Il divieto di discriminazione nei rapporti contrattuali
Il divieto di discriminazione nei rapporti contrattuali
di Ludovica Vaccaro
Nell’attuale contesto giuridico-sociale il divieto di discriminazione rappresenta un importante principio dell’ordinamento in forza del quale sono vietate le differenziazioni tra persone basate sull’appartenenza a determinate categorie, status o su particolari convinzioni e qualità personali degli individui.
A livello sovranazionale il divieto di discriminazione è espressamente riconosciuto come principio fondamentale: sia l’art. 14 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), sia l’art. 21 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea (CDFUE) stabiliscono infatti, in termini pressoché identici, che sono vietate le discriminazioni fondate sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, la cittadinanza il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali.
Nel diritto unionale inoltre la lotta alle discriminazioni costituisce uno dei valori fondanti dell’Unione ed i principi di non discriminazione e di parità di trattamento rivestono portata applicativa trasversale, assumendo un ruolo di primo piano in materia di lavoro e di politiche sociali e rappresentando un importante strumento di promozione e sviluppo del mercato unico, in particolare per l’attuazione della libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione (art. 18 TFUE) e come regola di condotta per gli operatori economici nell’ambito del diritto della concorrenza.
Nell’ordinamento nazionale, invece, il divieto di discriminazione, pur non essendo espressamente contemplato nella Carta costituzionale, rileva come principio di ordine pubblico in quanto corollario del principio di uguaglianza; l’art. 3 Cost, com’è noto, sancisce il principio di uguaglianza ponendone in evidenza due aspetti, uno formale (primo comma), l’altro sostanziale (secondo comma). Nell’ottica del legislatore costituzionale l’uguaglianza non deve essere un mero enunciato formale, ma va assicurata in concreto attraverso la parità di trattamento ed il divieto di discriminazione.
Il principio di parità di trattamento è rivolto essenzialmente al legislatore ed impone a quest’ultimo di regolare situazioni uguali in modo eguale, onde la disparità deve essere giustificata con l’indicazione della effettiva diseguaglianza di situazioni; il divieto di discriminazione, invece, rappresenta una regola di condotta valevole erga omnes e si sostanzia nel dovere per i consociati di astenersi dal tenere comportamenti discriminatori.
Il divieto di atti e comportamenti discriminatori, quali ostacoli all’uguaglianza sostanziale tra le persone, assume particolare importanza rispetto ai rapporti contrattuali perché in quest’ambito vi è il rischio che i privati, nell’esercizio della libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost) e dell’autonomia contrattuale (art. 1322 c.c.) riconosciuta dall’ordinamento, diano luogo a condotte discriminatorie, sia nella fase di scelta del contraente sia nell’esecuzione del contratto; ciò si verifica spesso nei rapporti contrattuali caratterizzati da un disequilibrio normativo, per i quali cioè lo stesso schema tipico contrattuale attribuisce ad una delle parti una posizione di forza rispetto all’altra, come nei contratti di lavoro, nei contratti del consumatore o nei contratti commerciali, ma ben può accadere anche in relazione a rapporti contrattuali equilibrati.
Nella legislazione ordinaria è possibile rinvenire da un lato norme volte a reprimere comportamenti discriminatori in particolari ambiti contrattuali e, dall’altro, numerose leggi anti-discriminatorie che individuano regole tendenzialmente applicabili a tutti i rapporti contrattuali, contribuendo alla definizione di un diritto anti-discriminatorio contrattuale.
Con riferimento alla repressione dei comportamenti discriminatori in specifici rapporti contrattuali si osserva in primo luogo che nel sistema originario del codice civile essa era attuata mediante la previsione di un obbligo generalizzato di contrattare con chiunque a parità di trattamento, stabilito solo per quei contratti aventi ad oggetto servizi ad oggi definibili “universali”, come si desume dall’art. 2597 c.c. per i servizi prestati dal monopolista legale e dall’art. 1679 c.c. per il concessionario di pubblico servizio.
