L’intervento dei fattori causali naturali nell’ambito della causalità da errore medico

L’intervento dei fattori causali naturali nell’ambito della causalità da errore medico”.Maria Breglia

Terreno fertile per l’indagine circa i requisiti e i presupposti della responsabilità civile è da sempre quello relativo alla attività medica.

Più in particolare, la responsabilità civile del sanitario ricorre in tutti i casi in cui, per l’inosservanza colposa delle specifiche regole cautelari cui la sua condotta deve essere improntata per incarnare l’agente modello qualificato, ovvero a causa di un comportamento doloso, si sia verificata, quale diretta ed immediata conseguenza eziologicamente connessa, la causazione di un nocumento ad un bene giuridicamente protetto dall’ordinamento, e nella specie l’integrità fisica o la vita, di un paziente.

Da ciò consegue che il sanitario, in presenza di tutti i requisiti previsti dalla legge, è chiamato a risarcire il danno effettivamente causato al danneggiato, per quanto sancito dall’art. 1218 c.c. ovvero dall’art. 2043 c.c. E cioè a titolo di responsabilità da inadempimento o da fatto illecito atipico, a seconda che tra il medico e il paziente sia intercorso un precedente e specifico rapporto contrattuale, in esecuzione del quale il primo sia chiamato a svolgere la prestazione nei confronti del secondo.

Più nel dettaglio, dunque, si ha responsabilità contrattuale del medico quando, come anticipato, egli abbia stipulato con il paziente uno specifico contratto, il quale rappresenta, appunto, la fonte degli obblighi di prestazione professionale. Mentre, al contrario, si verserà nell’ipotesi della responsabilità aquiliana allorché, l’attività professionale di questi sia esercitata in assenza di un contratto con il paziente, come ad esempio accade quando le prestazioni vengano rese in situazioni di emergenza, ovvero nell’ipotesi in cui il medico presti la sua attività a favore di soggetti ricoverati presso una struttura sanitaria, e dunque aventi un rapporto contrattuale solo con quest’ultima (con la quale, a sua volta, anche il medico intrattiene un rapporto contrattuale, di dipendenza ovvero di mera collaborazione).

Invero, in merito alla qualificazione della responsabilità del medico in assenza di contratto con il paziente come extracontrattuale si è assai discusso negli anni in seno alla giurisprudenza e alla dottrina, e solo con la recente entrata in vigore della l. 24 del 2017, c.d. legge Gelli-Bianco, pare che tale dibattito possa dirsi sopito.

Più nel dettaglio, seppure assai brevemente, sebbene inizialmente la giurisprudenza non nutriva assai dubbi circa la qualificazione come extracontrattuale della responsabilità del medico in assenza di contratto, ben presto iniziò a prendere piede quell’orientamento, di matrice tedesca, a mente del quale il “contatto sociale” che si instaurerebbe sta medico e paziente, qualificato dall’affidamento che il secondo ripone nelle competenza del primo, farebbe per tal fatto sorgere un obbligo di protezione, pur in assenza di una prestazione principale (e cioè discendete da contratto o da uno degli altri modi di cui all’art. 1173 c.c.), in capo al medico. I fautori di tale esegesi, cioè, hanno ritenuto che, in ragione della qualità professionale del sanitario da un lato, e della rilevanza costituzionale del bene oggetto della prestazione medica dall’altro, in capo al medico sorgerebbe in virtù di un siffatto contatto, tra soggetti determinati dunque, un obbligo di protezione verso il paziente, il cui contenuto si sostanzierebbe nell’utilizzo dell’adeguata diligenza nel compiere la propria attività professionale, tale quindi da evitare il sorgere di pregiudizi in capo al paziente venuto in contatto. Tale obbligo di protezione nato dal contatto sociale, che come detto si sostanzia nell’eseguire diligentemente la prestazione medica (che invece non è oggetto di contratto tra medico e paziente) sarebbe da ritenersi validamente sorto secondo il dettato dell’art. 1173 c.c. che, come noto, oltre al contratto e al fatto illecito, qualifica come fonti di obbligazione anche “ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”. Con la logica conseguenza che, pur in assenza di un vincolo contrattuale, il soggetto gravato da tali obblighi di protezione dovrebbe essere chiamato a rispondere dei danni cagionati a causa dell’esecuzione inesatta, non diligente o prudente, della prestazione sanitaria secondo la disciplina della responsabilità da inadempimento di cui all’art. 1218 c.c., e non anche ai sensi dell’art. 2043 c.c.

