CONTRATTI A VALLE DI INTESE VIOLATIVE DEL DIRITTO ANTITRUST

 

CONTRATTI A VALLE DI INTESE VIOLATIVE DEL DIRITTO ANTITRUST

Pubblicato il 24/12/2015 autore Silvia Rea

Premessi brevi cenni sul principio di libertà di concorrenza si soffermi il candidato sulla sorte dei contratti violativi del diritto antitrust.

La tutela della concorrenza rappresenta uno dei principali obiettivi del diritto comunitario che per la prima volta nel 1951,con il Trattato istitutivo della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio, né ha dettato le regole seppur con riferimento a determinate categorie di merci.

Tutto ciò sulla scia di quelle teorie neo-libereste che già nella prima metà dell’Ottocento si erano affermate in Europa e negli Stati Uniti.

La centralità e la strumentalità che la concorrenza riveste nel panorama europeo rispetto alla realizzazione del mercato comune è stata confermata anche dal Trattato di Lisbona del 2007 il quale,precisamente all’art. 3 ,ha annoverato la tutela della concorrenza tra le materie di competenza esclusiva dell’Unione.

A livello nazionale, invece, l’introduzione di una normativa antirurst è avvenuta con notevole ritardo sia rispetto agli altri Stati sia rispetto alla Comunità europea.

Invero,il legislatore solamente negli anni novanta con la L.287/90 ha recepito i principi comunitari e ,in attuazione dell’art. 11 Cost. e dell’art. 41 della Cost. che,a sua volta, tutela e garantisce il diritto di garanzia economica,ha disciplinato la materia in parola.

Con la riforma del titolo V della Costituzione la tutela della concorrenza ha trovato espresso riconoscimento anche a livello costituzionale e precisamente all’art. 117 ove la detta materia è annoverata tra le quelle di competenza esclusiva dello Stato ed è ,perciò, sottratta alla competenza legislativa regionale.

La stessa Consulta, che dopo la cennata riforma è intervenuta più volte in subiecta materia, ha spiegato che la concorrenza va intesa secondo un duplice contenuto.

Innanzitutto secondo una accezione c.d. dinamica ovvero come insieme di misure atte a far si che un mercato concorrenziale rimanga tale, in secondo luogo secondo una visione c.d. statica e ,quindi, come strumento volto alla promozione di assetti concorrenziali.

Inoltre,sempre su questa scia il Giudice delle leggi ha spiegato che la tutela della concorrenza si esplica sia mediante interventi regolativi tesi a sanzionare i comportamenti anticoncorrenziali sia attraverso l’attuazione di interventi volti ad aprire il mercato ( c.d. concorrenza nel mercato) e a garantire la più ampia partecipazione possibile facendo ricorso a procedure concorsuali (c.d. concorrenza del mercato).

Obiettivo del diritto alla concorrenza è dunque quello di abbattere le barriere economiche e di evitare l’affermarsi di quei comportamenti che,inficiando il libero incontro tra domanda ed offerta e incidendo sul rapporto qualità-prezzo, si traducano in una distorsione del mercato.

A riprova del ruolo centrale che il diritto della concorrenza ha progressivamente rivestito anche a livello nazionale si osservi che il legislatore, sulla scorta di una pluriennale esperienza positiva nei Paesi di common law, ha istituito negli anni novanta l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che,con indipendenza di giudizio e di valutazione, ha lo scopo di garantire i diritti dei cittadini-consumatori nonché la libera concorrenza della imprese.

A tal fine, al detto organismo sono stati riconosciuti ampi poteri di indagine nonché sanzionatori.

In particolare, il legislatore interno con la Legge n.287/90 recante “ Norme per la tutela della concorrenza e del mercato” ha individuato e disciplinato due principali forme di violazione della concorrenza che ,a loro volta, si traducono in una alterazione del mercato.

Esse sono le “intese restrittive della concorrenza” ( art. 2 l.287/90 ) e l’”abuso di posizione dominante “( art. 3 l.287/90).

Le dette disposizioni conosciute come norme “antitrust” hanno lo scopo di impedire che le imprese, singolarmente o congiuntamente, pregiudichino la regolare competizione economica mediante intese restrittive della concorrenza, abusi di posizione dominante e concentrazioni idonee a restringere o falsare in maniera consistente il mercato nazionale.

La ratio ad esse sottesa è quindi quella di realizzare un mercato libero e garantire una concorrenza forte al punto da condurre ad una distribuzione più efficiente di merci e servizi a prezzi più bassi e ad una migliore qualità.

