Parere diritto civile corso avvocati INPS

La direzione provinciale del lavoro presso l’inps di Pescara viene convenuta in giudizio in quanto proprietaria di alcune unità immobiliari site all’interno del condominio di via Garibaldi 10. L’amministratore agendo su mandato dei condomini chiede al giudice civile di inibire alla odierna convenuta la possibilità di destinare gli appartamenti di sua proprietà
ad uffici aperti al pubblico lamentandosi delle seguenti circostanze.
Eccessiva rumorosità degli impianti di climatizzazione, disturbo del pacifico godimento degli immobili per via degli schiamazzi degli utenti che in attesa di accedere all’ufficio sostano indisciplinatamente negli androni.
L’intero stabile originariamente in proprietà esclusiva dall’INPS è stato frazionato in più unità immobiliari e venduto a privati a seguito di procedimento di dismissione immobiliare e pertanto INPS ha predisposto unilateralmente il regolamento condominiale originario.
Il candidato, premessi brevi cenni sui regolamenti condominiali e sulla disciplina delle immissioni sonore rediga motivato parere.

Traccia di diritto civile

Il presente parere è inteso ad analizzare la posizione della Direzione Provinciale del Lavoro presso l’INPS di Pescara nel procedimento giurisdizionale in cui risulta convenuta dall’amministratore del condominio ove è situata la propria sede. L’amministratore dello stabile, originariamente di proprietà esclusiva dell’INPS e poi oggetto di parziale dismissione a privati, su mandato dei condomini, ha chiesto al giudice civile di inibire la destinazione degli appartamenti di proprietà dell’amministrazione ad uffici aperti al pubblico in ragione dell’eccessiva rumorosità degli impianti di climatizzazione, nonché del disturbo al pacifico godimento degli immobili derivante dagli schiamazzi degli utenti in attesa presso gli androni del condominio.

Occorre quindi verificare, alla luce della normativa in tema di proprietà e condominio, l’eventuale legittimità delle richieste avverse e i possibili esiti di un tale contenzioso.

Com’è noto, la disciplina in tema di proprietà ha subito un’evoluzione nel corso del tempo col mutare dello stesso ruolo dato alla proprietà nel nostro sistema economico. Mentre il  codice civile del 1865 risultava incentrato sull’istituto della proprietà, quale principale fonte di ricchezza, intesa come signoria sulla cosa, diritto assoluto, opponibile erga omnes, e pieno nel suo esercizio, lo scenario del codice civile, anche alla luce dei parametri costituzionali, si caratterizza per un netto ridimensionamento nell’ottica di contemperamento con diversi interessi ritenuti meritevoli di tutela.

Ciò risulta già evidente nell’art. 42 della Costituzione, che, pur “riconoscendo” la proprietà privata quale diritto naturale, la descrive come diritto soggetto a limiti, modi di acquisto e di godimento definiti dalla legge in ragione della sua funzione sociale. La stessa collocazione della norma nell’ambito dei rapporti economici e non tra i principi fondamentali è indicativa del diverso rango che si riconosce al diritto in esame.

Conforme a tale inquadramento è l’art. 832 del codice civile, che nell’individuare il contenuto del diritto, pur affermando il diritto di godere e disporre in modo pieno ed esclusivo della cosa, ribadisce che lo stesso si esplica entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico. L’ottica solidaristica che, sulla scorta dell’art. 2 della Costituzione, connota tutto l’ordinamento civile colora anche il diritto di proprietà, inteso non più come un diritto illimitato, ma connotato da limiti che sono interni allo stesso contenuto del diritto, ne definiscono la natura, tant’è che si parla di proprietà conformata, per realizzare la funzione sociale cui è preposto e far sì che non se ne realizzi un esercizio abusivo.

In controtendenza rispetto a tale evoluzione sembrerebbe la Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, che invece inserisce la proprietà tra i diritti inviolabili, all’art. 1 del suo Protocollo addizionale, riconoscendo nel contempo però il diritto degli Stati contraenti di emanare le leggi necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale. 

Tra i limiti che connotano il diritto di proprietà vi sono senz’altro quelli che il codice disegna per regolare i rapporti di vicinato tra fondi, che per identità di ratio possono ritenersi applicabili anche ai rapporti condominiali.

In particolare, l’art. 844 in tema di immissioni definisce uno di questi limiti e costituisce nel contempo uno dei referenti normativi da cui la più recente dottrina e giurisprudenza ha fatto emergere il divieto di abuso del diritto quale principio generale del nostro ordinamento. La norma ha l’obiettivo di contemperare i diritti di ciascun proprietario nei casi in cui l’esercizio del diritti che connotano la proprietà possa recare pregiudizio ai proprietari dei fondi limitrofi.