Tali gli approdi della giurisprudenza maggioritaria anche sotto il vigore della L. Balduzzi, nonostante all’art. 3 il chiaro tenore letterale della norma faceva militare nel senso della applicabilità della regola aquiliana posto che, a mente di tale previsione, “l’esercente la professione sanitaria che nello svolgimento della propria attività si attiene alle linee guida e buone pratiche mediche accreditate dalla comunità scientifica non risponde penalmente per colpa lieve. In tali casi resta comunque fermo l’obbligo di cui all’art. 2043 c.c.”. Ed infatti, l’orientamento prevalente, riteneva doversi interpretare la norma citata nel senso che le ipotesi di colpa lieve, esentate da ogni addebito penale, non potevano al contempo ritenersi fuori dall’ambito di applicazione della responsabilità civile intesa in senso lato, senza dunque che il riferimento all’art. 2043 c.c. dovesse necessariamente far propendere per l’applicazione della regola aquiliana.

Con la legge Gelli-Bianco il legislatore è nel 2017, come accennato, intervenuto nuovamente sul tema, e con il deliberato intento di scongiurare definitivamente il fenomeno della c.d. medicina difensiva, ha risolutivamente sancito il carattere aquiliano della attribuzione di responsabilità del medico in assenza di contratto. E ciò, per certi aspetti, quasi in un’ottica para-sanzionatoria,; è ne è sintomo il fatto che si è assegnato alle buone pratiche mediche accreditate dalla comunità scientifica e alle linee guida, pure in precedenza richiamate dal legislatore del 2012, un ruolo innovativo, non più solo di circoscrizione oggettiva dell’area del rischio consentito, ma bensì di indice da adoperarsi nella quantificazione del danno risarcibile. Pertanto, pur non volendosi con ciò in nessun modo sostenere che la funzione recuperatoria e compensativa della responsabilità civile abbia definitivamente ceduto il passo ad un’ottica punitiva, incline alle istanze penalistiche, non può di converso sottacersi che la commisurazione del quantum del danno risarcibile, non solo in base alla entità delle conseguenza subite dal danneggiato, ma bensì anche in base alla condotta del danneggiate, e cioè al grado di discostamento dalle linee guida e dalle buone pratiche mediche, lasci militare in una prospettiva forse un po’ meno esclusivamente riparatoria. E pertanto, proprio al fine di superare tale impasse, deve presumibilmente ritenersi che il legislatore abbia al più, con l’introduzione di tale criterio “anomalo” di quantificazione del danno, voluto controbilanciare la regola imposta per l’esperimento dell’azione di responsabilità aquiliana che richiede sia il danneggiato a fornire la prova di tutti gli elementi costituenti l’illecito.

Pertanto, come precisato, non deve in nessun modo pensarsi di poter con ciò svilire la funzione cui la responsabilità civile è demandata, tanto nell’accezione di cui all’art. 1218 c.c. che in quella di cui all’art. 2043 c.c.; che, come noto, essendo incentrata nella prospettiva del danneggiato, mira a ricostituire lo status quo ante alla verificazione dell’illecito, obbligando il danneggiante a risarcire le conseguenze effettivamente ed immediatamente patite; a differenza quindi di quanto avviene in ambito penalistico ove è innegabile la funzione afflittiva dell’illecito oltre che rieducativa della sanzione, nell’ottica, dunque, del danneggiato.

Il discrimen tra le due forme di responsabilità civile, da inadempimento ex art. 1218 c.c. e aquiliana ex art. 2043c.c., comporta delle sostanziali differenze, oltre che per il più breve termine di prescrizione cui la seconda è soggetta, come innanzi si è avuto modo di accennare, in merito alla ripartizione dell’onere della prova per l’esperimento della relativa azione giudiziale.