Nella legislazione speciale, invece, uno dei più importanti strumenti di contrasto alle discriminazioni si rinviene nella disciplina giuslavoristica ove, in particolare, il legislatore stabilisce l’illegittimità del licenziamento del lavoratore che sia sorretto da motivi discriminatori, stabilendone la nullità (art. legge 9 dicembre 1977, n. 903). Gli strumenti di tutela contro il licenziamento discriminatorio incidono in modo significativo sulla sfera giuridico-patrimoniale del datore di lavoro, poiché in tal caso egli è tenuto a reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro e ha l’obbligo di risarcire il danno subito dal lavoratore per il licenziamento (art. 2 d.lgs. n. 93/2015).
Un altro divieto espresso di comportamenti discriminatori è quello posto dall’art. 3 della legge n. 287/1990 che, in relazione al divieto di intese restrittive della concorrenza e di abuso di posizione dominante, indica come contrari alla leale concorrenza, tra gli altri, i comportamenti discriminatori che consistono nell’applicazione di condizioni dissimili per prestazioni equivalenti nei rapporti commerciali con gli altri contraenti.
Nella disciplina della subfornitura nelle attività produttive, infine, l’art. 9 della legge n. 192/1998 definisce la dipendenza economica come situazione in cui un’impresa è in grado di determinare nei rapporti commerciali con un’altra impresa un eccessivo squilibrio di diritti e di obblighi, precisando che l’abuso di tale situazione di superiorità può consistere nel rifiuto di vendere o comprare, nell’imposizione di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose o discriminatorie e nell’interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto.
Accanto a queste disposizioni speciali vi sono anche disposizioni che hanno una portata più ampia, caratteristica che ha spinto alcuni autori ed interpreti a domandarsi se ad oggi possa configurarsi un diritto anti-discriminatorio contrattuale. In proposito le norme di riferimento sono innanzitutto gli articoli 43 e 44 del d.lvo 286/1998 (T.U. immigrazione), con i quali il legislatore ha definito in via generale la nozione di condotta discriminatoria, che ricorre quando “chiunque imponga condizioni più svantaggiose o si rifiuti di fornire servizi o beni offerti al pubblico ad uno straniero soltanto a causa della sua condizione di straniero o di appartenente ad una determinata razza, religione etnia o nazionalità”, ed ha predisposto specifiche forme di tutela giurisdizionale individuale e collettiva contro le discriminazioni per motivi razziali, religiosi, etnici o linguistici, prevedendo l’accesso alla tutela inibitoria, nonché alla rimozione degli effetti della discriminazione.
Grande rilievo assume, in secondo luogo, il decreto legislativo 9 luglio 2003 n. 215, con il quale è stata data attuazione alla direttiva 2000/43/CE; tale normativa disciplina il principio di non discriminazione per la razza e l’origine etnica, in parte ricollegandolo al diverso principio di parità di trattamento; l’art. 2 infatti precisa che “per principio di parità di trattamento si intende l’assenza di qualsiasi discriminazione diretta o indiretta a causa della razza o dell’origine etnica” ed esso comporta che siano vietate sia forme di discriminazione diretta, cioè gli atti o comportamenti che si risolvono nel trattamento meno favorevole per motivi di razza o origine etnica, convinzioni personali, religiose, handicap, età o orientamento sessuale di una persona rispetto ad un’altra in una situazione analoga, sia forme di discriminazione indiretta, che ricorrono invece quando una disposizione, una prassi, un atto o comportamento apparentemente neutri determinino di fatto per gli stessi motivi una situazione di particolare svantaggio rispetto ad altre persone.
Completano, infine, il quadro delle leggi anti-discriminatorie la legge 1 marzo 2006, n. 67 relativa alle discriminazioni basate sulla disabilità e la direttiva del Consiglio 2004/113/CE che disciplina il principio di non discriminazione in base al sesso.