L’art. 844, dedicato ad ogni tipo di propagazione, ma per quanto di interesse comprensivo anche dei rumori e più in generale delle immissioni sonore, sancisce il principio per cui il proprietario di un fondo non può impedire le immissioni provenienti dal fondo del vicino, se queste non superano la normale tollerabilità, avuto anche riguardo alle condizioni dei luoghi.

Quanto all’indagine che spetta all’autorità giudiziaria, ove adita da chi lamenti immissioni dal fondo altrui, il secondo comma, per meglio definire il generico referente della “normale tollerabilità”, fornisce due ulteriori indicazioni, stabilendo che il giudice “deve” contemperare le esigenze della produzione con le ragioni della proprietà e “può” tener conto della priorità di un determinato uso; ne deriva che mentre il bilanciamento tra l’interesse produttivo e quello delle proprietà confinanti è obbligatorio, il rilievo della priorità di uso risulta facoltativo, lasciando alla discrezionalità del giudice il compito di stabilire quando è opportuno tenerne conto.

È evidente che il giudizio rimesso all’autorità giudiziaria in tema di immissioni è connotato da un forte grado di soggettività, non fornendo la norma codicistica, nella sua voluta generalità, indicatori specifici circa il superamento della normale tollerabilità. Ciò dipende giocoforza non solo dalla eterogeneità delle tipologie di immissioni che possono verificarsi in concreto, ma anche delle diverse circostanze di luogo che vanno tenute presenti nella valutazione casistica.

Nondimeno in tema di immissioni sonore, anche sulla spinta comunitaria, sono state nel tempo emanate diverse normative di dettaglio sia nazionali che regionali, dirette a definire, unitamente ad interventi a livello amministrativo locale, la nozione di inquinamento acustico specie nell’esercizio delle attività industriali, nonché le norme in tema di determinazione e gestione del rumore ambientale anche da parte di enti gestori di servizi pubblici (si vedano in particolare la l. 447/1995 e i decreti legislativi nn. 59/2005 e 194/2005 emessi in attuazione di apposite direttive comunitarie). Ciò deriva dal fatto che in materia non vengono in rilievo solamente gli interessi individuali dei proprietari più immediatamente pregiudicati dalle immissioni, ma anche il generale diritto ad un ambiente salubre, che la giurisprudenza più recente riconosce tra i diritti fondamentali tutelati ex art. 2 Cost., rendendo così necessaria una regolamentazione più puntuale specialmente nello svolgimento di attività produttive e servizi pubblici.

Ai fini della presente indagine occorre integrare la disciplina così brevemente richiamata con la particolare normativa dedicata al condominio negli edifici agli articoli 1117 e seguenti del codice civile nonché agli artt. 61 e seguenti delle disposizioni attuative, così come modificati a seguito della recente riforma in materia operata dalla l. 220/2012.

Come noto il condominio individua una particolare forma di comunione, che sorge ex lege in capo ai proprietari delle singole unità immobiliari del medesimo edificio sulle parti dello stabile necessarie o destinate all’uso comune, puntualmente individuate allo stesso art. 1117. A seguito della riforma, la normativa in esame è stata estesa anche alle ipotesi in cui più edifici o condomini abbiano parti comuni (codificando così la figura del cd. supercondominio). Si parla in particolare di comunione forzosa, in quanto consegue automaticamente all’acquisto dell’unità immobiliare e, a differenza del diritto del comproprietario, non è rinunciabile, proprio perché connaturata alla tipologia di aree cui attiene (si vedano in tal senso gli artt. 1104 in tema di comunione e 1118 in tema di condominio). È per tale ragione che la disciplina generale sulla comunione si applica solo per quanto non specificamente previsto dalla normativa dedicata.

Si è discusso in dottrina e giurisprudenza circa la natura del condominio, vagliando in particolare la possibilità di considerarlo come ente autonomo rispetto alla collettività dei condomini, in quanto dotato di propri organi (amministratore ed assemblea) così come altri enti giuridici individuati dall’ordinamento. Invero in giurisprudenza è prevalsa la tesi negativa, non riconoscendosi nel condominio una soggettività distinta, trattandosi di ente dedicato alla gestione degli interessi dei  condomini sulle parti comuni dell’edificio secondo il metodo collegiale. Così nel caso di specie l’amministratore, agendo in giudizio verso uno dei condomini, non agisce nell’interesse del condominio quale entità autonoma rispetto ai soggetti che la compongono, bensì nell’interesse di questi ultimi, come espresso in sede assembleare con l’attribuzione del relativo mandato. Ne è conferma la norma di cui all’art. 1132 c.c., che tutela il condomino dissenziente rispetto all’iniziativa giudiziale deliberata dall’assemblea, consentendogli di separare la propria responsabilità in ordine alle conseguenze della lite. Specularmente è in facoltà dell’assemblea di deliberare un’azione nei confronti di uno degli stessi condomini, proprio come avvenuto nel caso in esame.