In particolare, ove la responsabilità medica sia inquadrata nell’ambito contrattuale, il riparto dell’onere della prova segue i criteri fissati in tale settore dall’ormai costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità maturato sul punto. Per cui, il paziente danneggiato potrà limitarsi a provare il contratto e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di una nuova affezione, e quindi il danno, oltre ad allegare l’inadempimento del medico, astrattamente idoneo a provocare il nocumento lamentato, e dunque sua causa efficiente. Di contro, il sanitario sarà onerato, ove intenda andare esente da responsabilità, di offrire la prova  che detto inadempimento non abbia avuto luogo, ovvero che pur essendosi verificato, esso non sia stato eziologicamente rilevante ai fini della causazione del danno. E tanto poiché il risultato anomalo o anormale rispetto a quanto concordato con il paziente sia dipeso da un fatto a sé non imputabile, non ascrivibile alla sua condotta che invece è stata ossequiante alla diligenza specificamente dovuta in relazione alla circostanze del caso concreto, ma bensì ad un imprevedibile e non superabile, neppure con l’adeguata diligenza, scostamento da una legge di regolarità causale.

Sul versante della responsabilità qualificabile come aquiliana, invece, la prova del nesso causale tra condotta ed evento, oltre che del danno, e del necessario grado di partecipazione psichica, richiesto indifferentemente dall’art. 2043 c.c. nella forma del dolo o della colpa in aderenza alla funzione non sanzionatoria della responsabilità civile, deve essere fornita dal danneggiante; posto che è solo l’inadempimento in quanto tale che si presume di per sé fatto contra ius (per il quale è sostanzialmente irrilevante il requisito psicologico che, a ben vedere, non è richiesto neppure ove invece si adempia all’obbligazione validamente sorta come emerge dall’art. 1191 c.c.).

Individuati brevemente i tratti che sorreggono la ripartizione dell’onere probatorio, nell’ambito della responsabilità medica ruolo principe viene attribuito all’indagine del nesso causale, la cui prova, come precisato, a seconda che si versi in ambito contrattuale o aquiliano, dovrà essere fornita rispettivamente dal danneggiante, nell’ambito della prova c.d. liberatoria, o dal danneggiato.

Ed infatti, il nesso causale oltre ad essere elemento costitutivo della responsabilità aquilana, sorregge anche la rilevanza dell’inadempimento ai fini della attribuzione dell’obbligo risarcitorio ai sensi dell’art. 1218 c.c.

Pertanto, in entrambe le ipotesi, il giudizio di causalità assolve una fondamentale e duplice funzione. E cioè, consente, in un primo momento, nell’ambito di un’indagine materiale, di ricostruire il fatto dannoso naturalisticamente, ricercando il collegamento  tra la condotta del soggetto agente e l’evento dannoso in grado di condizionare l’an della risarcibilità (c.d. causalità materiale); e in un secondo momento, sul presupposto dunque del già avvenuto giudizio di imputabilità dell’evento alla condotta dell’autore, permette di individuare il quantum dell’obbligazione risarcitoria, mediante la ricerca, questa volta, del collegamento tra il fatto hic et nunc verificatosi e le risultanze dannose che ne siano immediata e diretta conseguenza. Essendo infatti, a mente dell’art. 1223 c.c., applicabile per il viatico dell’art. 2056 c.c. anche all’ipotesi della responsabilità aquiliana, a formare oggetto dell’obbligo risarcitorio esclusivamente queste ultime (c.d. causalità giuridica).

Orbene, quanto all’indagine circa la causalità materiale, prima fase dell’accertamento diretta a verificare, dunque, che un evento dannoso sia la conseguenza di una determinata azione, stante la lacuna normativa in seno al codice civile, si ritiene pacificamente applicabile il combinato disposto di cui agli artt. 40 e 41 del codice penale. In particolare, le norme penali richiamate, sanciscono il principio dell’equivalenza causale tra cagionare un evento e non impedire un evento che si ha l’obbligo giuridico di evitare, circoscrivendo così la rilevanza del valore causale dell’omissione alle ipotesi di sussistenza di un obbligo giuridico di protezione o di azione; oltre a quello per cui è richiesto che la condotta umana abbia concorso sul piano naturalistico a cagionare l’evento dannoso o pericoloso.