Dal quadro normativo ora brevemente richiamato parte della dottrina ha desunto che il legislatore abbia voluto estendere il divieto di discriminazione oltre gli ambiti contrattuali per i quali il principio opera espressamente, elevandolo a regola di condotta valevole per tutti i tipi di contratto.
Sebbene questa lettura abbia il pregio di esaltare il ruolo che riveste il principio di non discriminazione nell’ordinamento, in linea con quanto emerge dal diritto costituzionale, unionale e convenzionale, occorre pur sempre tenere in debito conto, e anche in un’ottica di bilanciamento, i valori ed i principi rispetto ai quali incide il divieto di discriminazione.
L’autonomia contrattuale che l’art. 1322 c.c. riconosce alle parti verrebbe infatti privata di ogni valenza qualora in ragione dell’esigenza di reprimere le condotte contrattuali discriminatorie si precludesse ai privati la libertà di scegliere a proprio gradimento la propria controparte contrattuale o si imponesse loro un obbligo generale di trattare tutti allo stesso modo.
In vero, non si potrebbe neppure parlare di un vero e proprio contratto nel senso dell’art. 1321 c.c. se una delle parti fosse obbligata a stipulare un contratto con una controparte che non vuole, poiché mancherebbe uno degli elementi essenziali prescritti dall’art. 1325 c.c., vale a dire l’accordo tra le parti. A ciò si aggiunge anche la considerazione che il codice civile contempla contratti, come l’appalto o il mandato, basati sulla fiducia personale (intuitu personae), per i quali cioè le qualità personali e professionali delle controparti rilevano come elemento essenziale della prestazione e la rendono infungibile a tal punto da rendere i contratti intrasmissibili e determinare l’estinzione del contratto in caso di morte di una delle parti (articoli 1674, 1722 n. 4 c.c.).
Imporre poi un vero e proprio obbligo di trattamento paritario nei rapporti contrattuali precluderebbe alle parti di determinare liberamente il contenuto del contratto, vietando quelle distinzioni sorrette da valutazioni positive sulla controparte che vanno a vantaggio di quest’ultima, come per esempio nel caso della stipula di un contratto di vendita o di locazione ad un prezzo “di favore” in ragione del fatto che l’acquirente o conduttore è un parente o un amico dell’alienante o del locatore.
Chiarito quindi che il divieto di discriminazioni non può spingersi sino ad annullare la libertà di scelta della controparte contrattuale e l’autonomia delle parti nel definire il contenuto del contratto, occorre precisare la portata applicativa delle norme che sanciscono il divieto di comportamenti discriminatori nell’ambito dei rapporti contrattuali.
Come si desume dalla lettera dell’art. 43 del d.lvo n. 286/98, il divieto di discriminazione opera in tutti i casi in cui il contraente si rivolga indistintamente al pubblico o ad una cerchia indeterminata di persone, attraverso una dichiarazione che può consistere in una manifestazione di interesse, in un’offerta al pubblico (ex art. 1336 c.c.) o in un’offerta.
In tali ipotesi, infatti, la dichiarazione si contraddistingue per essere aperta ad ogni tipologia di contraente e per far nascere in capo a chiunque abbia intenzione di accettare la proposta il legittimo affidamento sulla conclusione del contratto; il carattere inclusivo dell’offerta al pubblico, anche quando essa sia manifestata mediante invito, rende illegittimo qualsiasi comportamento volto a discriminare la platea dei destinatari dell’offerta che non sia sorretto da ragionevoli motivi.