In particolare,l’art. 2 co. 3 della L.287/90 sancisce espressamente la nullità delle intese antitrust cosi rendendo manifesta la scelta di disvalore che il legislatore riserva verso le forme di concertazione restrittive della libertà di concorrenza .

Tuttavia, nulla viene detto dalla legislazione nazionale circa le conseguenze civilistiche che la violazione del diritto antitrust riverbera sugli atti negoziali conclusi a valle dai terzi con le imprese colluse .

Ciò ha indotto la dottrina a domandarsi se detta lacuna normativa sia una scelta consapevole del legislatore,volta di fatto ad evitare che le conseguenze negative della intesa anticoncorrenziale si estendano anche al rapporto contrattuale sottostante, o se ,invece, non si tratti di alcuna lacuna posto che, il problema dell’eventuale alterazione della concorrenza realizzata in conseguenza delle intese restrittive, può agevolmente risolversi facendo ricorso agli strumenti civilistici in materia di invalidità negoziale di cui all’art. 1418 c.c..

La soluzione non è immediata e va analizzata secondo una visuale prospettica ampia che tenga conto del fatto che gli effetti distorsivi della violazione del diritto antitrust non si esauriscono nella semplice realizzazione dell’intesa.

Invero,i contratti stipulati in conseguenza di una violazione della normativa antitrust rappresentano lo strumento principale attraverso il quale le imprese colluse agiscono sul mercato alterandone il funzionamento.

Da qui, il bisogno di esaminare quali conseguenze,da un punto di vista strettamente civilistico, patisce il negozio sottostante tenendo conto della duplice e costante necessità,avvertita tanto dalla dottrina quanto dalla giurisprudenza,di approntare adeguata tutela sia ai soggetti che di quelle contrattazioni rappresentano la parte più debole sia alla stabilità del mercato che, di contro, potrebbe essere compromessa in caso di caducazione dei detti contratti.

Sulla questione nel corso del tempo si sono andate affermando diverse teorie di cui si rende necessaria una attenta disamina attese le differenti soluzioni prospettiche cui conducono.

Innanzitutto, è necessario osservare che tra coloro che ritengono che la violazione del diritto antitrust comporti quale diretta conseguenza la nullità del contratto è possibile rinvenire un minimo comune denominatore rappresentato dalla convinzione che sposare una diversa soluzione significherebbe vanificare gli obiettivi avuti di mira dal legislatore con l’emanazione della detta disciplina.

Su questa scia, si distinguono due diverse ricostruzioni che ,seppur attraverso un differente percorso, portano entrambe a concludere per l’affermazione della nullità c.d. “derivata” dei contratti conclusi a seguito della violazione del diritto della concorrenza.

La prima fa riferimento ad un meccanismo invalidante che,prendendo le mossa da un vizio cosiddetto “esogeno” dell’illecito anticoncorrenziale a monte, a sua volta, si trasmette per via riflessa all’accordo sottostante.

La seconda ricostruzione, invece, opta sempre per la nullità del rapporto sottostante ma, al contrario, fa leva sulla esistenza di un vizio invalidante cosiddetto “endogeno” che riguarda la causa o l’oggetto del rapporto sottostante.

In altri termini, la nullità del contratto a valle discenderebbe non da una patologia derivata o riflessa dell’intesa a monte ma da un elemento invalidante interno al contratto idoneo ad inficiarne l’integrità.

Ebbene, la teoria della “nullità derivata”,seppur nelle sue differenti sfumature,poggia sulla circostanza che esiste un nesso di causalità tra l’intesa anticoncorrenziale ed i conseguenti contratti in forza della quale, in applicazione del principio simul stabunt simul cadent, questi ultimi verrebbero travolti a cascata dall’invalidità di cui all’art. 2 co.3 L. 287/90.

Numerose le critiche rivolte al richiamato orientamento atteso che, come fatto notare da più parti, estendere la nullità ad operazioni del tutto autonome ed indipendenti rispetto alle intese violative della normativa a tutela della concorrenza è da considerarsi una soluzione eccessivamente drastica.

Tra l’altro, viene contestata l’automaticità che condurrebbe a tale conclusione ritenendosi invece necessario dimostrare la partecipazione soggettiva dell’utente finale al disegno anticoncorrenziale complessivo.

Parimenti, apparirebbe una forzatura anche il richiamo fatto da altra parte della dottrina alla teoria dei cosiddetti negozi collegati onde giustificare la nullità degli accordi negoziali a valle di una intesa anticoncorrenziale,

Sicché,devono intendesi “collegati” quei contratti che,seppur completamente autonomi sia quanto alla causa sia quanto alla struttura, sono tra loro connessi e preordinati al raggiungimento di un unico interesse.

