Concorso magistratura 2015. Tema svolto sul danno tanatologico.

DANNO TANATOLOGICO: CRITERI DI LIQUIDAZIONE

SILVIA PERBELLINI CORSO MAGISTRATURA ON LINE

Per danno tanatologico si intende il danno non patrimoniale che la persona subisce per la perdita della vita, intesa quale autonomo bene giuridico.

I danni non patrimoniali sono delle ricadute negative di carattere non economico scaturenti dalla lesione di una posizione giuridica meritevole di tutela.

Secondo la struttura che caratterizza l’illecito aquiliano, i danni non patrimoniali sono conseguenza del verificarsi dell’illecito e sono risarcibili se legati al medesimo da un nesso di causalità giuridica, secondo le norme di cui agli artt. 1223 e 1227 del c.c. e vanno distinti dal danno-evento, inteso come lesione della posizione giuridica tutelata e legato alla condotta del danneggiante da un nesso causale materiale.

La più importante ipotesi di risarcimento del danno non patrimoniale è costituita dalla commissione di un reato, come espressamente sancito dall’art. 185 c.p.; altre ipotesi sono previste dalla legislazione speciale.

In passato l’art. 2059 che, nell’ambito dell’illecito aquiliano contempla il danno non patrimoniale, è stato oggetto di un’interpretazione restrittiva che determinava la risarcibilità di pregiudizi patrimoniali quali le lesioni della salute e il danno morale solo allorché fossero accertati tutti gli elementi costitutivi del reato o nei casi speciali previsti dalla legge.

La Corte Costituzionale argomentando dalla rilevanza costituzionale del bene salute oggetto dell’art. 2 della Costituzione ritenne che, il risarcimento dei relativi pregiudizi dovesse avvenire per il tramite dell’art. 2043 c.c., norma che nell’ambito dell’illecito aquiliano contempla il danno patrimoniale, sostenendo che il danno alla salute fosse risarcibile in quanto danno-evento, così da non soffrire delle limitazioni di cui all’art. 2059 c.c.

La strada seguita dalla Corte fu oggetto di critiche costituendo una forzatura della struttura dell’illecito aquiliano, portando a prescindere dall’accertamento del nesso di consequenzialità giuridica oggetto degli artt. 1223 e 1227 del c.c., richiamati in via espressa dall’art. 2056 c.c.

Le critiche mosse dalla dottrina diedero la stura ad una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. per mezzo della quale assicurare il risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, senza per questo stravolgere la struttura propria della responsabilità aquiliana.

La Corte di Cassazione, nel 2003, affermò che il riferimento alla legge di cui all’art. 2059 c.c, dovesse intendersi estensivamente e quindi comprendente tra le fonti di casi di risarcibilità di danni non patrimoniali anche la Costituzione.

Ammessa, dunque, la risarcibilità di pregiudizi di carattere non patrimoniale tutte le volte che ciò sia previsto dalla legge o risulti leso un diritto costituzionale inviolabile, si sono moltiplicate le domande risarcitorie aventi ad oggetto tali pregiudizi, compreso quello costituito dalla perdita della vita.

L’istituto  del danno tanatologico e le problematiche ad esso connesse sono  da sempre oggetto di un vivace dibattito dottrinale e giurisprudenziale che è stato, da ultimo, riacceso da una recente sentenza della Cassazione: la sentenza 23 gennaio 2014, n. 1361.

Preliminarmente è opportuno tracciarne le differenze rispetto a due figure affini ovvero quella del danno biologico terminale e quella del danno catastrofico.

Il primo è volto a risarcire il pregiudizio dello stato di salute a fronte di una lesione letale, se tra quest’ultima e la morte sia intercorso un lasso di tempo tale da poter apprezzare il peggioramento dello stato di salute: la lesione all’integrità psico-fisica viene considerata danno biologico, accertabile con valutazione medico-legale e liquidabile alla stregua dei criteri utilizzati per la liquidazione del danno biologico vero e proprio.

Il secondo, invece, consiste nella sofferenza psichica patita dal danneggiato prima del decesso in ragione del fatto di essere consapevole del sopraggiungere della morte e presuppone un lasso di tempo apprezzabile tra il fatto illecito e il decesso, oltre che ad uno stato di coscienza della vittima; trattasi, secondo la più recente giurisprudenza, di danno non patrimoniale di natura affatto peculiare che comporta la necessità di una liquidazione che si affidi ad un criterio equitativo puro.

