secondo autorevole dottrina la vera ratio del divieto in esame andrebbe ricercata nell’esigenza di tutela dell’interesse generale di evitare – attesa la sproporzione fra valore del bene ceduto e importo del credito garantito, – un patto potenzialmente usurario e quindi, socialmente pericoloso, per il quale, la nullità costituirebbe

una giusta sanzione. Un rimedio idoneo a scongiurare questi pericoli ben potrebbe essere rappresentato dalla stipulazione del cd. “Patto Marciano”, risalente ad una probabile interpolazione giustinianea di un testo del giurista Marciano, che consentiva al creditore insoddisfatto di appropriarsi del bene ricevuto in garanzia, sempre che questo fosse stimato al giusto prezzo. Si tratta, a ben vedere, di una convenzione (collegata all’alienazione a scopo di garanzia) con la quale il creditore e debitore pattuiscono che, in caso di inadempimento di quest’ultimo, il bene trasferito in garanzia resti definitivamente di proprietà del creditore, previa stima del valore di esso da effettuarsi da un terzo all’epoca dell’inadempimento e con obbligo a carico del creditore medesimo di trasferire al debitore l’eventuale eccedenza tra il valore del bene trasferito e l’importo del credito garantito. Altra questione di non poco momento, sottoposta ai giudici di legittimità , ha riguardato la individuazione in concreto delle figure di alienazione a scopo di garanzia. In un primo tempo si è ritenuta lecita la vendita con patto di riscatto a scopo di garanzia, qualora fosse caratterizzata dal trasferimento immediato della proprietà del bene al creditore, sotto condizione risolutiva dell’adempimento da parte del debitore dell’obbligazione garantita. Per converso, è stata ritenuta nulla, ai sensi dell’art. 2744 c.c., tale fattispecie traslativa, qualora fosse sottoposta alla condizione sospensiva dell’inadempimento, nel termine pattuito, dell’obbligazione garantita. Tale soluzione è stata giustificata con la considerazione che, essendo la ratio sottesa al detto divieto basata sulla necessità di evitare una pressione ingiustificata sul debitore nella fase esecutiva del rapporto obbligatorio, non poteva ritenersi nulla l’alienazione a scopo di garanzia risolutivamente condizionata, in quanto, in tal caso, la pressione sul debitore veniva ad essere esercitata al momento della conclusione del contratto, (e quindi in una fase antecedente l’adempimento dell’obbligazione) in cui sarebbe stato possibile il ricorso ad altri strumenti di tutela, quali, ad esempio, l’azione di rescissione. Tale impostazione ha offerto il fianco a numerose critiche, che hanno richiesto l’intervento risolutivo delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Censurando ogni formalistica distinzione fra trasferimento a scopo di garanzia sospensivamente e risolutivamente condizionato, i giudici di legittimità hanno statuito che il divieto di patto commissorio è stato in realtà sancito da una norma materiale, volta a perseguire il raggiungimento di un determinato risultato economico, indipendentemente dalla natura dello strumento contrattuale adottato dalle parti, precisando altresì che nella vendita a scopo di garanzia, l’esigenza di tutela del debitore e degli altri creditori non costituisce il solo motivo, ma assurge al rango di causa del contratto, in quanto il trasferimento della proprietà trova giustificazione obiettiva nel fine di garanzia, causa questa che risulta inconciliabile con quella di scambio propria della vendita. In altre parole, si è ravvisata la divergenza fra la causa tipica del negozio prescelto ed il risultato concretamente conseguito, diretto ad eludere il divieto stabilito dall’art.  2744  c.c.,  con  la  realizzazione  di  un’ipotesi  di  contratto  in  frode  alla  legge. Particolari figure di alienazioni a scopo di garanzia sono state rinvenute nel sale and lease back e nella cessione del credito a scopo di garanzia.

L’operazione di sale and lease back o lease back è una fattispecie complessa, ormai divenuta socialmente tipica e riconosciuta dagli usi commerciali, in cui l’utilizzatore concessionario, al fine di procurarsi risorse finanziarie, vende un bene di sua proprietà all’impresa di leasing concedente, che, contestualmente, glielo concede in locazione finanziaria, con la facoltà per l’utilizzatore di riacquistarne la proprietà alla scadenza del contratto, pagando un determinato prezzo prestabilito.