Ebbene, una parte della dottrina e della giurisprudenza,discostandosi dalla ricostruzione di cui sopra, ha chiarito che affinché i contratti a valle possano essere incisi dalla violazione della normativa antitrust è necessario che tra i due momenti ( accordo a monte e contratto a valle) si ravvisi un nesso giuridicamente qualificabile in termini di collegamento negoziale ovvero è necessario che sussista l’elemento della” unitarietà” dell’interesse perseguito.

Ciò non è riscontrabile negli accordi negoziali che conseguono ad una intesa anticoncorrenziale atteso che detti contratti sono da considerarsi autonomi in quanto svolgono una propria funzione economica a prescindere dalla intesa vietata.

Sempre nell’ambito di quell’orientamento dottrinale e giurisprudenziale che sposa la tesi della nullità in termini derivativi si distingue un ulteriore filone ermeneutico che, a sua volta, riconduce la nullità del contratto a valle alla illiceità cosiddetta “endogena” di uno dei requisiti costituitivi del contratto ex art. 1325 c.c..

In altre parole, la nullità del contratto a valle viene giustificata ravvisando in quest’ ultimo una diretta violazione della norma imperativa di cui all’art. 2 della l.287/90 e del principio generale di ordine pubblico economico di libera concorrenza.

Secondo questa ricostruzione l’accordo stipulato in conseguenza della violazione di una norma antitrust si caratterizza per avere una autonoma causa illecita e pertanto non persegue un interesse meritevole di tutela.

Al pari, non può tacersi il fatto che altra tesi ,del tutto minoritaria, ha prospettato la nullità dei contratti stipulati a seguito della violazione delle norme sulla concorrenza richiamando ,invece, l’art. 1344 c.c.

Secondo questa impostazione i detti negozi sono affetti da nullità in quanto rappresenterebbero un patto in frode alla legge ovvero il mezzo attraverso il quale le singole imprese tendono sostanzialmente ad eludere il divieto di cui all’art. 2 della L. 287/90.

Anche con riferimento alla teoria sopra esposta è possibile muovere una serie di obiezioni.

In particolare,è stato considerato che nel caso di specie manca un comune intento delle parti circa l’interesse pratico perseguito mediante la stipulazione degli accordi negoziali a valle.

In verità, quasi sempre le intese anticoncorrenziali sono frutto di accordi riservati tra imprese che non vedono in alcun modo coinvolto il contraente finale.

Quanto detto rappresenterebbe il punto debole della esposta teoria atteso che un motivo illecito unilaterale non è di per se sufficiente a determinare l’invalidità del contratto.

Ancora, altro orientamento dottrinale ha ritenuto che la sanzione della nullità che riguarda l’infrazione anticoncorrenziale a monte si rifletterebbe anche sugli accordi negoziali sottostanti in quanto questi ultimi,di fatto,assorbono le statuizioni della concertazione a monte.

Ciò determinerebbe la nullità del contratto per illiceità dell’oggetto ex art. 1418 co.2 e 1346 c.c.

Anche con riferimento al punto in questione è stato chiarito che il divieto di cui all’art. 2 della L.287/90 ha ad oggetto quegli standard comportamentali tali da pregiudicare l’equilibrio del mercato.

Pertanto,ne deriva che oggetto del contratto non è il prezzo in se quanto piuttosto le modalità attraverso le quali si giunge ad esso.

Tra quanti hanno aderito alla tesi della nullità derivata non sono mancati coloro che hanno richiamato la teoria della nullità virtuale di cui all’art. 1418 co.1. c.c.”

Secondo la invocata tesi i contratti a valle stipulati a seguito di una infrazione anticoncorrenziale contrastano con la norma imperativa rappresentata dall’art.2 L.287/90.

Ciò in quanto le norme sulla concorrenza rappresentano un corpus organico di norme imperative.

Anche questa ricostruzione è stata oggetto di numerose critiche atteso che non è possibile rinvenire una ipotesi di nullità virtuale allorquando il contrasto non si pone direttamente tra precetto imperativo e regola negoziale.

A riprova di quanto detto è stato evidenziato che lo stesso dato normativo nazionale sancisce espressamente la sola nullità degli accordi tra imprese ( art. 2 co.3 L.287/90) con ciò escludendo la possibilità di estendere la detta sanzione anche ai contratti a valle ovvero ai contratti conclusi tra imprese e cliente.

