La differenza tra oneri reali ed obbligazioni propter rem con riferimento agli obblighi nascenti dai regolamenti condominiali

La disamina della differenza tra oneri reali ed obbligazioni propter rem con specifico riferimento agli obblighi nascenti dai regolamenti condominiali si presenta complessa e delicata. Pertanto, ai fini di una maggior comprensione, è necessaria una preliminare digressione su oneri reali ed obbligazioni propter rem, sul condominio negli edifici nonché sul regime dei regolamenti condominiali, per poi concentrarsi sul loro modo di interagire ed interferire.

L’abbrivio della trattazione in oggetto non può che individuarsi negli istituti degli oneri reali e delle obbligazioni propter rem, dei quali, in realtà, difetta una definizione legislativa, la quale, di conseguenza, è stata rimessa all’attenta elaborazione dottrinale e pretoria.

In prima battuta, è opportuno evidenziare i tratti in comune tra i due istituti, concentrandosi successivamente sui profili differenziali.

Infatti, entrambi si caratterizzano per la realità, in quanto presuppongono una relazione con una res oppure il suo utilizzo. Di conseguenza, essi sono soggetti ai principi del “numerus clausus” e della tipicità affermati con riguardo ai diritti reali. Più nello specifico, il primo principio si pone in relazione alla fonte dei diritti reali, da individuarsi solo ed esclusivamente nella legge. Il secondo, invece, attiene al contenuto, il quale deve essere, a sua volta, previsto ed individuato dalla legge. Pertanto, l’autonomia convenzionale non è legittimata né a creare nuovi tipi di diritti reali né a prevedere per i medesimi un contenuto diverso da quello previsto ex lege.

Se questo è quanto, allora, gli oneri reali e le obbligazioni propter rem si sottraggono all’autonomia privata, che non può né crearne di nuovi né modificarne il contenuto stabilito ex lege.

Ciò posto, è ora doveroso concentrarsi sulla differenza tra le due figure in oggetto, dalla quale derivano conseguenze applicative di non poco momento.

Le obbligazioni propter rem, infatti, si atteggiano come obblighi gravanti su uno specifico soggetto che entra in relazione con una res, il quale è tenuto a sopportarli a causa del proprio status di proprietario del bene medesimo. Con maggior chiarezza, deve affermarsi che, in tale modello di obbligazione, il riferimento al bene ha come scopo proprio l’individuazione del soggetto debitore, il quale, dunque, sarà soggetto a tutte le disposizioni codicistiche in tema di obbligazioni.

In particolare, in ipotesi di inadempimento o di ritardo nell’esecuzione della prestazione oggetto dell’obbligazione, egli sarà tenuto a risarcire il danno cagionato, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è dovuto a causa ad egli non imputabile (art. 1218 c.c.). Altresì, egli è soggetto alla c.d. “garanzia patrimoniale generica”: ai sensi dell’art. 2740 c.c., infatti, il debitore risponde dell’adempimento delle obbligazioni contratte con tutti i suoi beni, presenti e futuri.

Ma vi è di più: le obbligazioni in oggetto, proprio a causa del loro collegamento con il bene, vengono definite “ambulatorie”, perché vengono trasferite con il trasferimento del bene su cui insistono. E pur tuttavia, poiché obbligato è il soggetto proprietario, in caso di trasferimento del bene, l’alienante resta comunque obbligato per le obbligazioni sorte antecedentemente all’atto di alienazione, in quanto era ancora egli proprietario del bene. Viceversa, delle obbligazioni sorte successivamente al trasferimento ne risponderà il compratore, divenuto nuovo proprietario.

Ancora, poiché si è in presenza di una vera e propria obbligazione, essa può avere il più disparato contenuto: “facere”, “non facere”, “dare”.