Il condominio, oltre a rispondere alle norme codicistiche innanzi citate, può dotarsi di un proprio regolamento, che meglio definisca le disposizioni circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, nonché quelle a tutela del decoro dell’edificio e relative all’amministrazione.

La redazione del regolamento è obbligatoria per gli edifici con un numero di condomini superiore a dieci. L’iniziativa per la sua redazione o revisione può essere assunta da ciascun condomino, ma dev’essere poi approvato dall’assemblea con le maggioranze di cui all’art. 1136 c. 2, diventando così obbligatorio per tutti i condomini, salvo che sia impugnato entro trenta giorni dalla delibera.

Fermo restando il principio per cui il regolamento del condominio non può derogare a buona parte della normativa codicistica, né menomare i diritti di ciascun condomino come risultante da atti di acquisto e convenzioni, l’art. 70 delle disposizioni attuative precisa che per le infrazioni al regolamento condominiale è possibile stabilire esclusivamente sanzioni pecuniarie fino ad un certo ammontare, la cui irrogazione resta sempre soggetta a preventiva delibera assembleare ed i cui incassi sono devoluti al fondo destinato alle spese ordinarie del condominio.

Sullo scorta di quanto innanzi illustrato è possibile ora analizzare la fattispecie concretamente sottoposta al giudice civile.

Nel caso di specie il regolamento condominiale è stato predisposto unilateralmente dall’INPS all’esito del procedimento di dismissione di alcune unità immobiliari dello stabile, originariamente di sua esclusiva proprietà. Tanto è sicuramente ammesso, come appena visto, dall’art. 1138 c.c., salva comunque la successiva delibera assembleare di approvazione.

Ora, premesso che dalla violazione del regolamento di condominio possono sorgere esclusivamente sanzioni pecuniarie, appare evidente che l’istanza proposta dall’amministratore, intesa ad ottenere il mutamento della destinazione d’uso degli appartamenti di proprietà INPS, non possa trovare un addentellato nel regolamento condominiale, essendo stato predisposto dalla stessa INPS, per quanto disciplinabile con tale atto, nell’ottica di assicurare la continuazione della precedente destinazione d’uso e giammai di consentirne un mutamento per volere degli altri condomini. Appare anzi verosimile ipotizzare che l’INPS, nel redigere l’originario regolamento del condominio sorto dalla parziale dismissione di alcune unità di sua proprietà, si sia riservata particolari diritti di uso anche sulle parti comuni, come ammesso dall’art. 1122c.c., il quale si spinge fino a prevedere che alcuni parti, normalmente destinate all’uso comune, siano attribuite in proprietà esclusiva o destinate all’uso individuale. Una simile attribuzione può senz’altro trovare la sua naturale collocazione nel regolamento condominiale, quale fonte normativa propria del condominio anche in tema di uso delle parti comuni, approvata dall’assemblea, fermo restando che laddove si parli di parti “necessarie all’uso comune” (art. 1117, c. 1, lett. a), come nel caso proprio degli androni, l’uso esclusivo è escluso dalla natura dell’area, potendosi invece prevedere particolari modalità di utilizzo, quale appunto la sosta dell’utenza degli uffici.

D’altra parte non sembra che il mutamento della destinazione d’uso degli appartamenti di proprietà dell’ente sia un risultato raggiungibile anche facendo ricorso alla disciplina in tema di condominio ed immissioni.

In particolare, come innanzi illustrato, il condominio riguarda precipuamente le parti comuni del condominio, non conferendo alcun potere o diritto sulle unità immobiliari di proprietà esclusiva del singolo condomino.

Proprio in tema di destinazione d’uso ciò è confermato dall’art. 1117ter, introdotto proprio dalla recente riforma del 2012, il quale consente la modifica della destinazione d’uso esclusivamente delle parti comuni dell’edificio, a seguito di delibera assembleare con maggioranza qualificata dei quattro quinti dei partecipanti del condominio e del valore dell’edificio, previa idonea convocazione e purché la modificazione non rechi pregiudizio alla stabilità o sicurezza del fabbricato o non ne alteri il decoro architettonico.

Interessante ai nostri fini potrebbe essere anche il successivo art. 1117quater, che consente all’amministratore ed anche a singoli condomini di diffidare chi con la propria attività incida negativamente sulla destinazione d’uso delle parti comuni, chiedendo altresì la convocazione dell’assemblea per far cessare tali violazione anche mediante l’esperimento di azioni giudiziarie.