Ciò emerge, in vero, anche dall’art. 1336 c.c. il quale, contrariamente a quanto ritenuto in passato dalla dottrina, degrada l’offerta da proposta contrattuale a mero invito solo quando ciò sia previsto dalle circostanze o dagli usi e non quindi dal mero gradimento del dichiarante. Con l’importante conseguenza, desumibile dal secondo comma dell’art. 1336 c.c., che il pubblico offerente può sottrarsi alla conclusione del contratto solo con la revoca della proposta nei modi e nelle forme previste dalla legge, esponendosi peraltro a responsabilità precontrattuale ai sensi dell’art. 1337 c.c., se la sua revoca è priva di giusta causa e si risolve in un ingiustificato rifiuto di iniziare o proseguire le trattative.
Costituiscono, invece, una certa violazione del divieto di discriminazione l’espressa previsione di una riserva di un successivo gradimento dell’offerente nella dichiarazione rivolta al pubblico o l’inserimento di clausole che abbiano l’effetto immediato di escludere dal novero dei destinatari le persone che presentino qualità rilevanti ai sensi delle leggi antidiscriminatorie. Quest’ultime in particolare si rinvengono di frequente nella prassi dei contratti di locazione di immobili urbani e consistono il più delle volte in un vero e proprio rifiuto di contrattare con determinati soggetti a causa della loro nazionalità, etnia, religione, (“no cinesi”, “no musulmani” e simili) ma possono talvolta essere formulate in modo tale da operare una discriminazione al contrario, o “reverse discrimination”, limitando la cerchia dei destinatari dell’offerta ai soli appartenenti ad una determinata categoria o coloro che posseggono determinate qualità tutelate dalle leggi antidiscriminatorie (come la clausola “solo donne” o, quella “solo gay”, di recente apparsa in alcuni annunci lavorativi).
Da queste tipologie di clausole, illegittime in quanto discriminatorie, occorre distinguere quelle clausole con le quali l’offerente al pubblico pone un criterio di selezione che, pur operando una differenziazione tra i destinatari della proposta, non risulta discriminatorio nel senso dell’art. 43 del T.U. immigrazione; si tratta delle clausole che specificano le condizioni alle quali sarà condotta la successiva fase delle trattative, come la clausola “solo referenziati”, ma anche quella che prevede “trattative riservate”, spesso utilizzata per la determinazione del contenuto dell’accordo e, in particolare, il corrispettivo richiesto.
L’inserimento di tali clausole non rende di per sé la dichiarazione discriminatoria e, quindi, vietata, poiché è incerto quale sarà la qualità personale che potrà rivelarsi determinante per la conclusione dell’affare; ciò tuttavia non esclude che in concreto in una fase successiva alla proposta possa verificarsi un comportamento discriminatorio, come nel caso in cui l’offerente si rifiuti di concludere il contratto con una persona extracomunitaria.
Nella fase delle trattative, dunque, a differenza di quella della dichiarazione della proposta, i comportamenti discriminatori sono più difficili da accertare poiché per essere tali devono sottendere l’intento del contraente di addivenire al rifiuto di contrattare secondo la condizioni predisposte per la generalità dei contraenti.
Le leggi antidiscriminatorio pongono un divieto di discriminazione non solo nella fase di conclusione e determinazione del contenuto del contratto, ma anche nella fase di esecuzione dello stesso; l’art. 43 del T.U. immigrazione nel vietare i comportamenti discriminatori fa riferimento all’effettivo godimento del bene o del servizio offerto ed estende così il principio di non discriminazione anche alla disciplina dell’inadempimento; nelle obbligazioni generiche (art. 1178 c.c.) il contraente che esegue la prestazione in maniera meno diligente rispetto alla media o presta cose di qualità inferiore alla media delle prestazioni di quel tipo o delle cose di quel genere è inadempiente. Da ciò può prospettarsi in astratto una discriminazione vietata nella scelta delle modalità di adempimento della prestazione quando il debitore, che normalmente presta cose o esegue prestazioni di qualità superiore alla media, scelga di prestare cose o servizi di qualità media a determinati soggetti soltanto in ragione di una qualità personale rilevante ai sensi delle leggi antidiscriminatorie.