Infine, ai fini di una maggior comprensione, può rivelarsi utile citare un’ipotesi esemplificativa di obbligazione propter rem. Ebbene, essa può individuarsi nelle spese condominiali che ogni condomino, ai sensi dell’art. 1123 c.c., deve sostenere se necessarie per la conservazione e per il godimento della parti comuni, per la prestazione dei servizi nell’interesse comune e per le innovazioni. Altresì, esse sono sostenute dai condomini “in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno”.

Pertanto, il condomino è tenuto a sostenere le predette spese proprio in quanto proprietario della singola unità abitativa. Di conseguenza, non soltanto egli è soggetto ai principi di cui agli artt. 1218 e 2740 c.c., ma, in ipotesi di alienazione della sua proprietà, continuerà a rispondere degli obblighi contratti in precedenza.

Ciò posto, del tutto differenti appaiono struttura e disciplina degli oneri reali.

L’onere reale, infatti, è una prestazione periodica che grava più sul bene che sulla persona, in ragione dell’utilizzo della res medesima.

Dunque, mentre nell’obbligazione propter rem, come già detto, il riferimento al bene rileva esclusivamente ai fini dell’individuazione del debitore, all’opposto, negli oneri reali, il vincolo grava direttamente sul bene e il soggetto che lo adopera si ritrova obbligato per il suo semplice utilizzo. Ma allora, se il vincolo grava sul bene, non troveranno applicazione le norme in materia di obbligazioni (artt. 1218 e 2740 c.c.), che si riferiscono al “soggetto” obbligato. E, soprattutto, proprio perché l’obbligo grava sulla res, in ipotesi di alienazione, sarà il nuovo proprietario a rispondere anche degli oneri pregressi, atteso il vincolo impresso sul bene.

Ed ancora, molto più ristretto è il contenuto dell’onere, che, poiché consiste in una prestazione periodica, non può che avere per oggetto un obbligo di “dare”.

Da ultimo, un esempio di onere reale può individuarsi, oltre che nelle rendite papali ormai abolite, nel canone enfiteutico, consistente, ai sensi dell’art. 960 c.c., in un canone “periodico”, che l’enfiteuta deve pagare a fronte dell’utilizzo del fondo.

Ebbene, è proprio alla luce della differenza sopra analizzata che andrà condotta l’indagine rivolta ad individuare la corretta natura degli obblighi nascenti dai regolamenti condominiali.

E pur tuttavia, come già precisato, prima di addentrarsi nei meandri della specifica questione, è indispensabile un breve inquadramento del condominio nonché dei regolamenti condominiali.

Il condominio, disciplinato dagli artt. 1117 e ss. c.c., è un tipico esempio di comunione forzosa ex lege. Infatti, nel condominio, convivono diritti di proprietà esclusiva sulle singole unità immobiliari e diritti di comproprietà sulle parti destinate stabilmente a servire l’intero edificio, indicate dall’art. 1117 c.c.

Pertanto, nel condominio, il singolo diritto di proprietà trova un limite nel diritto di proprietà altrui, che non potrà mai essere compresso o travalicato.

Or dunque, nel condominio, ogni partecipante può trarre la maggior utilità possibile dal godimento delle parti comuni, a condizione, però, di non impedire agli altri condomini di trarne il medesimo giovamento.

In tale ottica, il condominio appare del tutto coerente con la struttura e la funzione della proprietà affermate dal diritto positivo e dalla Carta Costituzionale.

Sotto il primo aspetto, l’art. 832 c.c. definisce la proprietà come il diritto di godere e di disporre della res “in modo pieno ed esclusivo”, però sempre “entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”.

Sotto il secondo aspetto, l’art. 42 Cost. riconosce e garantisce la proprietà privata, purché, però, essa realizzi una “funzione sociale”.

In forza di ciò, in materia di condominio, è indispensabile garantire la massima realizzazione dei singoli diritti proprietari, realizzando, però, nel contempo, un rapporto di comunione pacifico, ordinato ed equilibrato.