Dunque, ferma restando l’impossibilità di incidere sulla destinazione della proprietà ad uffici aperti al pubblico, non trattandosi di destinazione vietata dalla legge ed anzi essendo tale destinazione preesistente allo stesso sorgere del condominio, l’azione in esame potrebbe sortire un qualche effetto nella misura in cui la controparte dimostri che l’INPS, attraverso i propri uffici, crei nocumento alla destinazione d’uso delle parti comuni dell’edificio. In tal senso potrebbe essere rilevante il lamentato disturbo del pacifico godimento degli immobili per via degli schiamazzi degli utenti in sosta indisciplinata presso gli androni condominiali, parte comune dell’edificio destinata al passaggio dei condomini, salvo valutare, come sopra ipotizzato, una destinazione peculiare di tale parte comune conferita dal regolamento condominiale originariamente predisposto dalla stessa INPS.

Ancora, ad escludere il potere del giudice di incidere sulla destinazione degli appartamenti in esame ad uffici aperti al pubblico, potrebbe richiamarsi altresì l’art. 830 c.c., che in riferimento a beni appartenenti ad enti pubblici non territoriali destinati ad un pubblico servizio consente di applicare la disposizione di cui al precedente art. 828, secondo comma, equiparando tali beni a quelli del patrimonio indisponibile dello Stato ed escludendo che gli stessi possano essere sottratti alla loro destinazione, se non nei modi stabiliti dalle leggi che li riguardano. La normativa richiamata mira a tutelare in maniera più pervicace destinazioni d’uso di rilievo pubblicistico, quale è senz’altro la prestazione del servizio pubblico che l’INPS fornisce.

Detto quanto sopra in merito alla richiesta inibitoria presentata dall’amministratore su mandato dei condomini, è opportuno analizzare altresì la disciplina in tema di immissioni, nella misura in cui sia rispetto agli impianti di climatizzazione, sia in relazione all’utenza, l’amministratore di condominio ha allegato l’eccessiva rumorosità delle suddette fonti collegate all’attività svolta nei locali di pertinenza dell’ente.

A vantaggio dell’amministrazione può sicuramente farsi valere nel caso di specie la priorità d’uso, elemento che tuttavia il giudice nella generalità dei casi, ai sensi dell’art. 844 c.c., non è tenuto obbligatoriamente a considerare, ma solo ove lo ritenga rilevante nel caso concreto. All’uopo tuttavia potrebbe richiamarsi l’art. 6ter del d.l. 208/08, convertito in l. 13/09, il quale specificamente in tema di immissioni ed emissioni acustiche stabilisce che nell’accertare la normale tollerabilità ai sensi dell’art. 844 del codice civile “sono fatte salve in ogni caso le disposizioni di legge e di regolamento vigenti che disciplinano specifiche sorgenti e la priorità di un determinato uso”.  La locuzione “in ogni caso” sembrerebbe, infatti, derogare alla mera facoltatività di cui all’art. 844 c.c., riconoscendo sempre la rilevanza della priorità d’uso in caso di immissioni sonore. Nel caso di specie, infatti, gli attuali condomini, al momento dell’acquisto delle rispettive unità immobiliari, erano ben consapevoli della destinazione di alcuni appartamenti ad uffici aperti al pubblico, con ciò che già ne concerneva in termini di traffico di utenza e di immissioni generate dagli impianti di climatizzazione; pertanto, salvo che non alleghino un peggioramento della situazione di fatto rispetto al momento dell’acquisto, può ritenersi che gli stessi abbiano accettato lo stato di fatto e la destinazione anche delle parti comuni alla sosta degli utenti in attesa.

Esclusa così la prevalenza dell’interesse dei condomini su quello dell’ente in considerazione della priorità d’uso, a prescindere dalla valutazione in concreto della normale tollerabilità, resta da verificare se nel caso di specie l’INPS abbia osservato le normative speciali innanzi richiamate che, in attuazione di direttive comunitarie, assicurano tutela all’ambiente anche nella gestione delle immissioni acustiche, prevedendo il rispetto di valori limite e un articolato sistema di obblighi in capo agli enti gestori di servizi pubblici, nonché di controlli in materia. Trattasi, infatti, di prescrizioni che, attenendo interessi generali ed indisponibili, sono insuscettibili di deroga tanto a livello negoziale, quanto a maggior ragione attraverso un atto, quale il regolamento di condominio, predisposto unilateralmente e approvato con deliberazione collegiale. Ove tali normative siano rispettate nel caso di specie, anzi, l’allegazione di idonee certificazioni a riguardo potrebbe costituire un ulteriore elemento di supporto alla posizione dell’amministrazione nel contenzioso esaminato. In caso contrario, il giudice, verificato il superamento dei valori soglia da parte degli impianti, ne potrebbe ordinare l’adeguamento al fine di garantire il rispetto dei limiti imposti in tema di immissioni sonore.

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