Entrambi i pregiudizi vengono riconosciuti, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, a favore della vittima e degli eredi entrando a far parte del patrimonio del de cuius in un momento antecedente la morte e dunque prima dell’estinzione del soggetto giuridico titolare del diritto di credito risarcitorio.

Come premesso dibattuta e tradizionalmente esclusa è stata invece la risarcibilità del danno tanatologico.

Si è, infatti, sostenuto in ambito dottrinale che il diritto al risarcimento per perdita della vita sorgerebbe solo quando il danneggiato sia già morto e abbia pertanto perso la capacità giuridica necessaria per poter acquisire diritti.

Ulteriore argomento a sostegno dell’irrisarcibilità del danno in questione è dato dalla difficoltà di individuare le conseguenze risarcibili della lesione del diritto alla vita: essendo il titolare morto non potrà subire alcun pregiudizio, né di carattere patrimoniale, né di carattere non patrimoniale e stando così le cose il risarcimento verrebbe ad avere carattere sanzionatorio e non riparatorio; si è inoltre sottolineato che se anche si ammettesse un risarcimento in denaro,  risulterebbe aberrante convertire il bene primario vita in denaro.

Le argomentazioni suesposte sono state per lungo tempo condivise dalla giurisprudenza.

Precedentemente alla sentenza della Cassazione n. 1361 del 2014, la Suprema Corte ha ripetutamente affermato il principio secondo il quale la lesione dell’integrità fisica avente esito letale, verificatosi immediatamente o a breve distanza di tempo dall’evento lesivo, non è configurabile in termini di danno biologico, poiché la morte non è, come sostenuto da alcuni, la massima lesione del diritto alla salute, ma riguarda un diverso bene giuridico e cioè la vita, il cui venir meno in conseguenza del fatto illecito impedisce l’acquisto al patrimonio della vittima di un diritto risarcitorio, trasmissibile agli eredi.

Per la Cassazione a tale conclusione non può obiettarsi l’inammissibilità di un vuoto di tutela civile del diritto alla vita stante la funzione riparatoria e non sanzionatoria che si riconosce alla responsabilità civile; da qui l’impossibilità di riconoscere il risarcimento alla persona che abbia cessato di esistere.

Il soggetto che muore non è nella possibilità di acquistare alcun diritto al risarcimento.

e il riconoscimento di un diritto al risarcimento trasmissibile iure haereditatis, porterebbe ad attribuire alla tutela aquiliana una funzione squisitamente sanzionatrice.

Questa linea di pensiero, seguita dalla giurisprudenza di legittimità, ha trovato seguito anche presso i giudici  della Corte Costituzionale; quest’ultima, in una nota sentenza del 1994, ha posto l’accento su di un ulteriore aspetto che connota la responsabilità civile ovvero la necessità, non solo della lesione di una situazione giuridica soggettiva, ma anche di una perdita ad essa consequenziale, concretizzantesi in una diminuzione o privazione di un valore personale non patrimoniale alla quale parametrare equitativamente il risarcimento.

La suddetta perdita, non si verificherebbe nel caso della morte, difettando una conseguenza economicamente valutabile secondo il criterio della causalità giuridica, enucleato dall’art. 1223 del c.c.

La suesposta corrente di pensiero in punto di danno tanatologico ha incontrato, peraltro, le critiche di una parte della dottrina  che ha, anzitutto, criticato la distinzione operata dalla Cassazione tra diritto alla salute e diritto alla vita, argomentando dal fatto che gli stessi non sarebbero altro, se non declinazioni del medesimo diritto e cioè del più generale diritto all’incolumità personale dal momento che ogni lesione del diritto alla vita implica necessariamente la previa violazione del diritto all’integrità psicofisica della vittima dell’illecito.

In secondo luogo, si è evidenziato che sposare la tesi della Cassazione porterebbe ad una inaccettabile conseguenza, riassumibile nel noto assunto per cui sarebbe economicamente più vantaggioso uccidere piuttosto che ferire, se si ammette il risarcimento del danno biologico per chi subisce una lesione della propria integrità psico-fisica e lo si nega nei confronti di chi subisce una lesione avente esito letale.