A tal proposito, la legge detta un’articolata disciplina al fine di regolamentare i diritti dei partecipanti sulle parti comuni (art. 1118 c.c.); la ripartizione delle spese (il già menzionato art. 1123 c.c.); gli obblighi ed i poteri dell’amministratore (artt. 1129 e 1130 c.c.); la rappresentanza in giudizio (art. 1131 c.c.); i poteri dell’assemblea (art. 1135 c.c.) ed il regime dell’impugnazione delle delibere assembleari (art. 1137 c.c.).

Ancora, in tempi recenti, la giurisprudenza ha reso applicabile anche al condominio il principio dell’abuso del diritto, sanzionando con la nullità o con l’inefficacia la delibera adottata con il solo scopo di arrecare nocumento agli altri condomini oppure di rendere loro più difficoltoso l’esercizio dei propri diritti.

Da ultimo, una breve menzione merita l’annosa disputa circa la natura giuridica del condominio medesimo.

Mentre la tesi dominante nega che il condominio goda di personalità giuridica, potendo, al massimo, atteggiarsi come “ente di gestione”, in tempi recenti è emerso un diverso orientamento che afferma che il condominio possiede una seppur attenuata personalità giuridica. Vengono richiamate, a sostegno della predetta tesi, le modifiche introdotte dalla L. 220/12 che ha previsto il codice fiscale del condominio nonché l’obbligo, per l’amministratore, di far transitare le somme ricevute dai condomini su uno specifico conto corrente intestato al condominio; altresì, adesso costituisce “grave irregolarità”, tale da giustificare la revoca dell’amministratore, la gestione secondo modalità da comportare confusione tra il patrimonio del condominio e quello dei singoli condomini.

E pur tuttavia, le Sezioni Unite, con una recentissima pronuncia, hanno confermato la tesi che qualifica il condominio come ente di gestione, ritenendo assenti indici univoci dai quali possa desumersi la volontà del legislatore di riconoscere al condominio personalità giuridica. Di conseguenza, la titolarità sulle parti in comune dell’edificio spetta sempre e solo ai condomini e giammai al condominio e, pertanto, i condomini possono sempre intervenire in un giudizio sulle parti in comune dell’edificio, anche se è già parte l’amministratore.

Ciò posto, dopo la disamina delle obbligazioni propter rem e degli oneri reali, nonché dopo l’analisi della normativa sul condominio negli edifici, è ora doveroso discorrere dei regolamenti condominiali.

Ebbene, i regolamenti condominiali sono un utile strumento per garantire una convivenza pacifica all’interno del condominio.

Più nel dettaglio, l’art. 1138 c.c. prevede l’obbligo di adozione del regolamento quando il numero dei condomini sia superiore a dieci, ferma restando la facoltà di adozione del medesimo anche quando il numero dei condomini è inferiore. Altresì, per espressa disposizione del comma 1° dell’articolo in commento, il regolamento deve contenere le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione.

Ancora, ciascun condomino può prendere l’iniziativa per la formazione del regolamento (comma 2°), il quale deve essere approvato con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti ed almeno la metà del valore dell’edificio (comma 3°). Ma, soprattutto, il regolamento non può “in alcun modo” menomare i diritti di ciascun condomino (comma 4°) né vietare di possedere animali domestici (comma 5°).

Ebbene, il regolamento appena menzionato può definirsi “interno”, oppure “assembleare” od ancora “condominiale in senso stretto”, viene adottato a maggioranza e contiene una semplice “regolamentazione” dei rapporti interni tra condomini, non potendo mai prevedere restrizioni dei diritti dei condomini medesimi oppure obblighi non previsti ex lege.

E pur tuttavia, ai condomini non è preclusa la facoltà di dar vita ad un regolamento adottato all’unanimità, il quale, proprio perché viene formato con il consenso di tutti i partecipanti, viene denominato “contrattuale”.

Ebbene, nonostante la normativa sul condominio non contempli espressamente la facoltà dei condomini di stipulare un regolamento contrattuale, nondimeno tale facoltà è ricavabile dalla generale autonomia contrattuale ex art. 1322 comma 2° c.c., che riconosce alle parti il potere di stipulare contratti atipici, purché perseguano interessi meritevoli di tutela.