Sempre tra coloro che accolgono la tesi della nullità dei contratti stipulati a seguito di violazione del diritto antitrust vi sono quanti, discostandosi dagli orientamenti sopra esposti, propongono un regime normativo della invalidità differente da quello codicistico cosi aderendo alla tesi della “nullità di protezione”.

Come noto quest’ultima si caratterizza per la particolarità di alcuni elementi che la differenziano rispetto al regime delle invalidità tradizionali.

L’esigenza di ricorrere al regime della nullità di protezione sarebbe perciò dettata dal particolare bisogno di salvaguardare il contraente debole.

Essa tende, tra l’altro, ad un riequilibrio della disparità sostanziale intercorrente tra i contraenti e mira alla conservazione del rapporto negoziale epurato dalla parte affetta da nullità ex art. 1419 c.c..

In quest’ottica risulta inadeguata alla protezione del contraente debole il regime della nullità prevista dal codice civile che viceversa si caratterizza sia per l’assolutezza della legittimazione sia per la rilevabilità d’ufficio ex art. 1421 c.c. sia per la imprescrittibilità dell’azione.

A conforto della tesi che propende per la nullità cosiddetta a cascata dei contratti a valle è stata inoltre chiamata in causa la particolare fattispecie del’illecito concorrenziale di cui all’art. 3 della L.287/90 ovvero l’”abuso di posizione dominante”.

Ebbene, con riferimento a quest’ultima fattispecie si è osservato che l’illiceità del detto abuso si rifletterebbe anche sugli atti negoziali a valle.

La dottrina è giunta a tale conclusione nel silenzio della norma ovvero richiamando l’art. 9 co. 3 della L192/98 in tema di subfornitura in forza del quale “il patto attraverso il quale si realizza l’abuso di posizione economica è nullo”.

La giurisprudenza ha quindi operato una similitudine per relationem tra la fattispecie dell’abuso di posizione dominante di cui all’art. 3 L.287/90 e l’abuso di dipendenza economica di cui all’art. 9 della L. 192/98 giustificando ciò sul presupposto che l’impresa in posizione dominante non è altro che una impresa in grado di determinare un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi nei confronti di tutti i clienti o i fornitori presenti sul mercato.

Quanto detto comporta dunque che il regime della nullità sancito espressamente dalla L.192/98 è applicabile di rimando alla fattispecie anticompetitiva di cui all’art. 3. della L.287/90.

A questo punto,avendo le intese anticoncorrenziali (art. 2 L.287/90) e l’abuso di posizione dominante ( art. 3 l.287/90) una comune radice sarebbe illogico pervenire a conclusioni diverse con riferimento alla sorte dei contratti a valle.

La sostanziale equivalenza di ratio ravvisabile rispettivamente nel divieto di abuso di posizione dominante e nel divieto di accordo collusivo spiegherebbe la necessaria omogeneità delle conseguenze applicative ad esse sottese.

Nondimeno anche detta ricostruzione è inficiata da una serie di critiche che prendono le mossa dal fatto che il silenzio del legislatore circa le conseguenze ricadenti sul contratto a valle di cui all’art. 2 della L.287/90 deve essere inteso quale scelta consapevole escludente qualsiasi accostamento di ratio tra la disposizione di cui all’art. 2 e quella di cui all’art.3 della legge antitrust attese, tra l’altro, le diverse finalità sottesa alle due disposizioni.

Infatti, mentre il divieto di intese restrittive ha come obiettivo il mantenimento dell’autonomia strategica delle imprese la disposizione di cui all’art. 3 ha invece ad oggetto la repressione di un comportamento di “relazione” fra le imprese e gli utenti finali.

Ciò porta a concludere che mentre non sussistono dubbi circa la riconducibilità della sanzione della nullità virtuale di cui all’art.1418 co.1 c.c. con riferimento ai contratti che sono espressione di un abuso di posizione dominante lo stesso non può dirsi per gli accordi collusivi atteso che ,espressamente, l’art. 2 co.3 della legge antitrust circoscrive la nullità alle sole “intese vietate”senza operare alcun riferimento agli atti consequenziali.

Alla luce di quanto detto l’opinione maggioritaria sembra perciò orientata nel senso di circoscrivere l’effetto caducatorio alle sole intese anticoncorrenziali ex art. 2 L.287/90 e non anche ai contratti stipulati a valle.

Su altro fronte, la dottrina e la giurisprudenza maggioritaria propendono per la validità dei contratti a valle conclusi in conseguenza dell’illecito anticoncorrenziale.

In particolare, la dottrina ha cercato di ricondurre la problematica all’interno della disciplina dell’annullabilità per dolo incidente di cui all’art. 1440 c.c..