Infine, non esente da obiezioni è stata anche l’affermazione dell’impossibilità del danneggiato, stante l’immediatezza della morte, di trasmettere in via successoria il diritto al risarcimento.

Si è, infatti, replicato che secondo le conclusioni cui è addivenuta la più accreditata medicina, la morte sarebbe istantanea solo in rarissimi casi, essendoci in tutti gli altri casi un sia pur brevissimo scarto temporale tra evento lesivo e morte.

Altra dottrina contesta altresì il dogma dell’irrisarcibilità del danno evento, sottolineando che lo stesso non avrebbe alcun fondamento normativo e che ciò troverebbe riprova nella stessa figura del danno biologico, un danno che sarebbe risarcito in sé e per sé come dimostrabile dall’ipotesi del danno alla mano che viene sempre risarcito a prescindere dalle conseguenze pregiudizievoli ad esso legate; e ancora, sostiene che la risarcibilità della perdita della vita non importerebbe l’attribuzione di funzione sanzionatoria alla responsabilità civile, essendo il danneggiante chiamato a risarcire il danno che ha causato e non sanzionato; infine, ritiene che, pur nella poco probabile ipotesi di morte istantanea, il diritto al risarcimento sarebbe comunque configurabile, essendo lo stesso un diritto trasmissibile ed in quanto tale non soggetto ad estinzione per effetto della morte.

Nonostante tale dottrina abbia trovato credito nella giurisprudenza più illuminata le Sezioni Unite, nel 2008, sono tornate a negare la risarcibilità del danno tanatologico quale danno non patrimoniale autonomo.

La Cassazione ha affermato che il giudice deve procedere alla sola liquidazione del danno morale per risarcire la sofferenza provata dalla vittima di lesioni fisiche che hanno determinato in breve tempo la morte, vittima rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della morte; La Cassazione ha voluto per tal via rimediare al vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, in caso di morte pressoché immediata, il risarcimento in termini di danno biologico per la perdita della vita e lo ammette per perdita della salute, solo se sussiste uno scarto temporale apprezzabile tra evento lesivo e morte. Una sofferenza psichica di questo tipo in virtù del brevissimo lasso di tempo tra lesioni e morte, non può essere risarcita come danno patologico, in quanto non in grado di degenerare in patologia, ma nei termini dei danno morale.

La giurisprudenza successiva ha seguito questa impostazione, ma non sono mancate ancora una volta le critiche della dottrina più avveduta che ha sostenuto che così argomentando si finisce per risarcire la sofferenza, ma non la vita: il danno biologico terminale, il danno catastrofale sono cosa diversa dal danno alla vita.

Nel gennaio del 2014 le tradizionali conclusioni cui era giunta la giurisprudenza sono state stravolte dalla sentenza Scarano pronunciata dalla terza sezione della Cassazione.

Con questa sentenza gli ermellini pongono subito l’accento sui risultati poco soddisfacenti cui porta il prevalente orientamento giurisprudenziale, risultati non rispondenti all’effettivo sentire sociale.

Pur ribadendo che vita e salute sono beni ontologicamente  diversi, la Cassazione conclude comunque per la ristorabilità della vita, ritenendo che non sia ostacolo alla medesima il generale principio sulla scorta del quale si ammette a risarcimento solo il danno conseguenza e non il danno evento, poiché sebbene la perdita della vita non abbia conseguenze inter vivos, ciò non può portare a negarne il risarcimento, essendo la stessa il bene supremo dell’uomo e oggetto di primaria tutela e sottolineando che la perdita della vita deve essere valutata ex ante e non già ex post rispetto all’evento che la determina

Si pone inoltre l’attenzione sulla contraddizione insita nel riconoscere la vita quale diritto fondamentale senza poi concretamente tutelarla.

La decisione fissa taluni principi in tema di danno tanatologico.

Il danno non patrimoniale da perdita della vita implica la perdita del bene vita che è oggetto di un diritto assoluto e inviolabile garantito dall’ordinamento in via primaria: si tratta di un danno altro e diverso rispetto a quello alla salute, distinguendosi pertanto dal danno biologico terminale e dal danno catastrofale.