Una parte minoritaria della dottrina, soffermandosi sui rapporti fra la ratio dell’art 2744 c.c. e la funzione economica di tale contratto, sostiene che tale operazione complessivamente costituirebbe un vero e proprio mutuo assistito da garanzia reale atipica sui beni del mutuatario sicché il contratto in oggetto realizzerebbe, in ogni caso, lo scopo vietato dall’art 2744 c.c., con la conseguenza che il leasing di ritorno sarebbe nullo, perché in frode alla legge. I sostenitori di tale opinione hanno osservato che, di regola, chi concede un finanziamento non si accontenta di una garanzia di valore uguale al credito concesso e che, nella pratica, il lease back immobiliare prevede canoni nettamente superiori ai canoni locatizi, in quanto comprendenti una quota di capitale. Il che vuol dire che l’utilizzatore, essendo tenuto a pagare i canoni, è perciò stesso obbligato alla restituzione del capitale e quindi ancora più pregiudicata risulta la sua posizione posto che la perdita definitiva del bene (per ritardato pagamento

dei canoni) può intervenire anche dopo che una parte del capitale sia stata già restituita. La giurisprudenza di merito, in un primo tempo, ha assunto una posizione oscillante, caratterizzata da pronunzie che in alcuni casi hanno negato che il negozio di sale and lease back concretasse una violazione del divieto di patto commissorio ed in altri casi ha sancito la nullità della fattispecie stessa, ravvisando in essa, comunque, la strumentalità e la secondarietà della funzione di scambio rispetto a quella di garanzia. In seguito la Corte di Cassazione ed i giudici di merito, anche alla luce delle nuove teorie sulla natura “ concreta “ o “pratica” della causa negoziale, formulate dalla più moderna dottrina, hanno affermato che il divieto in esame riguarda un risultato sia giuridico che economico e non già gli strumenti impiegati per raggiungerlo e che l’illiceità di cui all’art.2744 c.c. è diretta ad impedire che attraverso qualsiasi forma negoziale, si destini preventivamente il bene al soddisfacimento del creditore per l’ipotesi di inadempimento del debitore. Si è avvertita, quindi, la necessità di un accertamento, caso per caso, della causa in concreto della fattispecie di sale and lease back.

A ben vedere, nel sale and lease back, manca un credito preesistente da garantire, sicché la vendita del bene non è, di per sé, in grado di svolgere una funzione di garanzia; senza considerare peraltro che l’alienazione non è sottoposta ad alcuna condizione, né sospensiva né risolutiva di adempimento di preesistente obbligazione, tant’è vero che, dopo l’integrale pagamento dei canoni, occorre pur sempre esercitare il diritto di opzione, al fine di riacquistare la titolarità del bene.

Volendo poi procedere ad un’analisi che conduca ad un inquadramento dogmatico dell’intera operazione negoziale qui in esame, essa potrebbe configurare, nella sua interezza, una fattispecie a formazione progressiva, composta da due segmenti negoziali, costituiti dalla vendita e dal leasing; di essi, il primo sarebbe connotato da una causa tipica di scambio, mentre il secondo da una causa atipica di finanziamento.

In altre parole, il sale and lease back costituirebbe il risultato di un procedimento complesso di formazione della volontà delle parti, realizzato attraverso un percorso atipico che è lecito e rimane tale, sempre che non si dimostri l’esistenza di una causa concreta contra legem.

Altra figura negoziale, ormai diffusasi nella prassi bancaria è la cessione del credito a scopo di garanzia. Sempre più spesso gli istituti bancari, contestualmente alla concessione di un finanziamento, o successivamente, richiedono al soggetto finanziato, quale ulteriore garanzia, il trasferimento dei crediti vantati da quest’ultimo nei confronti di terzi. Sotto il profilo causale, secondo la tesi sostenuta dalla prevalente giurisprudenza, si ravvisa, nella cessione al vaglio, uno schema negoziale caratterizzato da una causa generica costante, il trasferimento del credito, e da una causa specifica variabile, che può essere di scambio, di permuta, di garanzia, solutoria e che nasce comunque dal concreto accordo delle parti. Con specifico riferimento alla tematica della pretesa violazione del divieto di patto commissorio, alcuni autori, ritenendo che una causa di garanzia non sarebbe mai in grado di sorreggere un trasferimento di credito, conseguentemente negano che tale figura sia compatibile con uno scopo di garanzia e che sia meritevole di tutela giuridica e ne affermano la illiceità per violazione dell’art. 2744c.c. Secondo l’impostazione maggioritaria, invece, la causa di garanzia ben si adatta alla cessione del credito, sempre che sia superato, con esito positivo, il controllo di meritevolezza di cui all’art 1322 c.c. Per quanto concerne poi la natura giuridica di tale garanzia atipica, alcuni autori configurano una cessione di credito sottoposta alla condizione risolutiva dell’adempimento da parte del debitore, ritenendo applicabile, per analogia, il disposto dell’art.2803 c.c. dettato in tema di pegno di credito, o prevedendo la pattuizione di un patto cd. “Marciano”, in entrambi i casi al fine di paralizzare l’operatività dell’art. 2744 c.c. Secondo altra dottrina invece saremmo dinanzi ad una cessione di credito a cui è collegato un pactum fiduciae tra cedente e cessionario, in virtù del quale il cessionario sarebbe obbligato a ritrasferire al cedente il credito cedutogli, in caso di adempimento da parte del debitore cedente, con la precisazione che anche secondo tale impostazione, soltanto la stipula di un patto Marciano o l’applicazione analogica dell’art.2803 c.c., consentirebbe di realizzare una fattispecie lecita.