Pertanto, a differenza della materia dei diritti reali, caratterizzata, come già visto, dal principio di tipicità, in materia contrattuale ai privati è riconosciuta un’ampia autonomia, che può spingersi sino alla stipulazione di contratti privi di un tipo legale.

Se così è, allora, i condomini potrebbero, all’unanimità, stipulare un regolamento contrattuale, il quale, a differenza del regolamento adottato a maggioranza, può anche prevedere clausole limitative od ampliative dei diritti dei condomini (in deroga all’art. 1138 commi 4° e 5° c.c.), purché rivolto alla realizzazione di interessi meritevoli di tutela.

Infatti, la circostanza che il regolamento sia stato adottato con il consenso di tutti i condomini esprime un giudizio unanime circa la convenienza delle pattuizioni adottate, anche per i soggetti che ne sono incisi, che le hanno accettate consapevolmente.

Alla luce di ciò, deve affermarsi che un regolamento condominiale “tout court” non può mai prevedere obblighi aggiuntivi rispetto a quelli nascenti dalla legge, pena l’impugnazione del regolamento (ai sensi dell’art. 1107 c.c).

Di contro, gli obblighi nascenti da un regolamento contrattale sono validi, atteso il consenso di tutti i comproprietari. Altresì, un regolamento di tal tipo potrebbe essere stato formato anche dall’originario proprietario dell’edificio, con la conseguenza che, a seguito della destinazione dell’edificio a condominio, tutti i condomini, previo consenso unanime, si ritroveranno vincolati al suo rispetto.

Ciò posto, è ora finalmente possibile concentrarsi sulla natura dei predetti obblighi nascenti da un regolamento condominiale, sub specie di regolamento contrattuale: basti pensare alle clausole che vietano di locare il proprio appartamento, oppure di destinarlo a B&B oppure a studi medici o commerciali.

Ebbene, è doveroso interrogarsi sulla possibilità di qualificare i predetti obblighi come oneri reali o obbligazioni propter rem, con assoggettabilità alla relativa disciplina.

Un primo orientamento offre già in radice una risposta negativa, ricordando come in materia siano vigenti i principi di tipicità e del “numerus clausus”, che precludono la creazione convenzionale di oneri reali ed obbligazioni propter rem.

All’opposto, un’altra tesi ritiene di poter superare l’ostacolo con un’interpretazione “teleologica”. Viene ricordato come la ratio dei principi di tipicità e del “numerus clausus” sia da individuarsi nella tutela della proprietà, che non può subire limiti al di fuori delle ipotesi consentite ex lege. Ma allora, la creazione convenzionale di oneri reali ed obbligazioni propter rem dovrebbe ritenersi ammissibile laddove sia rivolta ad un interesse superiore rispetto al singolo diritto di proprietà, per esempio consentire un maggior funzionamento dell’intero condominio.

E pur tuttavia, tra coloro che sostengono quanto appena esposto vi è contrasto sulla riconducibilità degli obblighi in parola agli oneri reali oppure alle obbligazioni propter rem.

Una prima tesi ritiene pertinente il rinvio alle obbligazioni propter rem, sottolineando come non venga in rilievo una prestazione periodica di “dare” come nell’onere reale, bensì un “non facere” oppure un “pati”, ossia un obbligo di non destinare l’unità abitativa all’uso vietato. Ebbene, poiché le obbligazioni propter rem, come già visto, possono consistere anche in un “pati”, allora nulla osta alla qualificazione degli oneri nascenti dal regolamento condominiale/contrattuale come obbligazione propter rem, anche in virtù del suo gravare sul soggetto obbligato. Di conseguenza, il condomino che viola il suo obbligo sarà considerato inadempiente ex artt. 1218 e 2740 c.c.

Ebbene, la suesposta ricostruzione è pesantemente avversata da un secondo filone ermeneutico, che ricostruisce gli oneri in parola come oneri reali.