La perdita della vita va ristorata a prescindere dalla consapevolezza che il danneggiato ne abbia, anche in caso di morte immediata; tale diritto si acquista in via istantanea al momento della lesione mortale e quindi anteriormente all’exitus, costituendo la risarcibilità di tale danno valida eccezione al principio dell’irrisarcibilità del danno evento e della risarcibilità dei soli danni conseguenza, poiché la morte determina la perdita non di uno, ma di tutti i beni, di tutti gli effetti e conseguenze di cui constava la vita.

Tale risarcimento ha funzione compensativa ed il relativo diritto è trasmissibile iure hereditatis, poiché ad essere non patrimoniale è il bene protetto, ma non il diritto al risarcimento  della lesione dello stesso.

E per quanto concerne i criteri di liquidazione, non essendo il danno da perdita della vita contemplato nelle tabelle di Milano, è rimessa alla prudente discrezionalità del giudice l’individuazione di criteri valutativi che consentano di pervenire ad un risarcimento equo, ritenendo non soddisfacenti soluzioni di carattere prettamente soggettivo, né la fissazione di un ammontare uguale per tutti, a prescindere cioè dalla relativa personalizzazione, in considerazione in particolare dell’età, delle condizioni di salute, delle speranze di vita futura, dell’attività svolta, delle condizioni personali e familiari della vittima.

Dunque per la Cassazione, essendo il bene vita ontologicamente diverso da quello salute, il danno da perdita della vita non può essere liquidato tramite le tabelle milanesi, che si occupano come noto di un bene diverso dalla vita stessa, e  deve quindi essere rimesso alla valutazione equitativa del giudice, il quale dovrà determinare gli importi attenendosi ai criteri dell’equità, della congruità e della proporzionalità dei medesimi alla portata dell’evento dannoso.

La soluzione adottata dai giudici di legittimità non ha tuttavia convinto la dottrina contraria alla risarcibilità del danno da perdita della vita, che ha ritenuto non condivisibili, in particolar modo, le deroghe apportate alla struttura della responsabilità extracontrattuale.

Si è, infatti, affermato come lo statuto della responsabilità aquiliana sia incentrato e su danno evento  e sul danno conseguenza e che ciascun danno comporta la necessità di accertare il nesso causale che lo lega alla condotta del danneggiante.

Inoltre, non è stata ritenuta convincente l’individuazione del danno-evento nella lesione letale piuttosto che nella morte del soggetto; la lesione letale, si è detto, deve considerarsi un passaggio mediato tra la condotta lesiva e l’evento morte, inidoneo a far sorgere un diritto al risarcimento del danno tanatologico.

La giurisprudenza, alla luce delle suesposte critiche ed in ragione del contrasto giurisprudenziale sussistente in materia di danno tanatologico, ha sottoposto la questione al giudizio delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, perché facciano chiarezza sull’ammissibilità e sui presupposti del risarcimento del danno da perdita della vita.

Vi è, da ultimo da dare conto della proposta di legge n. 1063 presentata nel 2013 che progetta l’inserimento tra le disposizioni attuative del codice civile, dell’art. 84 bis.

Tale norma prevederebbe, ai commi 2 e 3, l’introduzione, nel nostro ordinamento, della figura del danno tanatologico.

Il riconoscimento, da parte dei firmatari della suddetta proposta di legge, dell’istituto del danno tanatologico, appare in sintonia con la sentenza Scarano,  tuttavia appaiono diversi i criteri potenzialmente adottabili ai fini della determinazione del quantum da risarcire e quanto alle stesse modalità di risarcimento.

Secondo la proposta di Legge, il danno sarebbe risarcibile adoperando, ai fini della determinazione degli importi, le tabelle milanesi elaborate per la determinazione del danno non patrimoniale conseguente alla lesione della salute, con una decurtazione degli importi pari all’80%.

Tuttavia, laddove  la menomazione accertata, incida, nel periodo intercorso tra la lesione e la morte, in maniera rilevante su specifici aspetti dinamico-relazionali personali, tale danno non patrimoniale dovrebbe essere liquidato dal giudice, con equo e motivato apprezzamento delle condizioni soggettive del danneggiato, con l’aumento del 50%.

Come premesso, La Cassazione con la sentenza 1361 del 2014 ha detto cose diverse e cioè che salute e bene sono beni differenti e che pertanto il risarcimento del danno da perdita della vita non può avvenire attraverso l’utilizzo delle tabelle di Milano che non sono improntate al bene vita, ma ricorrendo a valutazione equitativa del giudice.

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