Quanto a tale ultimo assunto, noto in dottrina come il portato della teoria della condicio sine qua non, si ritiene che l’art. 40 c.p. vada interpretato nel senso che, la causalità materiale tra azione ed evento lesivo, debba ritenersi sussistente ogni qual volta l’agente abbia realizzato una delle qualsiasi condizioni in presenza delle quali l’evento si è effettivamente verificato, attribuendosi peraltro pari valore causale, o meglio valore causale equivalente, ad ogni singola concausa che sul piano naturalistico abbia contribuito alla causazione dell’evento.

Chiare però, sin da tempi ormai risalenti, le criticità di una siffatta impostazione e soprattutto le aberranti conseguenze della possibilità di regredire sino all’infinito per rintracciare gli antecedenti che possono dirsi causa dell’evento, sono stati elaborati, dapprima in seno alla dottrina penalistica, correttivi alla teoria della condicio sine qua non che hanno condotto alla affermazione della più ragionevole concezione della c.d. “causalità adeguata”. Più in particolare, la giurisprudenza civilistica, ha salutato con favore quella esegesi elaborata in ambito penale a rigore della quale il problema dell’efficienza causale sia in realtà stato risolto dallo stesso legislatore penale all’art. 41 c.p. ove, al comma 2 di tale disposizione, riconosce idoneità di fattore interruttivo del nesso eziologico ad una causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento lesivo, e dunque a determinare l’intera serie causale successiva. Più nel dettaglio, la causa sopravvenuta, pur ovviamente non facendo venir meno l’essenza naturalistica degli antecedenti, toglie rilevanza giuridica a tali fattori i quali non possono neppure essere qualificati come concause, non essendo efficienti per la verificazione dell’evento, ma bensì semplici condizioni. Pertanto, alla stregua di un giudizio da condursi ex ante secondo la regola della teoria della causalità adeguata, dal combinato disposto degli artt. 40 e 41 c.p., per accertare il nesso causale, si devono prima rintracciare tutte le cause possibili di un evento (teoria della condicio sine qua non), e poi successivamente, devono selezionarsi solo quelle idonee, adeguate, ex ante appunto, a cagionare l’evento. E tanto sulla scorta di un giudizio che tenga conto delle serie causali possibili alla stregua di un calcolo della regolarità statistica, di tal che l’evento non appaia imprevedibile conseguenza dell’antecedete causale considerato in astratto, ma bensì quale un suo “normale” epilogo.

Problema che si pone, con particolare riguardo all’ambito medico, e che occorre a questo punto analizzare, è quello relativo alla indagine causale nell’ipotesi in cui abbia contribuito alla verificazione dell’evento una causa c.d. naturale, per definizione non imputabile in quanto non ascrivibile ad una condotta umana, quale ad esempio è quella relativa alle preesistenti condizioni di salute precarie del paziente danneggiato.

Ora, ove tali cause naturali non siano sopravvenute ed idonee alla interruzione del nesso ex art. 41 comma 2 c.p., si pone il problema circa la rilevanza da attribuire alle stesse.

Secondo un orientamento minoritario in tali casi la responsabilità del danneggiante andrebbe ripartita sulla base dell’effettivo apporto causale determinato dalla condotta umana, non potendo il soggetto essere chiamato a risarcire per intero un danno che sia stato causato solo parzialmente dalla sua condotta. Una siffatta conclusione, a mente dei fautori di detta esegesi, sarebbe imposta, oltre che dal combinato disposto degli artt. 1227, comma 1 e 2055, comma 2, c.c., da ragioni di giustizia sostanziale, risultando iniquo che il danneggiante debba sopportare interamente le conseguenze dell’evento dannoso, nonostante tale evento sia stato determinato in parte da cause naturali a lui non imputabili.