Viene ribadito che, come già visto, il regolamento contrattuale potrebbe essere stato predisposto anche dall’originario proprietario dell’edificio poi destinato a condominio. Ma se i successivi condomini si trovano vincolati alla sua osservanza, allora gli obblighi contenuti nel regolamento non gravano su un soggetto debitore ma direttamente sulla res, proprio come avviene negli oneri reali. Pertanto, non troveranno applicazione gli artt. 1218 e 2740 c.c.

Ed ancora, deve darsi atto dell’esistenza di una terza tesi, che non ritiene accettabile nessuna delle due soluzioni sopra esaminate.  Infatti, si sostiene che gli obblighi nascenti dal regolamento contrattuale non possano qualificarsi né come un’obbligazione propter rem (perché gravano direttamente sul bene e non sulla persona) né come un onere reale (perché consistono in un “pati” e non in un “dare” periodico).

Altresì, sono di ostacolo alle descritte ricostruzioni anche i principi del “numerus clausus” e di tipicità, di certo non superabili tramite un’arbitraria interpretazione. Pertanto, secondo la tesi in oggetto, gli obblighi nascenti dai regolamenti condominiali/contrattuali sono riconducibili più correttamente alle servitù prediali, possedendone tutte le caratteristiche.

Ai sensi dell’art. 1027 c.c., la servitù è un diritto reale di godimento consistente nel peso imposto su un fondo (fondo servente) per l’utilità di un altro fondo (fondo dominante) appartenente a diverso proprietario. Pertanto, nella servitù il peso grava sul fondo a vantaggio dell’altro fondo. Altresì, la servitù può consistere solamente in un “pati” o in un “non facere” e mai in un “facere” o in un “dare”.

Ebbene, se, come detto, l’obbligo nascente dal regolamento imprime un vincolo sull’immobile sul quale insiste il condominio e, tale obbligo consiste, per i condomini, in una limitazione reciproca e, dunque, in un “pati”, allora si è in presenza proprio di una servitù. Pertanto, non troverà applicazione né la disciplina prevista per le obbligazioni propter rem né quella in materia di oneri reali, bensì quella prevista per le servitù.

Così opinando, si impedisce una disapplicazione arbitraria dei principi di tipicità e del “numerus clausus” dei diritti reali, atteso che, in forza dell’art. 1058 c.c., la servitù può costituirsi anche per contratto.

Ma vi è di più: la qualificazione di tali obblighi come servitù consentirebbe la trascrizione delle clausole che li prevedono ai fini dell’opponibilità ai terzi.

E’ bene ricordare che, nel nostro ordinamento, vige il principio di tassatività degli atti soggetti a trascrizione, con l’impossibilità di assoggettare a tale onere gli atti non menzionati dagli artt. 2643 c.c. Di conseguenza, poiché né oneri reali né obbligazioni propter rem sono richiamati dai citati articoli, non sarebbero mai opponibili ai terzi acquirenti dei condomini.

All’opposto, gli atti che costituiscono servitù sono trascrivibili ex art. 2643 c.c. numero 4) c.c., con la conseguenza che la trascrizione rende le clausole contrattuali contenenti i predetti obblighi opponibili ai terzi acquirenti dei condomini, i quali si troveranno anche essi vincolati. Oppure, anche in mancanza di trascrizione, l’acquirente sarà vincolato laddove il regolamento sia richiamato dall’atto di acquisto e, dunque, è stato posto alla sua attenzione. Invece, in mancanza di trascrizione o di richiamo nell’atto di acquisto, l’obbligo nascente dal regolamento non sarà opponibile all’acquirente.

In conclusione, l’esatta qualificazione degli obblighi in oggetto appare ancora oggi controversa. Qualunque soluzione si accolga, è indispensabile una ricostruzione che non snaturi gli istituti coinvolti e che non si ponga in un rapporto distonico con i principi dell’ordinamento.

                                                                                         G M

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