Orbene, dalle fattispecie sopramenzionate è evidente come, nel corso degli anni, il divieto del patto commissorio sia stato sostanzialmente dequotato. Questa tendenza è pian piano emersa anche sul piano legislativo dove sono state introdotte le nuove figure del finanziamento immobiliare ai consumatori di cui all’art 120quinquiesdecies

comma 3 TUB e del finanziamento alle imprese garantito dal trasferimento sospensivamente condizionato dell’immobile ex art 48bis TUB.

Il comma 3 dell’art 120-quinquiesdecies del Tub recita: “Fermo quanto previsto dall’articolo 2744 del codice civile, le parti possono convenire, con clausola espressa, al momento della conclusione del contratto di credito, che in caso di inadempimento del consumatore la restituzione o il trasferimento del bene immobile oggetto di garanzia reale o dei proventi della vendita del medesimo bene comporta l’estinzione dell’intero debito a carico del consumatore derivante dal contratto di credito anche se il valore del bene immobile restituito o trasferito ovvero l’ammontare dei proventi della vendita è inferiore al debito residuo. Se il valore dell’immobile come stimato dal perito ovvero l’ammontare dei proventi della vendita è superiore al debito residuo, il consumatore ha diritto all’eccedenza”. La ratio della disposizione è quella di snellire e abbreviare le procedure nel caso di inadempimento del debitore mediante un accordo su meccanismi privatistici di escussione della garanzia che consentano di evitare le procedure esecutive giudiziali, anche in funzione deflattiva del contenzioso. L’art 48bis Tub, invece, recita: “Il contratto di finanziamento concluso tra un imprenditore e una banca o altro soggetto autorizzato a concedere finanziamenti nei confronti del pubblico (…) può essere garantito dal trasferimento, in favore del creditore o di una società dallo stesso controllata o al medesimo collegata ai sensi delle vigenti disposizioni di legge e autorizzata ad acquistare, detenere, gestire e trasferire diritti reali immobiliari, della proprietà di un immobile o di un altro diritto immobiliare dell’imprenditore o di un terzo, sospensivamente condizionato all’inadempimento del debitore”. il secondo comma della norma, poi, continua statuendo che: “In caso di inadempimento, il creditore ha diritto di avvalersi degli effetti del patto di cui al comma 1, purché al proprietario sia corrisposta l’eventuale differenza tra il valore di stima del diritto e l’ammontare del debito inadempiuto e delle spese di trasferimento”. La stima deve essere effettuata, secondo il sesto comma, da un perito nominato dal presidente del tribunale su richiesta del creditore.

Dunque, si tratta di un’altra figura di patto marciano, consistente nel finanziamento alle imprese garantito dal trasferimento di un bene immobile sospensivamente condizionato all’inadempimento degli obblighi restitutori nascenti dal contratto.

Anche in tema di garanzie personali, si può rilevare come la disciplina codicistica non abbia impedito alla prassi di apportare correzioni agli schemi tipici (si pensi alla fideiussione omnibus) ed al contempo di introdurre figure negoziali atipiche come il contratto autonomo di garanzia, ormai molto diffuso nel sistema bancario.

Secondo la elaborazione dottrinaria e giurisprudenziale, il contratto autonomo di garanzia costituisce un negozio atipico con cui un terzo garante (normalmente una banca, una società di Assicurazioni , ma anche un privato, estranei all’obbligazione principale) assume l’obbligo verso il creditore beneficiario di pagare a quest’ultimo, “a prima (o semplice) richiesta” e “senza eccezioni” una somma determinata di denaro, allo scopo non di garantire il puntuale adempimento della prestazione dovuta dal debitore originario, ma di riversare su se stesso il rischio di inadempimento o di inesatto adempimento della prestazione garantita.

Caratteristica di tale operazione è la previsione delle clausole “a prima (o semplice) richiesta” e “senza eccezioni”. Con la prima, le parti intendono stabilire che la prestazione di garanzia sarà eseguita a favore del creditore in base alla semplice dichiarazione di quest’ultimo circa il verificarsi dell’inadempimento o dell’inesatto adempimento dell’obbligazione principale; in virtù della seconda, è preclusa al garante la facoltà di opporre al creditore tutte le eccezioni relative al rapporto debitorio di base (ad es. quelle di invalidità, inefficacia o estinzione).