L’orientamento giurisprudenziale prevalente, invece, coerentemente alla premessa di cui innanzi, attribuisce rilevanza, ai fini dell’accertamento della responsabilità, alla concausa naturale solo laddove essa, in applicazione della regola generale fissata dall’art. 41 comma 2 c.p., sia in grado di interrompere il nesso di causalità tra condotta e evento. In caso contrario, il soggetto al quale sia imputabile una concausa dell’evento risponde anche della concausa naturale, pur se a sé non imputabile. Ed invero, anche se il medico con la propria azione od omissione abbia fornito solo un minimo contributo causale, e dunque efficiente, alla produzione dell’evento, egli risponderà per intero, nonostante il concorso di cause naturali allo stesso non imputabili; dovendosi, quindi, ritenere sussistente il nesso di causalità materiale tra la condotta del sanitario e l’evento lesivo prodottosi nella sfera giuridica del paziente.

Se quanto detto vale in sede di accertamento della causalità materiale e, quindi, dell’accertamento della responsabilità del soggetto, in termini di attribuibilità del fatto al suo autore, lo stesso non può affermarsi, senza ulteriori precisazioni, in sede di causalità giuridica.

Sotto il profilo della causalità giuridica, infatti, le concause, anche naturali, assumono rilievo, come anticipato, ai fini del quantum del risarcimento.

Orbene, a questi fini occorre evidenziare nuovamente che, secondo la regola generale stabilita dall’art 1223 c.c., danni risarcibili sono solo quelli che costituiscono “conseguenza immediata e diretta” del fatto illecito. Come precisato dalla giurisprudenza, però, tale concetto deve intendersi in senso elastico, e tanto poiché ai fini della sussistenza del nesso di causalità giuridica, vanno ricomprese nel risarcimento anche le conseguenze solo apparentemente indirette e mediate, tali allorché, secondo il principio della regolarità causale, si presentino come effetto normale e prevedibile del fatto illecito, e quindi anch’esse, sostanzialmente, come immediate e dirette. La prevedibilità, da intendersi chiaramente in tale ambito in senso puramente oggettivo, prescindendosi da ogni riferimento alla diligenza e all’elemento soggettivo dovendosi qui stabilire il collegamento di una perdita economica connessa ad un evento dannoso in una situazione tipo, costituisce, dunque, la regola alla quale ricorre la giurisprudenza al fine di valutare se un dato evento sia conseguenza di un certo fatto e, quindi, se il danno, o meglio quale danno, sia conseguenza diretta e immediata.

Ne consegue che, ove le concause naturali, fuori dall’ ipotesi di cui all’art. 41 comma 2 c.p., abbiano contribuito a determinare l’evento che viene, però, materialmente ed anche integralmente imputato al sanitario, per come innanzi precisato, le conseguenze risarcibili, determinate dalle stesse (cioè dalle concause naturali), affinché possano essere liquidate in quanto “dirette ed immediate” ai sensi dell’art. 1223 c.c., è necessario che siano ricomprese in una serie normale o di regolarità statistica. Più semplicemente, la sussistenza di concause naturali, pur non facendo venir meno l’attribuibilità del nesso di causalità materiale del danno alla condotta del medico, può condizionare il quantum della risarcibilità, per come si evince dal giudizio sulla causalità giuridica. Ovviamente, però, affinché possa essere mitigato il quantum del risarcimento, deve comprendersi se l’influenza di cause naturali sia o meno ricompresa in una serie di causalità naturale, regolare, statistica. Poiché, se le stesse non siano prevedibili oggettivamente ex ante, pur non condizionando l’an della risarcibilità, fanno venir meno il carattere “diretto ed immediato” di tutte le conseguenze che si sono verificate.

In tal caso l’agente sarà tenuto al risarcimento del solo c.d. “danno differenziale” tra quello che si sarebbe verificato indipendentemente dalla propria condotta lesiva ed i maggiori danni sopravvenuti per effetto esclusivo della sua condotta, non potendosi  addossare in capo al danneggiante il risarcimento per intero, essendo intervenuto nella produzione dell’evento anche un fattore indipendente dalla sua condotta. E soprattutto perché, ragionando a contrario, verrebbe svilita la funzione recuperatoria cui la responsabilità civile è tesa, con la paradossale ed inammissibile conseguenza di una locupetazione a favore del danneggiato e una misura particolarmente afflittiva, sanzionatoria, che il medico danneggiante sarebbe chiamato a pagare.

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