In forza della richiamata disposizione,ove i raggiri non sono stati tali da determinare il consenso, il contratto rimane valido benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni differenti.

Orbene, il rimedio di cui all’art. 1440 c.c. oltre a mantenere in vita i singoli rapporti negoziali stipulati a valle consente di colpire il comportamento scorretto della impresa aderente all’intesa per mezzo dello strumento risarcitorio.

Tuttavia, anche con riferimento alla presente costruzione è stato obiettato che,nonostante la celata intesa tra le aziende, la volontà del consumatore circa l’accordo negoziale concluso a valle rimane del tutto libero e consapevole.

In realtà ad essere alterato non sarebbe il processo di formazione della volontà del cliente che stipula il contratto finale con le aziende colluse quanto quello delle condizioni generali stabilite dalla impresa e che di conseguenza incide sulla libera determinazione del consumatore.

Ancora, per dovere di completezza non può non osservarsi che una tesi del tutto minoritaria ha affermato che i contratti stipulati a seguito di una violazione della normativa antitrust possono essere oggetto di azione di rescissione secondo la previsione di cui all’art. 1448 c.c..

I fautori della detta teoria fanno quindi leva sul concetto di “giustizia contrattuale” che impone di apprestare tutela a coloro che hanno contratto con imprese che hanno alterato la concorrenza del mercato.

Nondimeno la cenata tesi non ha trovato conforto atteso che,nel caso di specie,mancherebbero gli elementi legittimanti l’azione di rescissione ovvero lo “stato di bisogno” e l’elemento dell’”approfittamento” espressamente richiesti dal legislatore.

In conclusione, appurato che la tesi della nullità del contratto stipulato in conseguenza dell’illecito anticoncorrenziale non è condivisibile sia per ragioni dogmatiche sia da un punto di vista meramente effettuale essendo, come visto, una scelta sostanzialmente dannosa ed inadeguata per il contraente finale si è osservato che il rimedio risarcitorio costituisce quello maggiormente funzionale alla tutela del terzo concorrente o consumatore.

Quanto detto sembra giustificato alla luce della funzione riparatoria-compensativa del detto rimedio capace di salvaguardare la posizione dei soggetti danneggiati dagli effetti della distorsione anticoncorrenziale e allo stesso tempo preservare l’utilità della stipulazione a valle.

La soluzione favorevole al rimedio risarcitorio,con esclusione di ogni ricaduta in termini di nullità dell’atto negoziale concluso con i terzi , ha trovato conforto anche nella giurisprudenza comunitaria dove,con una importante sentenza ( sentenza Courage del 2001) ,la Corte di Giustizia ha riconosciuto anche al consumatore che lamenti uno specifico pregiudizio conseguenza immediata e diretta delle regole concorrenziali il diritto di invocare il rimedio di cui all’art. 33 della L.287/90 .

Viene perciò sottolineata la natura plurioffensiva dell’illecito antitrust,di per se idoneo a pregiudicare sia gli interessi delle imprese sia quelli dei consumatori la cui tutela deve essere considerata una delle principali finalità della disciplina della concorrenza.

Con la richiamata sentenza prima la Corte di giustizia e ,successivamente, anche il giudice della legittimità ( Cass. Sez. Un. 2207/05) hanno chiarito che accordare tutela ai singoli senza operare alcuna distinzione tra imprese e consumatore si rivela un valido strumento al fine di scoraggiare le pratiche anticoncorrenziali che possono falsare la concorrenza atteso che il timore per eventuali azioni risarcitorie intentate dai consumatori spingerà le imprese a una maggiore attenzione nei confronti della disciplina antitrust.

Invero, riconoscere tutela al terzo contraente per mezzo dell’azione risarcitoria conferma che il sistema non può tollerare quelle soluzioni interpretative che prospettano a vario titolo l’invalidità dei contratti a valle atteso che ciò finirebbe per paralizzare gli scambi e, al contempo, arrecare al terzo contraente un danno.

Quanto detto comporterebbe una violazione, di fatto, della ratio sottesa alla legge antitrust deputata a tutelare assieme ai soggetti del mercato ( imprese e consumatori) un più generale bene giuridico rappresentato dalla competitività e stabilità delle relazioni economiche.

La prospettata soluzione risarcitoria,quindi, in un’ottica di contemperamento delle varie esigenze, concilia la necessità di ripristinare il funzionamento virtuoso del mercato con il bisogno di preservare l’interesse del singolo soggetto inciso a non vedersi privato del bene di scambio.

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