A differenza della fideiussione, che ha la funzione di garantire l’adempimento dell’ obbligazione principale, nel contratto autonomo di garanzia la causa va invece ricercata nell’esigenza di addossare sul garante il rischio della mancata prestazione del debitore originario; pertanto, mentre il fideiussore assume l’obbligo di eseguire una prestazione di identico contenuto a quella dovuta dal debitore medesimo, la prestazione dovuta dal garante ha ad oggetto il pagamento al beneficiario di una determinata somma di denaro. Inoltre, altro elemento che distingue la fideiussione dal contratto autonomo di garanzia consiste nell’accessorietà dell’obbligazione del fideiussore

rispetto all’obbligazione garantita; ed invero il fideiussore può, opporre al creditore le eccezioni relative al rapporto di base ex art.1945 c.c..

Volendo soffermarsi ad analizzare la prassi sviluppatasi nel commercio nazionale e internazionale, emerge che le figure più utilizzate di garanzia autonoma sono sostanzialmente le seguenti: la garanzia di mantenimento dell’offerta (o bid bond) che ha lo scopo di garantire il beneficiario dal rischio che l’offerente di un determinato contratto, nel caso in cui l’offerta sia accettata, rifiuti di firmare il contratto stesso alle condizioni prestabilite; la garanzia di buona esecuzione (o performance bond) con cui si vuole garantire il beneficiario contro il rischio di inadempimento del debitore; la garanzia da rimborso (repayment bond) con cui si vuole garantire la restituzione da parte dell’ordinante di tutte le somme anticipate.

Sotto il profilo della giustificazione causale dell’operazione, alla teoria dell’astrattezza della causa di tali figure contrattuali, si è obiettato che la causa del contratto autonomo di garanzia esiste ed è esterna allo stesso, in quanto il riferimento al rapporto sottostante, effettuato dalle parti nel medesimo contratto costituisce un’adeguata giustificazione causale della stessa obbligazione di garanzia. In altre parole, affinché tale fattispecie possa ritenersi causale e non astratta, sarebbe sufficiente la dichiarazione in essa dello scopo di garanzia (c.d. expressio causae), nonostante la giustificazione causale sia al di fuori della medesima operazione di garanzia. In ordine poi al tema della individuazione della disciplina applicabile alla fattispecie in esame, alcuni autori propendono per il criterio dell’applicazione della disciplina del tipo prevalente, mentre altri seguono il criterio della combinazione delle discipline dei tipi negoziali interessati, altri, infine, preferiscono il criterio analogico.

Va inoltre ricordato un orientamento assunto da una parte della dottrina e da una certa giurisprudenza che, ravvisando nell’obbligazione del garante una promessa del fatto del terzo, ha ritenuto applicabile ad essa la disciplina dell’art.1381 c.c. A tale tesi si è però obiettato che, sebbene entrambe le fattispecie presentino una funzione di garanzia, esse tuttavia si distinguono fra loro, in quanto mentre il garante nel contratto autonomo di garanzia è tenuto all’adempimento in base alla semplice richiesta del creditore, il promittente di cui al richiamato art. 1381 c.c. deve rispondere solo in caso di mancata esecuzione della prestazione da parte del debitore. Sembra pertanto potersi ritenere applicabile al contratto autonomo di garanzia, e nei limiti di compatibilità, la disciplina codicistica della figura negoziale più vicina a quest’ultima, quella cioè della fideiussione, in quanto vi sarebbe un’indubbia affinità tra la funzione indennitaria e quella propria della fideiussione stessa.

In conclusione, dall’analisi dei numerosi contratti di garanzia atipici affermatisi nel nostro ordinamento emerge come il principio di tipicità sia stato tendenzialmente superato dalle pratiche invalse nei rapporti commerciali e bancari tra le parti. In particolare, per questi ultimi, data la delicatezza degli interessi in gioco, il legislatore è intervenuto con una serie di modifiche legislative al TUB, nella prospettiva di dare sistematicità alle pratiche bancarie di escussione del credito. Al contrario, invece, nei rapporti tra i privati, la scelta degli strumenti di tutela della garanzia patrimoniale è stata rimessa alle parti a cui è stata riconosciuta la facoltà di discostarsi gradualmente dalle garanzie tipiche, comportando la progressiva dequotazione dei principi cardine dell’ordinamento quali quello della tipicità dei diritti reali di garanzia e del divieto del patto commissorio.

Legislazione correlata

  • Codice civile: artt. 1322, 1350, 1352, 2740, 2744, 2785, 2787, 2742, 2803, 1260, 1470;
  • D.lgs. n. 59/2016: art. 1.

Guarda anche

  • Anatocismo e prassi usurarie

  • Servitù atipiche e tutela esperibile

  • Parere diritto civile corso avvocati INPS

  • IL PRINCIPIO DI CONCORRENZA CON PARTICOLARE RIFERIMENTO ALLA FIGURA DELL’ORGANISMO DI DIRITTO PUBBLICO.